Dario Brunori è uno che sa bene cosa voglia dire vivere di musica e per la musica, ma soprattutto quali siano i conti da fare con la cruda realtà.
Una passione, un’esigenza, che l’artista calabrese è riuscito a mettere in pratica e a convogliare sotto un “marchio di fabbrica”, quello di Brunori Sas, quasi a voler dimostrare che in fondo la sua non è soltanto musica ma anche un mestiere, un lavoro.
Ci è riuscito con non poche difficoltà, tipiche di chi vive gli stereotipi e i pregiudizi soprattutto della provincia del Sud.
Ci è riuscito con canzoni semplici e dirette, ma non per questo banali, che restituiscono un’immagine cristallina della società in cui viviamo.
Ci è riuscito con quattro dischi originali in un crescendo di emozioni e di rifermenti davvero importanti (Dalla, De Gregori e Battisti su tutti).
Ci è riuscito in particolar modo con l’ultimo A casa tutto bene, a dimostrazione che, volendo, ce la si può fare anche restando se stessi.
Ecco, dopo tutte queste cose, ci è sembrato doveroso rivolgere anche a lui la consueta domanda: “Come funziona la musica?” Buona lettura. (La redazione)
Come funziona la musica? La risposta di Brunori Sas
Parafrasando il titolo del libro di David Byrne e tenendo conto della tua personale esperienza, come funziona la musica oggi e quali sono le prospettive, soprattutto in Italia, per chi come te ha intrapreso questo mestiere da molti anni e per chi si appresta a farlo?
Visto che si parla di “mestiere”, tralascio volutamente la parte poetica e mi concentro su quella pragmatica, anche se alla fin fine, chi sceglie di “partire dal basso”, come ho fatto io, inevitabilmente è più votato al sentimento che non al pagamento. Non vorrei che questa impostazione inducesse a pensare che la parte emotiva (e in qualche modo genuina) dell’esperienza artistica vada in secondo piano, tutt’altro.
Ciò che scriverò di seguito e il tono quasi da manuale che userò, sono solo una sorta di contrappeso terreno alla giusta propensione al volo che ogni artista naturalmente possiede. Vorrei puntualizzare che parlerò della mia esperienza personale, non avendo diretta conoscenza dei meccanismi lavorativi legati ad altri contesti come ad esempio il mondo dei talent o la discografia mainstream.
Preferisco insomma dare indicazioni semplici e spero utili a chi si appresta a intraprendere un percorso simile a quello che ho affrontato io, con un’impostazione vicina a quella utilizzata da Byrne nel suo libro, pur avendo avuto i Talking Heads un’influenza sulla storia della musica del tutto trascurabile rispetto alla mia. Partiamo.
Dal punto di vista lavorativo a decidere le tue sorti alla fine dei giochi è pur sempre il pubblico, anche se per raggiungerlo e farlo tuo, nella stragrande maggioranza dei casi, è necessario compiere alcuni passi intermedi. Per quanto riguarda un percorso indipendente, a mio insindacabile giudizio e senza timore di essere contraddetto, i requisiti sono i seguenti:
1) Avere qualcosa da dire, saperlo dire in modo peculiare e con un’identità ben definita, in modo che gli ascoltatori abbiano una ragione valida per drizzare le orecchie. Lo stesso dicasi per la questione immagine. Non ho mai visto un progetto musicale andare avanti senza un’immagine (e un immaginario) ben definiti. Anche perché spesso le cose vanno di pari passo. È assai raro che una proposta musicale originale non sia accompagnata da un’estetica altrettanto peculiare. Il che non vuol dire canonicamente bella. L’importante è che tu abbia un’identità ben definita. Spesso non sono cose che si possano studiare a tavolino partendo da zero, ma sono aspetti da non trascurare quando si desidera condividere il frutto del proprio lavoro. Non mi soffermo qui su bravura, disciplina, tecnica, tutte cose per me encomiabili, ma che possono non essere fondamentali, soprattutto in questo periodo storico. Non voglio fare l’apologia degli sbuccioni e dirvi di non studiare, per carità, ma va detto che c’è gente tecnicamente eccellente che non comunica niente e di contro zapponi che ti fanno venire il brividino con una chitarra scordata. E viceversa. Quindi non esiste una regola. Basta che funzioni.
2) Comprendere qual è il contesto di riferimento in cui le cose che fai possono essere ben accolte. Di solito se non lo sai è già un bel problema. Gli artisti che conosco e che oggi godono di una certa popolarità sono stati anzitutto spettatori e assidui frequentatori di una scena. Per quanto si dica che oggi non ci sono più scene e che tutti ascoltano di tutto, la mia esperienza personale mi suggerisce che tutti hanno bisogno di un ambiente di riferimento. Che poi, in ottica post-moderna, in quell’ambiente di riferimento possa esserci il cantautore un giorno e il gruppo post-punk un altro, quello non cambia l’essenza perché evidentemente chi si riconosce in una scena ne scorge il collegamento al di là della mera estetica musicale.
