La storia degli Ephemerals inizia quando la compositrice inglese Hillman Mondegreen e il cantante franco-americano Wolfgang Valbrun si conoscono ad un concerto in Francia in cui si esibivano con le rispettive band. Da allora il duo ha dato vita ad una nuova formazione, fatto uscire tre album sulla Jalapeno Records, calcato i palcoscenici di mezza Europa e intrapreso una serie di trasformazioni che hanno visto il gruppo progressivamente allontanarsi dal sound tradizionalmente soul del primo album del 2014 Nothing is Easy per approdare verso territori sonori inesplorati con il quarto e nuovo disco The Third Eye, uscito lo scorso 10 gennaio.
The Third Eye è un album concettuale fortemente influenzato dal cambiamento di genere che Hillman ha attraversato mentre lo scriveva, e affronta temi universali quali identità, spiritualità e accettazione di sé. [/i] Fondendo insieme generi come lo spiritual jazz, l’indie soul e la psichedelia, il disco sperimenta con metodi di registrazione e mixaggio, utilizzando la tecnica dell’hard panning per raggruppare specifici suoni e strumenti da un lato o l’altro dello stereo per trasmettere i tratti maschili e femminili che caratterizzano ogni individuo e ogni traccia. Sebbene i testi intensi siano stati scritti da Hillman per affrontare l’alienazione che si prova a essere transgender, l’inconfondibile e calda voce di Wolf riesce ad interpretarli in maniera personale, creando un delicato equilibrio che attraversa le 10 tracce.
Non c’è un vero e proprio singolo in The Third Eye, ma piuttosto una sequenza di brani incisivi e raffinati, usando all’occorrenza strumenti insoliti come l’arpa, vera protagonista del brano Avatar, e violini, che dettano l’atmosfera di Instagram. La vena profondamente spirituale pervade tutto il disco, forse esemplificata al meglio in Rising che riecheggia come un mantra, ma onnipresente tra le righe anche in brani come Blur e Float.
Con The Third Eye gli Ephemerals si confermano una band che non ha paura di affrontare argomenti e sonorità difficili per mettersi in gioco in prima persona, trasportandoci in un disco che è a metà strada tra una narrazione musicale e un percorso esistenziale. (Adaja Inira)
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