Amerigo Verardi e l’arte di fare musica liberamente – Intervista

Lo scorso 12 febbraio è uscito per The Prisoner Records «Un sogno di Maila», il nuovo album del cantautore brindisino Amerigo Verardi. Un disco che sta facendo sognare la musica italiana e che, a nostro modesto avviso, meriterebbe un riconoscimento nazionale.

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Chi bazzica queste pagine sa benissimo chi è Amerigo Verardi, un talento unico del panorama musicale italiano.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta si è sempre mosso liberamente e con tenacia su percorsi a lui congeniali, dall’alternative rock e la neopsichedelia di band e progetti come Allison Run, Betty’s Blues e Lula, fino al raggiungimento di una dimensione artistica (pop e rock) più intima e visionaria che, forse proprio per questo, non poteva che portare il suo nome.

Un lento processo di maturazione che, partendo da Bologna, Verardi ha portato a compimento nella sua Brindisi, città natale e luogo ideale dove far germogliare i suoi dischi più rappresentativi, Hippie Dixit del 2016, e questo del 2021 intitolato Un sogno di Maila.

Come già scrivevamo in tempi non sospetti, la sua ultima meraviglia sta facendo sognare la musica italiana e, a nostro modesto avviso, meriterebbe un riconoscimento nazionale.

Alla luce di questo nuovo capolavoro, ci è sembrato doveroso rivolgere qualche domanda via email all’artista brindisino, che, al solito, è stato cortese e appassionato, come dimostrano le sue risposte. (La redazione)

Amerigo Verardi e l’arte di fare musica liberamente? © Intervista di Luca D’Ambrosio

Foto di Enrica Luceri

Un sogno di Maila” è, in qualche modo, un viaggio al femminile, ma anche una sorta di trip nella gentilezza, negli inganni e nell’amore non detto e molto spesso sognato. Ci racconti un po’ la genesi del disco dal punto di vista sentimentale?

Forse il sentimento centrale dell’album è la compassione, nel senso più alto ma allo stesso tempo più semplice del termine. Ho provato a filtrare questo sentimento attraverso la vita – sognata – di un personaggio che è emerso nel corso della lavorazione, un personaggio femminile. Maila è profondamente umana nel suo reagire alla quotidianità, e il quotidiano appunto ne rivela tutta la sua fragilità e in certi casi anche il senso di impotenza. C’è anche una redenzione, naturalmente, una vera e propria rinascita. E poi c’è questa aura di spiritualità che la caratterizza anche nei suoi momenti più terreni, umani e conflittuali. È innegabile la sua tensione verso la pace e la bellezza, è esattamente ciò che sente e che comunica all’esterno. Per certi versi è una figura più benedetta che illuminata. Questa familiarità con il divino la fa soffrire più del normale, subendo il dolore più profondo del vivere, ma riesce comunque ad emanare luce calda e una bellezza quasi ideale, confortante più per gli altri che per se stessa. La cosa forse più emozionante che più di qualcuno mi ha detto su “Un sogno di Maila”, è che è un’opera terapeutica. Io non credo che si possa desiderare né ricevere niente di più di questo, di rimando da un proprio lavoro. Ma è quello che a volte ti può succedere quando cerchi continua ispirazione dai piani alti della coscienza. Maila si potrebbe anche considerare come il mio alter ego, certamente, e in questo senso non è difficile immaginarsi quanto il mio coinvolgimento diretto abbia fornito elementi sia per la nascita dell’idea che per il suo sviluppo. Ma non so se questi sono aspetti realmente importanti. Per ciò che riguarda me personalmente, considero questo album come una specie di testamento di vita. Lascio ciò che ho la capacità di fare, l’amore ricevuto e quello che sono in grado di generare, e lo lascio in particolare a coloro che possiedono i mezzi per goderne e per esserne ispirati, offrendo loro stimoli che potranno poi restituire ad altri in modalità diverse. Questa è la funzione più semplice e naturale di un piccolo anello di una catena virtuosa che parte da molto lontano e che vuole arrivare altrettanto lontano. Credo di aver detto anche troppo. Prego sempre affinché le mie parole non vengano travisate, e naturalmente sento la responsabilità di ciò che dico, ma è chiaro che non posso rispondere per ciò che poi gli altri capiscono.

Il disco, tra l’altro, è suonato e arrangiato meravigliosamente. Quanto tempo ci hai lavorato sopra e come lo hai gestito dal punto di vista tecnico?

