Poco importa che nel titolo del disco non ci sia una sola parola vera (Germania? Solo di adozione, visto che la band affonda le radici nella scena californiana dei vari Mummies, Flakes, Phantom Surfers. Recentissima? Neppure tanto, visto che il nuovo album arriva a coronamento di venti anni di carriera. Successi? Neppure l’ombra, almeno per i canoni attuali).
Quello che conta è che, in termini di adesione ai modelli musicali della prima metà degli anni Sessanta, i Dukes of Hamburg non temono rivali. Equipaggiamento rigorosamente vintage (Vox, Hofner, Amati, Klemt, Sennheiser) e un repertorio fedelissimo alle linee tracciate dalle formazioni capellone della stagione beat europea.
Questo loro nuovo album non si sposta di una sola virgola dalla loro cifra stilistica, con quattordici perle di rock and roll salvifico trafugate dai dischi dei primi Rolling Stones (il titolo, la grafica e lo scatto di copertina sono un’ovvia parodia della versione americana del loro album di debutto), Pretty Things, Herman’s Hermits, Sorrows, Cuby + The Blizzards, Shakers, Zodiacs e riproposte con stile impeccabile.
Facendo proprio il concetto di “limite” creativo teorizzato da gente come Billy Childish o Liam Watson (sintetizzando: se voglio riprodurre il mood degli anni cinquanta non posso affidarmi ad attrezzatura che sia tecnicamente all’avanguardia rispetto a quella di quegli anni, anche se fosse un amplificatore Davoli del ’62, e così via per ogni “fotografia” di qualsiasi epoca storico/musicale) i Dukes of Hamburg riescono a ricreare un’ambientazione del tutto verosimile a quella dei loro riferimenti culturali.
Che in molti casi sono sovrapponibili ai miei. Come in un infinito, appassionante gioco di specchi. Intrappolata in una bolla temporale perfetta la musica dei Dukes of Hamburg ci porta in dono il sempiterno spirito del rock and roll prima del golpe del Sergente Pepe. (Franco Di Mauro)
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