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Nadiè – Acqua alta a Venezia, 2017 | Recensione | Streaming

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Piccoli Afterhours crescono. Li avevo lasciati ai tempi di Myspace e li ritrovo ora che Facebook è già diventato obsoleto, i catanesi Nadiè. E li ritrovo con un disco piacevole, impacchettato in una copertina buffa ed inquietante allo stesso tempo e un’involontaria quanto simpatica assonanza tra il titolo scelto per il loro secondo album e l’etichetta selezionata per distribuirlo.

Un lavoro gradevole anche per uno smaliziato come me che i dischi di Agnelli e del suo gregge li ha ascoltati tutti e li ha ascoltati più volte. E con loro tutto il rock italiano nato dal contagio dei loro “germi”.

Moltheni, Marlene Kuntz, Scisma, Marta sui Tubi, ___________ (riempite lo spazio a vostro piacimento). Ecco, Acqua alta a Venezia si rifà a quella tradizione che qualcuno ha definito in maniera terribile “rock d’autore” e che io, in maniera altrettanto orrenda, definisco come il rock che non sorride. Quello eternamente corrucciato. Scuro più nei volti che nella musica che trasporta nelle sue vene. Quello dei “fratelli maggiori” che hanno dovuto barattare l’entusiasmo della giovinezza con la consapevolezza amara dell’età adulta. I sogni da fare con quelli da ricordare. I numeri da segnare con quelli da cancellare. Le utopie per un’opinione.

Di queste rughe del tempo, il nuovo lavoro dei Nadiè è pieno. Canzoni che hanno spesso la testa rivolta al passato e che si nutrono di cose appassite. Chitarra-basso-batteria-voce e, quando l’autunno soffia un po’ più forte, pianoforte. Perché se il sole ha deciso di usare le nuvole come sipario, possiamo sfruttare le ombre anche noi senza avere la presunzione di volerle dissipare.

Di queste cose parla Acqua alta a Venezia. E anche se a volte il fantasma dei Negramaro sembra dietro l’angolo, possiamo scegliere di annegarci dentro anche quando il vino non sembra proprio di prima qualità. (Franco Dimauro)

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