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(Ri)visti in TV: 2001 – Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968)

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Preistoria: un branco di scimmie dai comportamenti antropici s’imbatte durante il giorno in uno strano monolite nero da cui sembra fuoriuscire un sibilo molto acuto. Le scimmie vengono attaccate da un altro branco e nel corso della lotta una di esse, maneggiando la tibia di uno scheletro, s’accorge che può essere impiegata come arma e la lancia nell’aria. L’osso, volando in cielo, si trasforma in un’astronave.

Con questa sbalorditiva ellissi visiva avviene la transizione dall’età primitiva (l’alba dell’uomo) al futuro: siamo nel 2001 e la navicella spaziale si sta recando nella stazione orbitale dove è giunto lo scienziato americano Floyd in transito verso la base lunare Clavius dove riappare il monolito delle scimmie preistoriche. La possibile soluzione del mistero è probabilmente su Giove verso cui, a sua volta, punta l’astronave Discovery pilotata dal computer HAL 9000, macchina evoluta a tal punto da poter interagire con gli esseri umani, sorvegliata dagli astronauti-scienziati David Bowman e Frank Poole che, durante la navigazione, hanno la sensazione che il computer stia commettendo degli errori.

Nel corso del controllo HAL 9000, offeso dalla mancanza di fiducia, si ribella all’equipaggio e provoca la morte di Poole facendolo precipitare nello spazio. Ingaggia una lotta spietata con Bowman ma, alla fine, soccombe e viene disattivato. A questo punto lo scienziato viene catapultato in un vortice di luci, forme e rumori che lo portano in una camera da letto rococò dove invecchia rapidamente e muore. Riappare il monolito, tutto si colora di nero come fosse lo spazio astrale e compare una specie di feto che sembra rivolgersi allo spettatore.

Stanley Kubrick, ossessionato dall’idea di realizzare un film di fantascienza, era alla ricerca di un soggetto che potesse essere cinematograficamente valido sin dalla fine degli anni ‘50 (del ‘900). Vana, peraltro, era stata la lettura dei principali scrittori di questo genere letterario…almeno fino al momento dell’incontro fortuito nel 1964 con Arthur C. Clarke che gli propose di sceneggiare “La sentinella”, un racconto scritto per un concorso bandito dalla BBC vent’anni prima. Il lavoro di scrittura, durato quasi due anni, impegnò entrambi in maniera contemporanea: Clarke sviluppò l’idea già contenuta nel racconto – la scoperta di un monolito lasciato come segnale da visitatori extraterrestri – integrandolo con altri due testi, “Encounter in the Dawn” e “Guardian Angel”, e Kubrick, invece, lavorò alla sceneggiatura.

Il materiale, elaborato separatamente, confluì alla fine in una storia unica – 2001: Odissea nello spazio – il nucleo costitutivo del nuovo romanzo di Clarke e, ovviamente, del film di Kubrick, le cui riprese iniziarono alla fine del 1965 negli studi inglesi di Boreham Woods (location preferita sin dai tempi di “Lolita”) e durarono sette mesi. L’opera del regista americano, che uscirà nel 1968, aveva in origine la durata di 160 minuti ma, dopo la prima rappresentazione, egli stesso decise di accorciarla di una ventina di minuti eliminando le scene relative alle scimmie, al monolito sulla luna e alla vita degli astronauti del Discovery e aggiungendo i titoli “18 mesi dopo: in missione verso Giove” e “Giove e oltre l’infinito”.

Pare, inoltre, che la versione originale contenesse numerose scene ambientate nella New York contemporanea e che la sequenza relativa alla “Porta delle Stelle” fosse commentata in “voice-over”. Quando vede la luce 2001: Odissea nello spazio, quindi, Stanley Kubrick è già un affermato uomo di cinema non solo in grado di imporre le proprie decisioni alle major hollywoodiane (il film è infatti co-prodotto insieme alla Metro Goldwyn Mayer) che gli consentono indipendenza artistica ma soprattutto di (per)seguire un preciso tracciato autoriale che, muovendo i suoi passi dal cinema (dei generi) classico, mediante un discorso marcatamente personale giunga ad un rinnovamento degli stilemi dell’industria cinematografica d’intrattenimento avvicinandosi di più a quelli del cinema d’arte europeo.

