Da ormai diciotto anni l’astronave Vibravoid assicura ai propri adepti uno se non due viaggi interstellari l’anno. Mushroom Mantras per quest’anno è addirittura il terzo. Segno che la cabina passeggeri è sempre piena e val dunque la pena traghettare.
E del resto vale pure la pena di salire a bordo, che il viaggio sulla capsula Vibravoid è sempre un gran bel viaggio, qualunque sia il significato vogliate dare al termine. Se il live pubblicato in estate si permetteva molte fermate nelle stazioni spaziali di altri eroi intergalattici come Pink Floyd, Can o Iron Butterfly, questo nuovo disco in studio ci proietta in una sorta di India extraterrestre che potrebbe affascinare, oltre a noi argonauti, anche a chi in passato ha sognato di essere immerso nelle acque del Gange ascoltando i dischi dei Kula Shaker, mentre invece stava soltanto facendo un bagno nella propria vasca, inalando vapori di kala namak.
Già l’inaugurale, esplosiva rivisitazione dello standard hindu Om Gang Ganpataye Namah suona come se la piccola Emily Young fosse andata a giocare nei giardini del Taj Mahal e non è che solo l’inizio di un viaggio che, con una scorta adeguata di mellotron, fuzz, effetti a nastro, sintetizzatori, sitar e uccellini cosmici ci regala la magnificenza pop psichedelica di The Legend of Doctor Robert, la vertigine spiroidale di Echoes of Time, il banghra stellare di Apollo69, i placidi approdi di Purple Pepper e la sognante passeggiata lunare della lunghissima The Orange Coat che fanno lievitare le quotazioni di questo capolavoro fino alla top ten dei dischi più belli dell’anno.
In coda al nuovo, le lontanissime immagini dei primissimi viaggi, quando scorrazzavano per le autobahn della loro madrepatria a bordo di una poco accessoriata motorik crauta. (Franco Dimauro)
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