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Margherita Zanin – Distanza in stanza, 2019 | Recensione

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Disco decisamente interessante e ricco di spunti di riflessione questo nuovo lavoro di Margherita Zanin. Si intitola Distanza in stanza, nuova pubblicazione della Volume! in collaborazione con Platform Music.

Avevamo avuto un gustoso antipasto di questo lavoro con un EP uscito mesi fa in cui la cantautrice ligure univa sotto lo stesso tetto due singoli del suo passato con due nuove scritture che ritroviamo oggi titolate Amaro e Rosa (di cui tra l’altro troveremo i video ufficiali in rete).

L’ascolto di questi brani ci ha ben introdotto nelle atmosfere di questo disco che vede la luce i primi di giugno, le hanno anticipate e sento di dirle che le attese e le promesse non sono state tradite. Introspezione e intime riflessioni raccolte e misurate all’interno di una stanza, luogo metaforico in cui nascondersi dalla vita che delle volte par essere davvero troppo più grande di noi e quindi vivere anche di distanze dal tutto che scorre attorno o, magari, la stanza è metafora di quel momento personale in cui si tirano somme e si cerca la chiave giusta per proseguire, restando a debita distanza per avere uno sguardo di insieme. Ma anche tanta leggerezza lirica e gusto melodico, anche complice quel suo piglio vocale che mi riporta molto al bel canto italiano anni
’60.

La Zanin sembrerebbe puntare molto nella direzione di un suono digitale di stampo internazionale, scuro nei colori (come anche la sua copertina), urban e a due passi da stilemi dub e non meraviglia che spesso sposa scritture r’n’b e rap come nel singolo Non mi diverto se penso troppo o nella successiva Un amico che va via. Ma troviamo anche quell’arrangiamento che ci riporta nelle produzioni futuristiche degli anni ’90 come in Casca il sogno momento in cui il disco si riempie di luce. E la luca non manca neanche in Ovvietà, forse il momento della tracklist in cui sicuramente la Zanin ci da un appiglio al suono più in linea con la tradizione del pop italiano. Un vertice della scrittura e del phatos lo raggiungo con la bellissima Fiori di carta, delicatissima e silenziosa, soffice e capace di dare un momento di arresto alla ricerca sonora del resto del lavoro.

Interessante anche l’ultimo inedito titolato Psicofermo dove anche qui non mancano richiami alle mode digitali del passato, brano che forse preferisco in assoluto perché mette in stretto contatto l’America noir del bit digitale, le tendenze del nuovo soul che tanto stanno approdando alle scritture di oggi e quel gusto assai indovinato di mixare la voce della Zanin, appena lontana, sottile e quasi eterea: un cocktail misurato che restituisce davvero unicità ad un disco che ha tanto da dire.

Due particolarità che non mi hanno fatto impazzire ma vanno doverosamente menzionate: la prima è che ogni brano viene anticipato dalla voce di un personaggio di punta della scena indie italiana, da Morgan a Motta passando per Mauro Ermanno Giovanardi, Omar Pedrini, Cristiano Godano e tanti altri. Leggono brevissime frasi estratte o raffigurative del brano che segue: ma sono interventi assai estemporanei, molto poco curati e lasciati al caso, al contrario della grande cura di produzione che dimostra il disco.

La seconda riguarda la chiusa del disco, affidata ad un omaggio interessante e dalla chiave molto personale che la Zanin fa di Il cielo in una stanza di Gino Paoli. Un disco così gustoso e ricco di contenuto poteva restare ben in equilibrio sulle proprie gambe senza scendere a compromessi con una cover peraltro abusata. Ma questo è il mio banale punto di vista. Di certo le motivazioni saranno state altre, conferma di quanto pensato e misurato sia stato un disco come questo nuovo di Margherita Zanin. (Alessandro Riva)

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