Ti ringrazio molto per le tue parole, davvero. Quando sono concentrato nella musica, entro in uno stato di trance, o di meditazione, se preferisci. A volte, riascoltando ciò che ho registrato il giorno prima, mi meraviglio chiedendomi chi realmente possa aver avuto certe intuizioni. Questo succede quando mi piace ciò che ascolto. In altri casi, invece, mi ritrovo a pensare “ma cos’è questo schifo, sono proprio un miserabile incapace!”. Ma ho compassione di me, penso che poi la verità non è mai così estrema in nessuno dei casi, e quindi continuo con dedizione e spirito di servizio a lavorarci su. E devo dire che il lavoro su questo album non si può separare in una parte compositiva e una parte tecnica. È un tutt’uno. Ho composto e registrato nello stesso tempo e spazio, facendo diventare la parte tecnica una fase di composizione e la composizione un suggerimento tecnico. Amo lavorare in studio. È la mia meditazione trascendentale. È la mia ricerca scientifica. È il mio viaggio al centro della terra e il mio viaggio sulla luna. È il mio sogno. Può sembrare strano, ma è da quando ho quindici anni che penso alla musica in questi termini. Da quando ho ascoltato l’album bianco dei Beatles, in particolare. Era stupefacente sotto ogni punto di vista, confortava la mia fame di stimoli e di verità, mi faceva sentire incredibilmente bene ed era tutto quello che avrei voluto fare a mia volta nella vita: comporre e registrare musica, per provare a sorprendermi, viaggiando e facendo stare bene anche i miei amici. Nell’ambiente musicale ho avuto tante di quelle difficoltà e delusioni che mi meraviglio di essere ancora qui a provare a migliorarmi e ad evolvermi in armonia. Ma allo stesso tempo ho avuto anche tanta fortuna ed una forza inaudita ad accompagnarmi. Avrei voluto guadagnare un po’ di soldi, magari per comprarmi una piccola casa. Ma pazienza. Tutte le cose non vengono mai per caso, e ogni percorso prende il suo senso da ogni passo compiuto. La mia storia si potrebbe definire chiara.

Foto di Enrica Luceri

Se non ricordo male tempo fa, quando ci incontrammo, mi dicesti che talvolta per tornare a fare la musica che si vuole davvero, bisogna avere il coraggio di staccare e prenderne le distanze per un po’, mettendosi a fare altro, soprattutto quando vedi che quello che stai facendo non è esattamente quello che pensi, che vuoi. Se ricordo bene, in linea generale, vale ancora questo atteggiamento?

Sì, direi che ricordi bene, riconosco la paternità di quel ragionamento. È un passaggio che ho adottato spesso nella mia vita, oltre che nella musica. È fondamentale fermarsi e riflettere di tanto in tanto sul senso di ciò che si sta facendo. Ed è importante essere presenti a se stessi ed essere consapevoli dei propri movimenti, delle proprie parole, del proprio piacere, del proprio interagire con gli altri. Capita spesso di essere trascinati dagli eventi, dalle contingenze, da ciò che a volte desiderano gli altri più di quanto non lo desideri tu. Capita anche di farsi annientare dalla pigrizia, da modalità che attiviamo in automatico, sempre identiche a se stesse e che finiscono per diventare limiti invalicabili per la nostra evoluzione, per la comprensione degli altri, per l’accoglienza verso i misteri del mondo. Naturalmente, remare contro i nostri automatismi comporta un impegno forte e dei rischi. La debolezza delle persone a volte si misura proprio dalla paura di mettersi realmente in discussione, dalla loro eccessiva rigidità. Spesso per aiutarci a vincere queste insicurezze cerchiamo di costruirci una corazza da superuomo e da superdonna, tradendo tutta quella bellezza sensibile, delicata e sinuosa in cui è immerso il nostro essere. Quando si è molto giovani si agisce in gran parte d’impulso, ed è più comprensibile che ci si costruisca un’armatura per proteggere le parti più fragili ancora in formazione. Ma quando diventiamo più adulti e continuiamo imperterriti a costruire corazze, il rischio è di risultare patetici. Abbiamo tutti bisogno di fermarci per poter meglio percepire le energie che ci guidano, per essere veramente coscienti dei nostri reali bisogni e chiederci dove hanno origine nostri desideri. E se questo vuol dire a volte doversi allontanare per un po’ anche dalle cose o dalle persone che ami di più, allora forse è necessario farlo. Magari un giorno torneremo a viverle in modo più pieno e sintonico con il nostro essere. O magari forse no. Tutti i nostri progetti sono un po’ come disegni tracciati sulla sabbia. È bello vivere con grande intensità il momento in cui li creiamo. Ma saremmo sciocchi a pretendere che restino lì per sempre.

Alla luce della domanda precedente, cosa ti piace del Verardi di oggi rispetto a quello del passato? Volendo anche il contrario…

In qualche modo mi sto evolvendo, questo posso percepirlo. Non è una questione di piacersi, semmai di accettarsi con serenità, monitorandosi di tanto in tanto. È più che altro interpretare il ruolo che ci riconosciamo e, qualunque esso sia, cercare di interpretarlo al meglio delle nostre possibilità. Ad ogni passo in avanti che faccio, emergono nuovi limiti, nuove incapacità. Ogni evoluzione mi porta verso la riconferma del mio essere piccolo. Se pensi di evolverti e riesci a compiacertene, probabilmente è perché non ti stai evolvendo affatto. La consapevolezza è il traguardo più grande, ed è tutt’altro che semplice da raggiungere. Ma anche se non dovessi avere la capacità di raggiungere una piena consapevolezza in questa vita, varrebbe sempre la pena per me impegnarmi al massimo e poi riprovarci nella prossima.

