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Morrissey – Low In High School, 2017 | Recensione

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Morrissey è uno cui spesso piace deludere le attese, sicuro che ogni sua malefatta verrà perdonata. Cosa che in effetti avviene puntualmente. Infatti anche chi si fosse trovato inutilmente in coda per assistere ad un suo concerto annullato a sorpresa per qualche vezzo da star si ritroverà comunque nuovamente e felicemente in fila per versare in largo anticipo quanto chiesto per assicurarsi in tempo una copia di Low in High School, suo undicesimo album solista, se ha ancora senso usare questo aggettivo quando si parla di Moz il burbero.

Lo comprerà e ci si tufferà dentro, con la consueta devozione che il personaggio richiede. Testi alla mano, volume e kit di sopravvivenza autunnale adatti allo scopo e un bella successione di pomeriggi di solitario abbandono, cercando di far vibrare la propria anima all’unisono con quella di Morrissey.

Cosa che a me succede ormai di rado, devo ammetterlo. Il riadeguamento di immagine di Morrissey seguito allo scioglimento degli Smiths ha avuto su me un impatto destabilizzante e ho trovato la sua produzione altalenante, passivamente costretta a riadeguarsi continuamente alla scrittura dei bracci destri trovati lungo il cammino, anche quando questi gli consegnavano pezzi scritti con l’altra mano. Per uno che quando faceva coppia con Marr non sbagliava neppure una B-side a me è sempre parso un po’ pochino.

Se insomma potenzialmente ogni album degli Smiths era un disco da isola deserta, nessun album di Morrissey potrebbe essermi compagno in una nemmeno troppa improbabile scelta di eremitaggio estremo. Neppure questo, che era stato anticipato da una delle canzoni più belle del suo repertorio, pregna di quell’esistenzialismo in bilico tra pigro sarcasmo e misantropia che è uno dei tratti salienti del Moz-pensiero e vestita di abiti leggeri ma ricercati. E con dentro un paio di quelle frasi che potremmo ancora scrivere sul taccuino, se ne avessimo ancora uno.

Ecco, se fosse riuscito a perpetuare l’equilibrio magico di quella canzone, Low in High School avrebbe potuto davvero far vibrare la mia anima empaticamente con quella del suo autore, come ai tempi del liceo. Invece quasi tutto il resto del disco si perde in una grandeur sprecata che gongola tra la morna di The Girl from Tel-Aviv Who Wouldn’t Kneel a una When You Open Your Legs arrangiata come il Big World di Joe Jackson, tra i bubboni di synth di Who Will Protect Us from the Police e I Wish You Lonely e una mortifera Israel che si decide di far morire tra pianoforte e violoncello, come il cigno sul Carnevale di Saint-Saëns e la voce di Morrissey che ne replica il pianto.

Restano, tra le cose che si manderanno a futura memoria, le risacche emotive di Home Is a Question Mark o My Love, I’d Do Anything, ricche degli aminoacidi Morrisseyani che ci piace ingerire per sentirci ebbri e sazi. In attesa che risuoni la campanella per tornare a scuola, nonostante i nostri voti annaspino nell’insufficienza. E non solo i nostri. (Franco Dimauro)


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