Lo sceneggiatore Joe Gillis che galleggia cadavere in una piscina, rievoca le storia della propria vita. Racconta il fallimento professionale della sua attività di scrittore (i copioni proposti sono respinti dai produttori, il suo agente l’abbandona) e i conseguenti problemi finanziari. Inseguito dai creditori che vogliono sequestrargli l’auto e con la stessa in panne, s’imbatte in una grande villa hollywoodiana di proprietà di Norma Desmond, vecchia diva del cinema muto, che ci vive da reclusa in compagnia del marito ed ex regista Max von Mayerling che ormai svolge, decaduto anch’egli, le funzioni di maggiordomo e autista.
Il fortuito incontro offre un’opportunità di lavoro a Gillis che riceve dalla Desmond il compito di aiutarla a scrivere una sceneggiatura per un film su Salomè che la donna s’illude di interpretare affidandone la direzione al celebre regista Cecil DeMille. La collaborazione si trasforma ben presto in un relazione morbosa e opprimente: lo scrittore viene continuamente tormentato dalle manie ossessive della Desmond e dalla sua ansia di ritornare a recitare e di fatto si ritrova ad essere sequestrato nella casa. Gillis, di tanto in tanto, evade furtivamente dall’abitazione, conosce una ragazza che lavora alla Paramount e cerca con lei di rielaborare un vecchio copione rifiutato in passato. La diva scopre la relazione e tenta invano di costringere lo scrittore a lasciare la ragazza. Gli eventi precipitano. Gillis prepara i bagagli e abbandona la villa nonostante le implorazioni isteriche della Desmond che per fermarlo gli spara accanto alla piscina dove ricade morto.
L’anziana diva, ormai impazzita, scende le scale dell’abitazione credendo di interpretare la scena di un film e si consegna alle inquadrature dei cinereporter accorsi per riprenderne l’arresto. La sequenza iniziale del cadavere galleggiante di Joe Gillis (e della voce fuori campo dello stesso a rievocare gli eventi su cui è basato il film) che immerge repentinamente lo spettatore in un’atmosfera di indeterminatezza e di inquietudine – unanimemente giudicato geniale “trick” narrativo – verrà adoperato da Billy Wilder soltanto dopo aver constatato l’effetto comico (sul pubblico) dell’opening act pensato in origine: il racconto della storia da parte del protagonista nell’obitorio a tutti gli altri defunti, adagiato sul lettino, con una targhetta penzolante dalle dita dei piedi.
Probabilmente Viale del tramonto (1950) avrebbe assunto un significato diverso sbilanciandosi nella parte iniziale troppo verso un registro grottesco (o, forse, involontariamente comico) quando, al contrario, l’equilibrio di molteplici e differenti elementi stilistici lo rende un lavoro molto complesso, che si ha difficoltà a collocare in un “solo” genere. Idealmente considerato come la terza variazione sul tema degli “sconfitti” (preceduto da La fiamma del peccato nel 1944 e da Giorni perduti nel 1945, seguito da L’asso nella manica nel 1951) rappresenta senza alcun dubbio il vertice della filmografia “noir” dell’autore viennese di famiglia ebrea che, emigrato dalla Germania negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo, aveva potuto coltivare, all’inizio della sua carriera, la passione per la scrittura come sceneggiatore a Hollywood, allievo di Lubitsch, approdando, infine, alla regia dove, almeno al principio, aveva agito su un doppio binario tra comico e drammatico.
Sono ancora lontani gli anni in cui Wilder, dedicandosi in toto alla commedia, diventerà il maestro indiscusso di un cinema brillante, dal retrogusto amarognolo, basato sull’osservazione pungente delle differenze sociali e delle debolezze umane: dopo l’angosciante storia della diabolica coppia di amanti ne La fiamma del peccato (sceneggiata insieme a Raymond Chandler) che si sgretola progressivamente fino alla tragica fine di entrambi e dopo il tormentato realismo dei Giorni perduti sulla vita di uno scrittore alcolizzato, è il turno, quindi, del suo film più sconvolgente e aspro.
Viale del tramonto – come evidenziato nella precedente premessa – si nutre di atmosfere tradizionalmente noir: il racconto di un crimine in “voice over”, che apre e chiude l’opera, già costituisce in sé un elemento di “noirceur” al pari della struttura narrativa stessa che con l’impiego del flashback scandisce l’ineluttabilità degli eventi che vedremo svolgersi intuendo che sono già accaduti; in secondo luogo l’illuminazione a bassa intensità di matrice espressionistica che avvolge ogni inquadratura con la sua cupezza e che Wilder rende, se possibile, più rarefatta, sospesa tra la realtà e l’incubo, spargendo, pare, durante le riprese, davanti alla macchina da presa, polvere di magnesio (inventando di fatto una nuova gradazione di “oscurità”).