In un’epoca di playlist e singoli, in cui la musica è diventata sottofondo e l’ascolto sempre più distratto, l’idea di registrare su disco un’unica traccia da 77 minuti possiamo considerarla una sorta di invito a dedicarsi all’ascolto di un album nella sua interezza, così come l’artista l’ha pensato?

Che frase evocativa, scolpita: “così come l’artista l’ha pensato”. Devo per forza essere un artista, se ha senso questo termine. Perché come musicista sono talmente limitato da sentirmi in imbarazzo. Non progredisco, sono un eterno dilettante, incapace di studiare per incrementare una capacità tecnica in qualsiasi direzione. Non mi aiuta il fatto di non avere memoria, difatti dimentico tutto, non trattengo nozioni e non ricordo neanche i miei testi. È un disastro, e sono così fin dall’inizio. E fortunatamente fin dall’inizio mi è venuto in soccorso qualcos’altro, qualcosa che non saprei definire ma che comunque mi ha permesso di sopperire ad alcuni deficit, portandomi a creare un personale campo d’azione in cui ho potuto esprimermi in modo efficace. Questo forse te lo sto raccontando per dirti che non posso fare altro che coltivare il mio campo. Ed è normale che prima di lasciarti mordere un frutto di quel campo, io possa consigliarti di provare a chiudere gli occhi e fare insieme un lungo respiro. Non è un vezzo e non c’è alcuna volontà prestabilita di andare controcorrente a tutti i costi. È semplicemente la cosa giusta da fare nel mio campo, se vuoi godere di tutte le fragranze. E se lo dico, lo dico anche per te, per ispirarti al meglio e offrirti un pieno godimento.

Foto di Enrica Luceri

Ti andrebbe di commentare ogni singolo titolo di “Un sogno di Maila” e, se possibile, legarlo a un album che ami?

Va bene, proviamo a fare questo gioco!

Maila Mantra. Li vedi quei 77 monaci tibetani che stanno creando un gigantesco mandala con granelli di sabbia colorata? “Incantations” di Mike Oldfield.

Le parole non dette. Lascia tutto e abbine infinita cura. “Sheep may safely graze” di Johann Sebastian Bach (credo sia un singolo tratto da una raccolta di successi e mai pubblicato in un album ufficiale).

Un’incredibile estate. Ora ti bendo gli occhi: raggiungimi nella città ai confini del sogno. “Barrett” di Syd Barrett.

Gioco con i maschi, gioco con le femmine. Succhia i fiori dell’aceto e diventa un campo di fiori introvabili. “Smile!” di Brian Wilson / Beach Boys.

La mia amica Stefania. L’amore che riesci a dare a una sola persona, non è amore. “Anima latina” di Lucio Battisti.

Amor vincit omnia. Cerca le risposte quando non avrai più domande. “White Album” dei Beatles.

Everest. Esci dalla tua casa, esci dalla tua mente, separa le formiche dallo zucchero, mangia gli spaghetti degli inglesi. “Fifth dimension” dei Byrds.

Droghe per il popolino. All’alba raccogli le rape con il tuo amico senegalese, poi respira il suo fumo passivo al tramonto. “Between the Buttons” dei Rolling Stones.

Aiuto! Annota sul tuo diario tutto ciò che non hai fatto oggi. “Bringing It All Back Home” di Bob Dylan.

Il ragazzo magico. Non credere a quell’uomo, ti rovinerà; ma lo farà divinamente. “Paris, Texas” colonna sonora di Ry Cooder

Due foglie. Deve esserci un momento in cui senti di poter fare qualunque cosa tu desideri, per ricordarti da dove vieni. “Imagine” di John Lennon.

L’idea di una bambina. Non usare grandi giri di parole per qualcosa che vedi solo tu, piuttosto ascolta. “Blue Sunshine” dei Glove

La pace che sogni è nella mente. Se un mio amico lascia questa vita, io sono quel mio amico. “Volo magico n.1” di Claudio Rocchi

Vita sognata. Entra nella grotta e segui il tunnel delle concrezioni fantastiche, dove c’è assenza di peso e di affanno. “Ummagumma” dei Pink Floyd

Ritorno alle stelle. Li vedi quei 77 monaci tibetani che dolcemente ti sorridono? “Scary Monsters” di David Bowie.

(Articolo coperto da copyright. Per informazioni, contattare l’editore di questo blog.)

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