Trasferiamoci in un’America lontana. Siamo ai bordi della grande mela e correvano gli anni ’50. I monti Appalachi determinano il gusto e la storia di un certo tipo di musica che la nostra bellissima Charlie, ormai donna e non più ragazzina. Sposa di questo futuro digitale che se ne infischia dei computer e dei vestiti alla moda. Lei usa i colori di seppia, i suoni di dulcimer, le melodie di un folk che al tempo aveva un piglio sociale ed era il vero motore del popolo quotidiano.
Questo esordio è strepitoso: si intitola Ruins of Memories, 11 inediti e l’ispirazione prepotente che le permette di sposare a pieno un genere che non ascoltavo da tempo. E ci è riuscita, senza se e senza ma. Ovviamente non possiamo pretendere un suono fedele a quel tempo per ovvie ragioni, ma la scrittura, la timbrica, il piglio strumentale e il disegno degli arrangiamenti sono assolutamente vincenti. Brani come Ash ad Arrow penso possa benissimo venir fuori da un disco di Peter, Paul & Mary o ancora brani come Innocent Sweet non dovrebbe stupirci se lo trovassimo dentro un disco di Joan Baez oggi. Che poi c’è del vero quando si dice che in tutto questo suono c’è il futuro che avanza.
Eh sì, perché il magico equilibrio che Charlie ha restituito con questo disco è quello di un dialogo senza tempo, tra le scritture tipiche dell’epoca appalachiana e un piglio quasi digitale di questo anno che corre. E non a caso il disco si chiude con una vena psichedelica e industriale con la bellissima The Road – ispirata dal celebre romanzo di Cormac McCarthy. In rete trovo dei video assolutamente vincenti, in particolare voglio puntare il dito sulla title track del disco che su YouTube si mostra con un piccolo esercizio di cinematografia.
Charlie mi ha fatto venire nostalgia e stupore. Ruins of Memories è un bellissimo esercizio di stile in tempo saturo di proposte digitali e scarsamente innovative. Charlie rispetta la storia e la celebra con ispirazione e personalità guardando al futuro senza farsi prendere la mano, anzi… (Alessandro Riva)
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