Prosegue a tamburo battente il nostro ciclo di interviste ai principali artisti della scena musicale italiana dal titolo «Discorsi sulla musica ».
A rispondere questa volta alle consuete domande di Luca D’Ambrosio è la cantautrice e scrittrice pugliese Erica Mou . Buona lettura. (La redazione)
«Discorsi sulla musica » con Erica Mou © di Luca D’Ambrosio
Erica Mou (foto di Luca Bellumore) Qual è stato il momento preciso in cui hai deciso di dedicare la tua vita alla musica?
Nel 1995, durante la mia prima lezione di canto, a cinque anni.
Quali sono state le difficoltà iniziali?
Quando ho iniziato a fare tour avevo diciassette anni e la difficoltà era farsi prendere sul serio, paradossalmente, fuori dal palco. Ho subito delle pressioni molto forti nei primi anni di carriera e le ho assorbite tanto nel fisico e nella mente, venendo da un ambiente protettivo tra la mia famiglia e la scuola, e ritrovandomi improvvisamente a lavorare in un ambiente professionale e molto duro.
Qual è la cosa più bella che ricordi dei tuoi inizi?
Lo stupore di sentire le persone cantare una mia canzone.
Oggi, invece, quali sono le principali difficoltà per chi come te fa musica?
La velocità con la quale la si consuma. Il dover rientrare in un preciso target per essere veicolabile. Il dover essere giovane per essere cool, con degli evidenti disastri estetici e creativi. E oggi, dopo questi ultimi due anni, le difficoltà sono diventate anche altre. Come si cresce e come si vive senza la musica live? Come si cresce e come si vive senza poter contare su una squadra di collaboratori che è provata dalla crisi in corso?
Qual è la cosa più bella che ricordi dei tuoi inizi?
Lo stupore di sentire le persone cantare una mia canzone.
Oggi, invece, quali sono le principali difficoltà per chi come te fa musica?
La velocità con la quale la si consuma. Il dover rientrare in un preciso target per essere veicolabile. Il dover essere giovane per essere cool, con degli evidenti disastri estetici e creativi. E oggi, dopo questi ultimi due anni, le difficoltà sono diventate anche altre. Come si cresce e come si vive senza la musica live? Come si cresce e come si vive senza poter contare su una squadra di collaboratori che è provata dalla crisi in corso?
Pensi che in questo particolare momento storico ci sia un approccio culturale differente tra un artista affermato e uno che sta muovendo i primi passi?
Penso che non si creda più nella carriera ma nel singolo (inteso come canzone ma anche come singolo momento di un percorso), questo a mio parere compromette l’evoluzione di un artista che, come una pianta, ha bisogno di tempo, di acqua, di luce. Prendiamo la giacca e andiamo a vedere un concerto, anche a scatola chiusa, lasciamoci sorprendere. Lo dico a me stessa, per prima. Viviamo in una realtà in cui scoprire qualcosa di nuovo diventa molto difficile, tra algoritmi, marketing mirato e informazioni sui social che ci compiacciono di continuo.
C’è invece qualcosa di positivo nel fare musica in questi anni ’20 del terzo millennio?
Tutto. Questo è il mio tempo, non ne conosco un altro. Inutile rimpiangere qualcosa che non esiste.
Quanto sei “social” e “tecnologica”?
Abbastanza, sono pur sempre una millennial! Cerco però di usare i social come uno spazio naturale, il meno artefatto possibile.
Una domanda da 100 milioni di dollari. Che cos’è la musica?
Una vibrazione all’unisono di corpi diversi.
Quali sono stati gli artisti e/o i dischi principali che in qualche modo ti hanno influenzato?
Come puoi immaginare sono moltissimi. Born to Shine di Ben Harper, La voce del padrone di Battiato, L’anfiteatroelabambinaimpertinente di Carmen Consoli, Five Leaves Left di Nick Drake, Violator dei Depeche Mode, Me and Armini di Emiliana Torrini, e ne sto lasciando fuori almeno altri cento!
Quanto sono importanti nella vita, così come nell’arte, la curiosità e l’assenza di pregiudizio?
L’arte è esattamente come la vita, una continua ricerca. Rivolta verso l’interno e l’esterno da sé. Se la mente è una finestra chiusa, semplicemente non si vive.
