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Recensione: The Raunch Hands – Payday (1989)

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L’approdo “ufficiale” alla Crypt dei Raunch Hands avviene nel 1988. Tim Warren prenota i Coyote Studios per due giorni, l’8 e il 9 ottobre, per registrare il nuovo disco della band. Tim è uno cui piace fare le cose senza troppi fronzoli, ama il rock ‘n’ roll che viene dalle viscere, senza laccature e superfici a specchio. Che tanto i suoi idoli non hanno facce che meritano di essere guardate. I Raunch Hands, pure. Due giorni sono più che sufficienti.

Alla fine delle due giornate Mike Mariconda e Mike Chandler, orfani del terzo Mike (Tchang, autore di buona parte del primissimo repertorio), consegnano a Warren la bobina di Payday, che verrà impacchettato in una bella copertina firmata da Dan Clowes (quello di Las Vegas Grind ma pure di un’enormità di altre cose, non solo musicali) e pubblicato l’anno successivo.

Payday, rispetto all’honky tonk da osteria dei primi dischi, abbonda di coloriture black. Come se quel frat rock degli esordi fosse stato volutamente sgusciato per riempirne le cavità con un’irruenza che viene dalla soul music e dal r‘n’b ma senza perdere un solo milligrammo delle sue proprietà abrasive. Tredici canzoni sporche come dei kleenex abbandonati in una piazzola di sosta. I Raunch Hands sono il bacio sporco del rock and roll. Lì dove la lingua di Jagger si insinua e le labbra della Turner colano di piacere. (Franco Dimauro)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 12 Gennaio 2016

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