2001: Odissea nello spazio, pertanto, come le opere precedenti degli anni ‘60 e soprattutto le successive degli anni ‘70, porta con grandissima evidenza il segno di uno stile già inconfondibile: da una parte la volontà di strutturare il film in una maniera “esposta” articolandolo in blocchi narrativi evidenziati dalla voce narrante o dalle didascalie che vengono organizzati in un gioco di corrispondenze formali con precisi schemi simmetrici; dall’altra l’impiego di espedienti visivi e sonori che “ricorrono” con frequenza in tutta la sua produzione. Pensiamo alle celebri “carrellate all’indietro” (quando Bowman corre sul ponte della Discovery) o alla “camera a mano” (che Kubrick magistralmente conduce nella processione lunare nello scavo intorno al monolito, nel combattimento tra le scimmie e in molte sequenza sulla navicella), all’ossessione per il XVIII secolo che viene sublimata nella rappresentazione della stanza rococò, bianca e verde, durante la scena finale, all’uso insistito della figura geometrica circolare (simbolo dell’eterno ritorno) mediante la riproduzione dei pianeti, della stazione spaziale e delle navicelle, al cromatismo del rosso con cui sono colorati i corridoi di accesso alle navi spaziali, l’occhio di HAL, la tuta di Bowman, allo “sguardo fisso” di derivazione espressionista (la scimmia che guarda la luna, Bowman che fissa l’universo) che ferma il tempo narrativo e fa emergere l’inquietudine dei protagonisti o i loro demoni interiori (mentre Bowman attraversa i corridori della Porta delle Stelle le immagini della sua testa si fissano sperdute e si contorcono seguendo quasi un immaginario flusso scomposto del pensiero). Un’analisi a parte, invece, merita la “sonorizzazione” complessiva dell’opera e, in particolare, la modalità di impiego dei motivi musicali che il regista sincronizza perfettamente con le immagini sin dai titoli di testa evidenziando la volontà di conferire alla musica stessa uno spazio autonomo privo dell’interferenza dei dialoghi.

In 2001: Odissea nello spazio, infatti, il magistrale accostamento tra le immagini stesse e brani sinfonici preesistenti fortemente autonomi (come ad esempio “Così parlo Zarathustra” di Strauss e il valzer viennese “Sul bel Danubio blu”) determinando un’inevitabile sensazione di straniamento, ha lo scopo di creare un’esperienza audiovisiva che, dipanandosi attraverso temi conduttori figurativi e sonori, superi le categorie verbali (tradizionalmente legate ai dialoghi) entrando nel subconscio con una forte spinta verso l’astrazione. Pertanto, la maniacale cura del dettaglio, la sofisticata sapienza tecnica (non si possono dimenticare gli effetti speciali di Trumbull, il lavoro di manipolazione dei rumori, la modulazione della voce umana), il montaggio impeccabile che indugia sulle attese e raccorda le pause plasmando il racconto stesso, ancora una volta e, forse, ancor di più che in tutti gli altri film di Kubrick, non costituiscono uno sterile esercizio di stile ma rappresentano il desiderio di superare i confini del genere inventando nuove forme espressive. Il modello narrativo stesso del film, infatti, contraddicendo l’estetica fantascientifica, è, soltanto in apparenza, quello di un thriller che, attraversando differenti epoche storiche dell’umanità, analizza il rapporto tra gli esseri umani e gli strumenti di cui si è dotato (l’osso, le navi spaziali, il computer) che servono per superare i limiti fisici e che, al contempo, possono impedire un salto evolutivo se vengono impiegati per uccidere (anche se la parte finale non chiude la porta ad una possibile palingenesi liberatoria oltre gli strumenti esterni e la gabbia corporea).

In verità, a conclusione di ogni possibile analisi, appare del tutto evidente come 2001: Odissea nello spazio sia l’opera più complessa e indecifrabile di Kubrick, dalla non facile classificazione: una giustapposizione di elementi differenti (la fantascienza “distopica” della preistoria, l’esplorazione “futura” dello spazio e dell’iperspazio, la mutazione umana) che si uniscono senza un ordine apparente, in maniera, oseremo dire, allucinatoria per assumere le fattezze di un poema/apologo filosofico sul mistero della vita umana e sui limiti della conoscenza scientifica stessa. I temi che vengono affrontati (la relatività, il ciclo della nascita-vita-morte-rinascita) lambiscono la metafisica e sintetizzano la “teologia laica”, impregnata di materialismo scientista e raziocinante, dell’uomo moderno, che è propria anche dell’autore Kubrick, ma allo stesso tempo ne evidenziano tutto lo smarrimento, al contempo gonfio di speranza e timori, di fiducia e disperazione, nei confronti di un futuro imponderabile e, probabilmente, mai del tutto comprensibile. (Nicola Pice)

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