Nella musica, sia per chi la fa e sia per chi la critica, c’è qualcosa che non sopporti?
La paura della complessità. La necessità di semplificare.
Il tuo genere musicale preferito assoluto?
Forse il pop-folk. Forse l’elettronica. È banale ma a me piacciono le canzoni belle, indipendentemente dal resto.
Un disco che hai realizzato e che consiglieresti a chi non ancora non ti conosce.
Il mio nuovo, che uscirà quest’anno.
Parliamo invece di una cosa davvero difficile da spiegare. Secondo te, come si raggiunge una propria identità artistica, al punto da essere riconosciuta e apprezzata da un determinato pubblico?
Crescendo come esseri umani.
L’artista ha bisogno di continue conferme da parte della stampa e della propria comunità?
L’artista è una persona e porta la propria indole nella sua arte. Quindi è difficile per me rispondere a questa domanda in maniera oggettiva. Le conferme non sono l’obiettivo finale ma senz’altro sono preziose, gratificanti per l’artista e per la sua squadra.
Tu sei un personaggio pubblico. Meglio essere sempre presenti o sparire per un po’?
Meglio non forzare nessuna delle due opzioni. Non si è sempre uguali, il vuoto e il pieno fanno sempre parte di ogni cosa e si assomigliano, vanno assecondati. Ad esempio io ho fatto cinque album in meno di dieci anni e solo per quest’ultimo, invece, ho avuto bisogno di quasi quattro anni, per lasciar decantare un mare di cose.
È pressoché indubbio che anche la vita artistica sia segnata da compromessi. Cosa però l’artista non dovrebbe accettare mai?
Tradire quella voce che già sa e che forse chiamerei istinto. Ci sono delle volte in cui accettare un compromesso può far anche innervosire ma a un livello superficiale. Poi però c’è uno spazio interno molto più profondo che alcune volte entra in ballo e non può non essere ascoltato. È l’unico caso in cui una scelta si trasforma in rimpianto perché, dentro, sapevamo già tutto e non ci siamo ascoltati.
Hai mai pensato di smettere?
Sì. Ma mai per davvero.
C’è un sogno, un’idea che invece vorresti realizzare?
Mille! Poi te le dico quando incontreranno la realtà (ndr, sorride).
Dove sta andando la musica?
Dove sta andando il mondo? La musica ne è specchio, lo legge e lo riflette. Io non lo so bene, dove sta andando il mondo. E questa incertezza è un fatto globale che la musica sta interpretando declinandola in maniera diversa in base alle diverse sensibilità.
La Pandemia da Covid-19 ha messo a dura prova l’intera umanità. Come l’hai vissuta da essere umano e soprattutto da artista. Mi racconti qualcosa?
Lo scoppio della pandemia ha coinciso con l’uscita del mio primo romanzo “Nel mare c’è la sete”. È stato un tempo strano perché allo stesso tempo sospeso ma impegnatissimo con la promozione del libro, mi sono sentita molto vicina ai lettori e agli ascoltatori nonostante l’impossibilità di trovarci fisicamente dal vivo. Ho usato il tempo per vivere una quotidianità molto bella con il mio compagno, dopo anni di relazione a distanza. Ho messo in ordine un po’ di idee. Ho ultimato il mio nuovo album, ho scritto e registrato un ciclo di podcast (C’est la Mou – Punti di fuga), ho allestito uno spettacolo teatrale con Concita De Gregorio (Un’ultima cosa), ho cercato tanto il contatto con altri artisti con cui collaborare, come con il cantautore brasiliano Marcelo Jeneci. Ora che l’aria è diversa, ora che vedo un comparto culturale maltrattato, che vedo una rabbia sociale che mi atterrisce, ancora di più ricerco l’idea di una comunità umana di cui sentirmi parte.
Perché hai deciso di rispondere a queste domande?
Perché me lo hai chiesto con molta gentilezza e professionalità. Perché cercare una risposta è molto più interessante che scriverla. Perché di amore e di arte è sempre giusto parlare.
Erica Mou (Articolo coperto da copyright. Per informazioni, contattare l’editore di questo blog.)
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