Nutro il massimo rispetto per Bowie. Uno che quando aveva diciassette anni pubblicava già il suo primo singolo, che quando ne aveva 25 si preparava al grande assalto di Ziggy Stardust, che a 38 cantava al Live Aid, che a 65 prendeva un taxi a New York e che a 78 probabilmente sarà un astronauta, merita devozione assoluta.
Il gioco in rete, su cui ci siamo divertiti un po’ tutti, si chiama supbowie.com e, la mattina dell’11 gennaio 2016, è stato solo modificato con due righe che fino alla sera prima non c’erano. So che le avete già viste. E Bowie non amerebbe ripetersi sul già visto. Solo tre giorni prima David aveva festeggiato il suo sessantanovesimo compleanno. Un numero che graficamente può essere rappresentato con lo Yin e lo Yang. Il momento esatto in cui tutto può compiersi come un’estrema messinscena di gran classe.
Va via su una stella, Bowie, così come molti anni prima si era fantasticato fosse arrivato sul nostro pianeta. Una stella nera destinata a diventare uno dei simboli più postati in rete dentro cui racchiude il disco destinato a lasciare la più lunga scia di interpretazioni (dalle critiche frettolose subito rivedute e corrette a quelle esoteriche) tra tutti quelli prodotti nella sua lunga carriera. Ci lascia una stella nera e va via firmando la sua ultima e-mail come Dawn. Lasciandoci al buio.
“Con cosa ci stupirà?”, la domanda più diffusa prima che la valanga di emozione travolgesse tutti. Perché c’è gente che si stupisce ancora con un disco di Bowie. E questo è di una bellezza e di una poesia disarmanti. Personalmente, da quando ho “agganciato” i dischi di Bowie in sincrono con la loro uscita (ovvero da Scary Monsters) nessuno di loro mi ha stupito se non in maniera negativa. Ma questo non fa statistica. Anche perché il valore assoluto dei suoi dischi degli anni Settanta non ne viene scalfito. Quel valore però altera spesso il giudizio di quanto è successo dopo. È una sorta di assicurazione sul capitale investito che inquina ogni giudizio che si sforzi di non essere arbitrario.
La premessa era lunga, ma necessaria.
E ora veniamo a ? (Blackstar), disco n. 26 della lunga carriera del musicista caduto sulla Terra. Un album che contiene al suo interno tanti tasselli del Bowie che già conosciamo, soprattutto quello di Heathen ed Earthling ma anche di Station to Station, Black Tie White Noise e certi sperimentalismi della trilogia berlinese. Sassofoni svolazzanti su tapiroulant ritmici a velocità variabile, concessioni al pop rase al suolo e un senso di inquietudine reso manifesto già dai dieci interminabili minuti della liturgia propiziatoria di Blackstar e ben replicato più avanti su Lazarus o Girl Loves Me.
? è un album pieno di brutti presagi e angoli bui, incline al jazz nella stessa maniera trasversale, ambigua, disarcionante in cui potevano esserlo i Thievery Corporation, Eric Mingus, i Massive Attack claustrofobici di Blue Lines o i Talk Talk degli ultimi dischi, mostrando il coraggio di chi, alla soglia dei settant’anni, ha sentito più la necessità di far quello che gli pare più che assecondare la voglia di stupore dei suoi fan e dei loro figli.
Stupiti? Bene. Pronti a perdonare tutto quello che prima non avete saputo perdonare schiacciati dall’arte sublime del riscatto tardivo? Missione compiuta, Maggiore Tom. “Torre di Controllo a Maggiore Tom comincia il conto alla rovescia, accendi i motori, controlla l’accensione e che Dio ti assista.” (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 13 Gennaio 2016