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Recensione: Margherita Zanin – Zanin (2016)

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L’ascolto di questo esordio di Margherita Zanin mi lascia in più momenti felice e senza parole. Non sto esagerando e non è una reazione da invasato ne tanto meno voglio restituire a questo disco più di quel che merita. Di sicuro dietro troviamo Roberto Costa a guidare la produzione e questo significa già che non è proprio farina di un sacco caricato sulle spalle di un artista emergente. Ma va anche detto che la Zanin, per quanto giovane, non è per niente alle prime armi, anzi.

Detto questo, sono più reduce da sentimenti legati a espressioni come “Finalmente! Allora l’indie italiano non è solo gente che urla prediche sacerdotali senza troppa intonazione e con distruzioni confuse che ammassano tutto come capita”. E vai a vedere la critica che ne vien fuori da questo disco e ritrovo in più punti qualcuno che la pensa così, e me ne compiaccio. Perché Zanin, titolo omonimo, è un disco bellissimo, professionale, grandemente prodotto e arrangiato come si deve, ma soprattutto – e diciamo finalmente – è un disco che davvero si contamina di attualità. E questo lo considero un concetto importante: perché oggi il presente è un momento in cui tutto il mondo comunica con tutto il mondo. Quindi essere attuali per me non significa usare la tecnologia per ritrovarsi a fare del pop nostrano o della musica underground che, senza rendersene conto, scimmiotta quello che facevano almeno 20 anni fa in altri posti.

Essere attuali per me significa fare un disco che abbracci con gusto, rispetto e maturità il passato mettendolo in scena con i suoni di oggi, con le contaminazioni e con quel respiro privo di confini. Dunque Zanin si apre con due brani in italiano di cui uno è Generale di De Gregori (unica cover del disco) e l’altro è l’inedito di lancio Piove che si mostra industriale e malinconico. Anche la voce della Margherita Zanin ha un taglio decisamente incline alla tristezza e in una certa misura lei punta volutamente in questa direzione in quasi ogni canzone che c’è.

L’ascolto poi prosegue con altri 6 inediti in lingua inglese dove il blues e il soul americano, quello verace, incontra la forma canzone popolare (come nella bellissima Travel Crazy) o dove un po’ sperimenta costumi di grandi produzioni internazionali (come nella splendida The Lord Coming Home) che vedrei bene addosso (anche se con altri suoni) ad artiste come Norah Jones per esempio. E poi troviamo anche il classicone “blues on the road” dal titolo Joe’s Blues dove c’è solo una chitarra resofonica (forse) che appena si sente ci riporta timidamente a quel periodo da chopper, bandane alla testa e sigarette sotto la manica della maglietta.

Insomma Zanin è sicuramente un lavoro fuori dal coro dei tanti artisti indie di questa “nuova” musica italiana. Perché dove mi giro trovo burattini dei talent o rivoluzionari distorti. Una via di mezzo? C’è! Dura da trovare, per niente scontata, ma c’è. E la Zanin sicuramente la metterò ai primi posti di questa categoria. Buon Ascolto. (Alessandro Riva)

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