Chi è stato Russ Meyer? Che cosa ha rappresentato per il cinema? Una macchina da presa tra le gambe dell’american dream (?!) – parafrasando il titolo di un saggio uscito per Castelvecchi – o cos’altro ancora? Sarà mai possibile giungere a una sintesi critica tra chi lo ha (troppo in fretta) liquidato come un erotomane da strapazzo e chi, al contrario, lo ha magnificato come uno dei più originali cineasti di cinema “deteriore”?
Ogni volta che un suo film viene programmato, specialmente sugli schermi televisivi (si ricordano con piacere gli speciali di “fuori orario”, indimenticabile quello del 13 ottobre 2008) ci viene fornito lo spunto per una riflessione sulla sua opera o, più in generale, si presenta un’occasione (l’ennesima) per riconciliare il nostro snobismo con il cinema “invisibile”. Invisibile perché dimenticato o, nella migliore delle ipotesi, relegato nel ghetto del genere di “serie b”, quello che è figlio di un dio (recensore) minore. Sbaglierebbe, comunque, chi pensasse di ricondurre la produzione cinematografica di Russ Meyer alla sola “poetica delle tette grosse”.
È innegabile che sia stato influenzato dal “burlesque” e da una giovinezza passata su decine di set fotografici erotici. In lui prevale, infatti, la visione “bigger than life” delle eroine da peep show che lo accomunano all’immaginario felliniano ma il suo primo vero successo Lorna – rielaborazione erotica del neorealista Riso amaro di De Santis – indica inequivocabilmente una passione forte per il cinema europeo e la volontà, allo stesso tempo, di affrancarsi dai cliché per giungere a un’estetica autonoma stemperata dal rigore algido – per esempio – di un Radley Metzger altro paladino del cinema della tripla x(xx). Un’estetica, dunque, che avesse una vocazione autenticamente pop(olare) e che lo identificasse immediatamente.
Negli anni successivi Meyer, seppur con risultati artistici alterni, centrò l’obiettivo di creare – sulla falsariga warholiana – una factory “camp” dell’eros: tentativo paradossale di depotenziare attraverso l’iperbole di corpi enormi e grotteschi la forza dirompente del sesso e di far piazza pulita di tutte le discussioni sulla sessualità post-sessantottesche. Il misto di vizio, innocenza, ingordigia fanciullesca e feticismo gioioso, quanto sgangherato, trasgredisce il concetto di decente distruggendo il rapporto fra erotismo e critica sociale che era stato il tratto saliente del cinema degli anni ‘60 e ‘70. Scordiamoci il Godart che usa il tema della prostituzione come metafora approdando a deduzioni politiche o al delirio visionario de L’impero dei sensi di Oshima o all’agonia della cultura borghese e delle sue mortali contraddizioni de Ultimo tango a Parigi. Anche per Russ Meyer – come per Borowczyk, Morrissey, Bakshi e l’ultimo Pasolini – l’erotismo è una sorta di grado zero dell’esistenza che spiega l’agire umano senza, però, il radicalismo esistenzialista degli altri autori: solo rapporto tra i sessi e rimedio iperattivista contro il male di vivere – sì – senza essere spietato meccanismo di sopraffazione, solo una risposta primitiva quanto sincera all’impulso.
Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1965), invece, è una delle opere più gotiche di Meyer e rappresenta – prima che prevalesse la visione pansessualista – il tentativo – sempre iperbolico – di guardare il cuore nero dell’america violenta e contadina che è, al contempo, il fondamento stesso dell’america intera: un paese sempre sospeso tra impulsi innovativi e la brutalità spiccia del mito della frontiera “western”. Probabilmente il capolavoro di Meyer, il simbolo e il significato stesso della produzione cinematografica del regista: l’ossessione per il corpo. È la storia di tre sexy go-go dancers (spogliarelliste), Varla, Rosie e Billie, che passano il tempo gareggiando in velocità con potenti automobili nel deserto californiano. Varla è il capo, aggressiva e dominante, Rosie il suo fedele soldatino e Billie la più allegra e svampita ma anche la più sensibile. Quando la gara con un ragazzo, Tommy, termina con la morte del malcapitato, le tre rapiscono la fidanzata Linda e, durante il sequestro, raggiungono il ranch di un vecchio invalido e dei suoi due figli: Kirk, gentile ed educato, e il ritardato ”Boy”. Varla e le complici, credendo che l’anziano e scorbutico proprietario nasconda nella fattoria una grossa somma di denaro e determinate a impossessarsene, cercheranno di sedurre i due giovani elaborando un piano rocambolesco che finirà con la morte violenta di alcuni dei protagonisti ma da cui Kirk e Linda riusciranno a salvarsi.
Faster, Pussycat! Kill! Kill! è girato in un crudo bianco e nero, che con efficacia e incisività mette in risalto le forme e le tonalità dei protagonisti conferendo al paesaggio in sé naturalistico l’idea “astratta” di un luogo ostile. Il film è segnato in maniera evidente dall’azione fisica, dal frenetico movimento dei corpi (evidenziato da un montaggio anch’esso velocissimo) che s’agitano sui larghissimi spazi vuoto del deserto del Mojave con una furia che sembra uscita dal cinema di Don Sigel per abbracciare il caricaturismo fumettistico di Al Capp e il tratto cartoonistico di Avery. La costellazione comprende anche l’immaginario letterario del sud paludoso e miserabile di un Faulkner o di un Tennessee Williams contrappuntato in maniera spiazzante dal meticcio terzetto femminile protagonista: mai nessuno, infatti, aveva osato rappresentare la donna con un’iconografia così furiosamente dionisiaca come la Tura Satana dalle sopracciglia kabuki-style e dalle mammelle appuntite come missili. Il vorticoso ebbro danzare della telecamera scolpisce un feticcio-femmina in cui è racchiusa violenza, soddisfazione sessuale, sopraffazione, fascinazione, terrore, maternità, disgusto. Certamente uno sberleffo iconoclasta proto-punk concepito in evidente stato di geniale alterazione.
La cultura pop ha mutuato più d’un feticcio meyeriano pur nella generale sottovalutazione della sua filmografia. Pochi autori lo hanno veramente amato pur mutuandone la tecnica di ripresa fast and furious: solo Tarantino e John Waters lo hanno apertamente elogiato e citato (plagiato?). Russ Meyer – a ben vedere – è stato un virus che ha infettato l’estetica post-moderna: dalle donne barrate dal fallo di Paul Verhoeven al feticismo di Helmut Newton, da Sandahl Bergman a Madonna, da Jean-Claude Van Damme a Lanna Clarkson. È stato un bene o si è trattato di un male? A distanza di così tanti anni possiamo dire che è venuta completamente meno (nel costume della società e nell’arte) l’ironia che è sempre stato tratto distintivo del regista. “I suoi film erano pieni di humor. Russ era molto raffinato. Tu credevi di ridere di lui ma era lui, al contrario, che stava ridendo di te”, ha detto il suo assistente Richard Brummer. A ben vedere oggi è rimasto, purtroppo, solo il cattivo gusto. (Nicola Pice)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 2 Novembre 2016