Chi ha bisogno dei Chills oggi? Probabilmente nessuno. Forse di loro si sono dimenticati anche i pochi che fecero di Submarine Bells un piccolo successo indie. Il tempo inghiotte tutto e tutti, soprattutto i più deboli. E i Chills non erano, non sono, un gruppo che scolpisce la propria musica sull’acciaio. E non hanno alle spalle nessuna multinazionale capace di pilotare il gusto del pubblico. Una band piccola e sommersa come quelle campane di cui cercò di evocare il suono nel lontano 1990, esiliata ai bordi dell’Impero (Nuova Zelanda), intenta a pennellare canzoni docili che si muovono tra folk, psichedelia, new wave, abbracciando, per chi ha memoria e discoteca buona, Felt, Playmates, Go-Betweens, Robyn Hitchcock o i primissimi R.E.M. e Commotions.
Il rientro in scena avviene a venti anni dall’ultimo album e a dieci dall’EP in cui Martin Phillips, custode unico della sigla, annunciava nuove direzioni che in realtà e per fortuna non sono state intraprese. La musica dei Chills rimane fedele a quello sciame magico che in pochi conosciamo e di cui pochi, dicevo, sentiamo il bisogno. Eppure quando partono le melodie gioiose di Aurora Corona o When The Poor Can Reach The Mood pensi che, nonostante non abbia mai sentito il bisogno di intraprendere questo viaggio, alla fine ti sei ritrovato, vai a vedere come, nel posto giusto. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 28 Febbraio 2016