Tuttavia, la volontà di affidare a un morto la voce narrante – artificio bizzarro, in un certo senso parodistico, e poco praticato – rivela il proposito di Wilder di superare il genere. Il regista, d’altra parte, disseminando il film di elementi stilistici differenti, conferma questa intenzione e si allontana progressivamente dai contenuti del noir spiazzando di continuo il pubblico: quando pensiamo, infatti, di trovarci di fronte ad un thriller (Gillis, indebitato fino al collo, respinto dai produttori e dall’agente, viene inseguito dagli uomini di una società finanziaria) che, in ogni caso, sappiamo si concluderà tragicamente, l’ingresso del coprotagonista nella villa della Desmond ci catapulta in uno scenario “gotico”, completamente differente. L’abitazione dall’architettura solenne ma ormai in disfacimento, opprimente nei suoi affastellati orpelli barocchi, definisce alla perfezione gli inquietanti personaggi che la popolano, imprigionati in un passato glorioso e ivi sepolti come in un gigantesco sarcofago: la vecchia diva del muto ormai dimenticata, sempre più in balia di un delirio megalomane, regina di un mondo scomparso in cui alle stelle del cinema tutto era concesso; il marito ed ex regista, ridotto al rango di maggiordomo, che, perpetuandone il culto che fu, ha il compito di prendersi cura dell’attrice assecondandone le bizzarrie (il funerale della scimmia imbalsamata è puro dètournament) stando ben attento che le manie suicide non le siano fatali; una corte dei miracoli composta da divi altrettanto disturbati.
Wilder, quindi, sembra intersecare i vari piani del film, tecnico-espressivo-narrativo, in una maniera così mirabile che alla fine il profilmico, il filmico e il contenuto combaciano alla perfezione: vale a dire che la componente figurativa, il montaggio, i movimenti di macchina, gli effetti ottici sono al servizio di una messa-in-scena antinaturalistica, stilizzata che ha il compito di definire questo insostenibile clima di allucinazione e di minaccia incombente, quest’atmosfera di inquietudine indefinita, di distorsione percettiva della realtà. La risonanza tra la lugubre scenografia e le figure umane è, pertanto, reciproca e totale. La correlazione tra ambientazione gotica e personaggi raggelati, grotteschi, infelici è oggettiva in un continuo rimbalzo ”identitario” tra scene, costumi e volti. Viale del tramonto, alternativamente noir grottesco e dramma cinico, intriso di sarcasmo, muta col passare dei minuti, quindi, la propria pelle e non paia un azzardo affermare che assuma le fattezze di un vero e proprio horror dai risvolti psicologici, anticipandone l’estetica e gli elementi.
Viale del tramonto è certamente un film dell’orrore ovvero (anche) un film sull’orrore del cinema come assurdo surrogato della vita, potenziale sorgente di perversioni e degenerazioni. L’autore intercetta lo “zeitgeist” della crisi che ha investito l’industria cinematografica americana del dopoguerra (fine dell’oligopolio delle grandi case di produzione, calo degli incassi, concorrenza televisiva, maccartismo incombente) e con grande coraggio mette in scena una sorta di seduta collettiva auto-psicanalitica e meta-filmica (i protagonisti sono a loro volta autentici divi del passato, Gloria Swanson una grande attrice del muto, Erich von Stroheim un famoso regista) che esplora con rigore i meccanismi della fabbrica dei sogni hollywoodiana e ne denuncia l’assoluta mancanza di umanità.
L’opera di Wilder – che ha una valenza ancora più grande dal momento che sul banco degli imputati siede in ultima analisi la società americana e la sua matrice individualista – che, nel tentativo di superare gli stili e le strutture tradizionali dei generi, anticipa il cinema postmoderno degli anni ‘70, riflessivo e disturbante – è una spietata requisitoria, priva di moralismo e di enfasi ma, nonostante il lucido cinismo e l’amaro sarcasmo, non manca di compassionevole pietà per le vittime dell’infernale meccanismo di Hollywood. Le lacrime di Max che dirige la sua attrice per l’ultima volta quando scende lo scalone della villa accompagnata dalla macchina da presa della realtà (e non più del sogno) sono il cordoglio commiserevole che accompagna un funerale immaginario dove si piange (anche) la morte del cinema che fu e che non potrà più essere. (Nicola Pice)
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