Ci accomodiamo per vedere l’anteprima della nuova serie Zero Zero Zero, con la forza di essere fra i pochi a non aver visto, o visto molto, molto, parzialmente Gomorra. Quindi senza pregiudizi o chissà che aspettative.
Ci è piaciuta. Ci piace questo modo di vedere il traffico di droga da un’angolazione che non sia solo quella semplice del cartello con il boss che ammazza tutti, o del capo della n’drangheta che sodomizza i suoi sottoposti che non sono d’accordo con lui e che tentano di sodomizzarlo a loro volta. “Il traffico di cocaina tiene a galla l’economia mondiale”, dice Gabriel Byrne, il Colombo televisivo (non confondetelo con Peter Falk, però, parliamo di Cristoforo Colombo), uno dei Soliti Sospetti e molto altro. Ecco: l’aspetto economico, fra transazioni e mediazioni, i viaggi d’affari e gli uomini d’affari. Questo è molto interessante e ottimo oggetto di curiosa investigazione.
Tutto bello. Qualche ingenuità, come la mega villa da svariati milioni di dollari a New Orleans, che non prevede un’entrata diretta con l’auto, ma tant’è.
Il cacio sui maccheroni è la sorpresa di ascoltare la colonna sonora dei Mogwai: l’arte non è per pochi (i Nostri collaborano con l’artista francese Philippe Parreno, al quale l’Hangar Bicocca di Milano ha dedicato una personale nel 2016), ma è per tutti, visto che la loro musica passerà su Sky Atlantic e la ascolteranno quasi tutti. Bene! Dal muro sonoro dei loro live, all’arte contemporanea alle serie tv, la loro presenza è un vero privilegio, per noi che li amiamo.
Quando entriamo per assistere al film di Gabriele Salvatores, Tutto il mio folle amore, invece lo facciamo con la consapevolezza dei moltissimi che i film di Salvatores li hanno visti tutti. La sintesi è semplice: quando il “Modugno della Dalmazia”, incontra il figlio che aveva rifiutato sedici anni prima e, senza sapere nulla di lui, conosce e condivide la sua dolce instabilità emotiva, girare per balere e feste popolari non sarà più la stessa cosa. Anche se alcuni temi cari al Nostro (il viaggio, i forti legami fra le persone), emergono con forza come in altri suoi film, qui assistiamo a un modo sereno di affrontare la disabilità che molto ci è piaciuto. La paura di una replica di Rain Man c’era, ma per fortuna è passata subito. E questo Jeeg Robot che suona la chitarra da mancino e che canta anche bene, diventa il compagno di viaggio di un bravo ragazzo che si entusiasma guardando il mondo. Il papà adottivo del ragazzo accompagnerà la mamma, per cercare dove si sono cacciati quei due e, durante il viaggio, la aiuterà a scoprire di poter essere felice, semplicemente accettandosi e nuotando nella sua indolenza. “La felicità è una gran botta di culo”, dice Mario, a un certo punto. Molto bene. Bravi Santamaria, Golino e Abatantuono. Bravissimo, incredibilmente bravissimo Giulio Pranno, al suo esordio nel ruolo del figlio. Un esordio che è già una certezza.
Poi c’è Waiting for the Barbarians. Film con Johnny Depp, che quindi catalizza le attenzioni di quasi tutti. Sala piena, levataccia per mettersi in fila e sperare d’entrare. Si entra facile, alla fine. Il film sarà anche un po’ lento, ma è bellissimo.
In un non luogo e in un non tempo, c’è un forte in mezzo a un deserto e ci sono alcuni legionari, assieme a un magistrato, che fanno funzionare le cose: la gente lavora quel poco che coltiva, c’è una specie di economia di sussistenza e tutti stanno bene. Si convive anche con i gruppi nomadi che stanno fuori dalle mura. Poche cose, piccoli furti. Bazzecole. Poi arrivano i soldati. Quelli veri, capitanati da un colonnello (Johnny Depp, appunto), che attraverso metodi brutali e violenti, terrorizza chi sta fuori (i Barbari) e fa crescere l’odio nei loro confronti di chi sta dentro. Chi sono i Barbari in realtà? Chi conviveva pacificamente con chi stava occupando la propria terra, o chi pretende che questa terra diventi esclusivamente sua e lo vuole ottenere usando la violenza? Johnny Depp è bravo, molto. La figura del Magistrato, però, è quella che regge tutto il film, soprattutto per l’interpretazione di Marc Rylance, che sa dare spessore a un uomo mite ma resistente, intelligente, ironico.
