78 settimane. Dalla prima seduta di registrazione del 5 luglio del 1953 fino al 31 dicembre del 1955 sotto le assi degli studi della Sun Records, Sam Phillips si prepara a costruire il più grande, indistruttibile artista pop americano, il profeta bianco venuto da Tupelo per convertire il mondo al Verbo del rock and roll.
Tutti i suoi primi atti apostolici, canonici e apocrifi, quelli che precedono il passaggio alla RCA, vengono pubblicati adesso proprio dall’etichetta che ne acquisì il catalogo per celebrare il quarantennale della sua ascesa al cielo su tre cd e un bel libro-calendario commemorativo.
Acetati, provini, performance nei festival dell’epoca (tra cui quelle al mitico Louisiana Hayride) e negli studi radio del Texas e dell’Alabama (più una piccola intervista a Bob Neal, il manager dell’epoca pre-Parker, registrata proprio a Memphis) messi a disposizione dei fedeli e che documentano tutto il documentabile prima che Phillips vendesse il suo pupillo d’argento per il compenso dovuto ad un idolo d’oro.
Il contratto venne firmato il 21 novembre del 1955 negli studi della Sun Records. Quel patto d’oro non era solo il più ricco contratto discografico mai stipulato fino a quel momento ma la nascita ufficiale della musica giovane come fenomeno di massa, come evento popolare e sociale. Quello che la RCA sta “comprando” non è un bravo musicista e neppure un autore di canzoni (ne scriverà davvero pochissime e mai in autonomia) ma un interprete da dare in pasto a quella folla che sta mostrando un preoccupante interesse per la musica nera, destabilizzando il mercato e, attraverso quello, il potere bianco.
In effetti, mutatis mutandis, comprano davvero un Cristo. Un Cristo nuovo di zecca, pronto a rappresentare il Grande Sogno Americano e che riporti l’egemonia razziale al suo equilibrio di regime. Il mercato è pronto a subire, piegandolo a suo vantaggio, gli “effetti collaterali” di quell’Avvento pur di riacquistare potere persuasivo, di riconsolidare la sua posizione economica (soldi=potere) in quella fetta di torta che è il rock and roll. Che per Elvis, incoronato Re, è più un incidente di percorso che una vera e incrollabile manifestazione di fede. E questo andrebbe ricordato sempre.
Elvis avrebbe “cantato” il rock and roll usandolo come una testa di ariete per penetrare nel tessuto connettivo della società americana, scandalizzando i “matusa” per circuire e corteggiare i teenager. Perché se il sogno americano degli adulti si cortocircuitava nell’acquisto di una macchina, di un nuovo elettrodomestico, di una villetta a schiera, quello dei giovani necessitava di essere veicolato verso la conquista di libertà meno perbeniste.
Indipendenza economica, fame di esperienza, emancipazione sessuale erano quello che i giovani bramavano. Ed era quello che Elvis e la RCA si affrettarono a dar loro, salvo poi tentare l’assalto all’intera diligenza, incidendo dischi di musica buona per ogni palato, per ogni fascia d’età, dai neonati seduti sul passeggino ai settuagenari chiusi nelle case di riposo.
Un archetipo di ribelle che ha la prestanza di un divo del cinema. Vestito da teddy boy ma con la faccia da bambinone. Perché tutti i giovani si identifichino con quell’immagine da teppista ma, allo stesso tempo, ogni mamma incroci in quello sguardo incosciente e sensuale lo stesso sguardo del proprio ragazzo al rientro da una notte brava fuori dalla porta di casa. O quella del proprio marito ormai incartapecorito quando la corteggiava intonando una vecchia ballata country sotto la finestra dei genitori. Un reazionario che ha un suo rispetto per la tradizione, una sua galanteria, un suo fascino da baciamano nascosta sotto il giubbotto di pelle al posto di un revolver.
Un bianco che non sa scrivere canzoni ma che sa muovere il bacino come i neri fanno da oltre un secolo nelle loro chiese battiste, quando sono posseduti dalla febbre del gospel, solo che lo sanno soltanto i neri e i neri, come razza inferiore, non creano scandalo ma solo disgusto osceno. Elvis invece, muovendo quel pezzo di corpo che sta tra l’addome e le ginocchia, incanta il pubblico e crea un imbarazzo necessario, vantaggioso, adeguato.
Un “effetto collaterale” come ho detto prima, che è del tutto funzionale al compromesso che il suo Avvento impone per venire celebrato come atto liberatorio. Il resto, la musica, è il mezzo per veicolare il messaggio, non il messaggio stesso. Lui stesso ne avrebbe fatto scempio da lì a poco celebrando i suoi obblighi di leva come il plateale atto di riconoscenza servile verso quell’America che aveva fatto del “suo” sogno, un sogno irraggiungibile ma condiviso troncando di fatto quel legame sottile di condivisione che legava i bluesmen al loro pubblico e rendendo la figura dell’artista un modello inarrivabile di perfezione quasi divina.
Elvis era stato scelto dall’America per vestire la sua bandiera. E gli americani che pensavano di venire liberati dal suo arrivo, erano stati resi servi un po’ irrequieti nella fattoria dello zio Sam. Servi di un ragazzo di Tupelo diventato Dio, di cui questo cofanetto vi racconta i primi vagiti, quelli che scandalizzando le masse, le resero schiave. Che mostrarono a esse l’albero della consapevolezza ed indussero a prenderne, per portare a compimento il suo progetto divino. (Franco Dimauro)
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