Il posto disegnato sulla copertina e suggerito da Amaury Cambuzat come il luogo più adatto dove ascoltare il disco, ovvero una piramide tridimensionale immersa nell’Oceano Pacifico, pare esista veramente. Scoperta per caso da un millantato ricercatore argentino scrollando su Google Earth proprio mentre gli Ulan Bator erano al lavoro per questo loro nuovo disco. Che la si possa raggiungere in qualche modo è poco probabile ma è certo che per ascoltare la musica della formazione franco-italiana occorre davvero proiettarsi idealmente in una dimensione parallela. Essere preparati ad accogliere lo stupore e la meraviglia. E ad affrontare le intemperie di un viaggio degno di tale nome.
Cambuzat è un agitatore musicale la cui coerenza e tenacia è paragonabile a quella di Michael Gira e Colin Newman. Fiero di solcare un mare poco navigabile e pochissimo navigato, costretto a cambiare ciurma ogni volta che è il momento di levare le ancore, pur di andare. Per questo nuovo viaggio si è portato Mario Di Battista dei Saint Ill e il Sergente Zags dei Captain Mantell, complici nell’ormai avviata manovra tesa a rendere la musica degli Ulan Bator sempre più paesaggistica e cinematografica, proseguendo nella costante abiura dal rumore in favore della reiterazione e del minimalismo ritmico e armonico. Ovvio quindi che si senta l’eco dei pionieri krauti così come pure certi rannicchiamenti post-rock di gruppi come June of 44 o Tortoise. Ombrosa ma mai veramente quieta, la musica degli Ulan Bator. Mai serena. Condannata a errare in eterno, senza conoscere dimora. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 6 Aprile 2017