Ci vuole davvero poco per passare da persona ben voluta e acclamata, a povero cristo, deriso e abbandonato anche da chi, solo il giorno prima, ti amava.
Ma chi rimane in piedi alla fine? I buoni o gli stronzi?
E una riflessione sulla barbarie arriva spontanea assistendo alla proiezione di La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco.
Bellissimo. Voce fuori campo, come da tradizione, a incalzare l’interlocutore, sia esso un povero di spirito, come molti degli intervistati purtroppo, o sia essa una grande donna come Letizia Battaglia, la grande fotografa, che non lesina epiteti e contumelie, senza mai perderne l’occasione, al Nostro povero regista.
Si parte dalla celebrazione dell’anniversario della morte di Falcone e Borsellino e di come Palermo la vive, fra navi della legalità, musica e balli, sfilata dei politici con discorsi sempre uguali e una iniziativa di tale Ciccio Mira, impresario di cantanti neomelodici in odore di mafia, che decide di far cantare i i suoi assistiti durante una serata nel quartiere Zen, in onore dei due Giudici. Il tutto finanziato da qualcuno che non si sa.
Attorno a questo è tutto un turbinio di soggetti quantomeno bizzarri, che nella loro tragicità e nella tragicità inconsapevole delle loro esistenze, vestono, altrettanto inconsapevolmente, il vestito dei barbari. Vecchi e nuovi barbari.
Ci ripetiamo: bellissimo. La cosa che non ci è andata molto giù, però, è che una buona metà del pubblico in sala non faceva altro che ridere a crepapelle. Non c’è nulla da ridere. Certo, può far sorridere l’ignoranza abissale e l’assoluta mancanza di un qualsivoglia senso etico in qualche protagonista. Ma in realtà non c’è nulla da ridere. E bravo Maresco.
Contro i Barbari si schiera Roger Waters, che ha portato a Venezia il film Us + Them. Un docu-film del suo tour tenuto tra Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Europa e America Latina, nel 2018.
Confezionato molto bene, ottima la fotografia, le scenografie, i suoni sono potenti e molto curati. Il pubblico applaudiva alla fine di ogni canzone e, addirittura, batteva le mani a tempo quando è arrivato il momento di Another Brick in the Wall. Bene. A noi è parso più interessante quello che Waters ha detto con le parole, visto che con la musica ha già detto tutto da un bel po’ di tempo, ormai. E le sue parole sono state dei macigni: dal Trump definito “un maiale” (davvero. lo ha detto davvero!) fino ad arrivare a vicende italiane che tutti conoscono e delle quali, per vergogna, non ci va di parlare, a rivendicare la lotta sacrosanta per cambiare le politiche ambientali e, addirittura, a non escludere una mobilitazione al livello globale. Eravamo talmente impressionati dalla forza delle sue parole, ripetute in conferenza stampa e nell’incontro con il pubblico seguito al film, che sognavamo di vederlo manifestare assieme a tantissima gente, con i giovani del “Venice Climate Camp”, il giorno dopo. Noi c’eravamo. Lui forse era troppo preso dai suoi molti impegni. Peccato.
E poi arriva Mick Jagger. Qui bisogna essere forti, per non farsi influenzare dalla forza della sua leggenda e guardare il film con occhi e cuore neutro.
Cominciamo però col dire che anche lui si schiera e benedice sia la manifestazione che l’occupazione, da parte degli attivisti, del red carpet. Questo va bene. Bravo Mick.
Poi il film, purtroppo, delude. Non tanto per la sua interpretazione, che è onesta, fra l’altro in un ruolo non di primo piano, ma per l’impianto narrativo, per il modo in cui si racconta la storia attraverso le immagini, le location… Insomma, The Burnt Orange Heresy è un film davvero mediocre, nonostante la buona prova di Elizabeth Debicki che avevamo visto in una serie tv molto carina The Night Manager e la partecipazione di un Highlander come Donald Sutherland. Insomma scontato e mai (davvero, MAI) sorprendente. E per un film che dovrebbe essere un thriller… (Alessandro Grainer & Stefania Michelato)
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