3) Trovare qualcuno che creda fortemente in quello che fai e decida di investirci tempo e risorse. Questo qualcuno, solitamente, non dovrebbe essere uno zio, un cugino o una fidanzata, ma qualcuno che bazzica l’ambiente musicale di riferimento da un po’ di tempo, che lo faccia di mestiere e che quindi abbia anche i contatti giusti per poter far circolare la tua musica, quanto meno fra gli addetti ai lavori, gli artisti e gli appassionati di una determinata scena. Questo qualcuno è di fondamentale importanza per la tua carriera e le modalità per raggiungerlo sono svariate e tutte abbastanza note. Questo qualcuno mastica musica da anni ed esamina proposte artistiche ogni giorno. Questo qualcuno deve pensare che sei un figo, il che rende di vitale importanza quanto detto al punto 1. Questo qualcuno, in soldoni, è un manager, un’etichetta, una struttura in grado di svolgere il lavoro di organizzazione e promozione necessari affinché ci sia gente disposta ad ascoltare quello che fai, fra le migliaia e migliaia di proposte e uscite discografiche che popolano scrivanie, hard disk e soundcloud di tutto il mondo. Questo perché…
4) Per poter raggiungere l’attenzione di un pubblico più ampio, dovrai necessariamente piacere soprattutto ai cosiddetti “influencer”, vale a dire personaggi che di mestiere si occupano di musica e che mediano fra chi la musica la fa e chi la ascolta. E questo è vero anche oggi, nonostante la possibilità derivanti dalle tecnologie di streaming diretto inducano a pensare il contrario. “Che bisogno ho degli altri, se posso ascoltare direttamente i dischi e farmi da solo un mio personale giudizio?” In teoria non fa una piega, nella pratica il più delle volte tutti ascoltano qualcosa perché gli è stato consigliato da qualcuno di cui si fida o che stima o che ritiene figo. Magari oggi la cosa non passa per una recensione di un giornalista, ma da un blog, una pagina facebook tipo “Indiesagio” o dalla copertina di una playlist su spotify, ma il meccanismo di influenza è lo stesso. Sono davvero poche le persone che scelgono in totale autonomia. E forse neanche esistono.
5) Se hai passato a pieni i voti i punti precedenti, a quel punto la tua proposta artistica deve piacere ad un pubblico, altrimenti ti fermi lì. Intendo dire che una volta ottenuta l’attenzione dell’ascoltatore, il passaggio successivo dipende proprio dal gusto di chi ti ascolta. Qualcuno dice che il pubblico sia altamente influenzabile e che l’hype creato intorno ad un artista basti a renderlo piacevole a chi ascolta. Io penso che la verità stia nel mezzo e che l’hype abbia il suo peso ma che non sia da solo sufficiente. Ho visto tanti artisti spinti oltremodo, magari perché piacevano genuinamente al giornalista o alla testata di turno, rimanere comunque al palo, per assenza di pubblico. Ovviamente quanto scritto sopra, rispetto al pubblico, non ha nulla a che vedere con la qualità della proposta. Ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre artisti validissimi che non hanno raccolto quanto meritavano in termini di pubblico. Di solito, tra l’altro, si tratta anche delle proposte più originali e interessanti. Ribadisco però che qui si parla di mestiere, e per fare il musicista di mestiere bisogna avere un pubblico che permetta di chiedere un compenso a chi ti fa suonare. Non penso sia un meccansimo giusto, ma funziona così.
6) Da questo punto in poi si apre una nuova fase, in cui di solito entrano in scena soggetti specializzati in una particolare attività collegata al tuo mestiere. Si tratta di attività che una prima fase vengono di solito svolte da pochi soggetti, quasi sempre riconducibili a “quel qualcuno” di cui parlo nel punto 3. Intendo dire che quando inizi è facile che ci siano poche persone intorno a te a fare un po’ di tutto, dall’ufficio stampa alla promozione, dall’aspetto editoriale al booking. E che alcune di queste cose sappia farle anche tu. Via via che le cose crescono, come mi auguro possa capitare a ciascuno di voi, è bene comprendere quali attività mantenere sotto il proprio personale controllo e quali invece è giusto delegare a soggetti terzi, per il bene del progetto artistico. Si tratta, lo ripeto, di una fase successiva e avanzata, che meriterebbe un capitolo a parte. Per cui per il momento mi fermo qui, reputando che chi ha raggiunto questo livello, non abbia poi tanto bisogno dei consigli del sottoscritto.
7) Parafrasando George Best, una volta che qualcuno ti paga per quello che fai, cerca di spendere tutti i soldi in donne, alcool e macchine veloci. Il resto puoi anche sperperarlo.
Dario Brunori
Il videoclip de La verità
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