Parte oggi, con una riflessione sull'imminente Festival di Sanremo, «Typing from Abroad», la nuova rubrica di Natalino Capriotti (aka Brevevita Letters).
Un pezzo su Sanremo, minchia. La vivo come una sfida. Come al solito mi accorgo dell’arrivo del grande evento nazionalpopolare attraverso segnalazioni di mogli e sorelle, amici e amiche, sia su facebook, sia nella vita reale.
Intanto, tra le tante news quotidiane nei gruppi Whatsapp di famiglia noto subito che mia nipote manco sa che è Sanremo: “No, zio non lo so, perché? Dovrei saperlo? Fa provincia?“.
“No, ma è una bellissima cittadina in provincia di Imperia”.
Ma lei che ne sa dell’importanza della provincia di Imperia nella scena musicale mondiale, a lei piacciono i gruppi coreani che quando li senti ti vengono le crisi epilettiche (scherzo, amore, zio è un vecchio che pretenderebbe di avere senso dell’umorismo).
Comunque, per quanto mi riguarda, accoglierò l’arrivo di Sanremo con una quasi totale indifferenza, ma come al solito sbirciando con la coda dell’occhio.
Non nego che negli anni Sanremo mi abbia regalato emozioni anche grosse, perfino a me, avido e spocchioso consumatore di musica senza confini e senza pregiudizi, soprattutto perché ogni tanto, cinque minuti ogni tre anni, Sanremo ha saputo essere una vera e propria “botta”:
1. Rino Gaetano, il primo uomo al mondo a indossare il frac con le scarpe da ginnastica (40 anni più tardi lo avrebbero seguito a mandrie), sale sul palco e canta Gianna insieme ai Pandemonium;
2. Ivan Graziani, punto;
3. Zucchero che c’ha una Canzone Triste nel suo cuore;
4. Vasco Rossi, Vado al Massimo;
5. Alice, Per Elisa;
6. Fiorella Mannoia che ammazza il tempo bevendo Caffè Nero Bollente;
7. Quintorigo, Rospo;
8. Decibel, Contessa;
9. e poi perché no, persino la delicata Scrivimi di Nino Buonocore;
10. dopodiché non voglio dilungarmi su Anna Oxa vestita da uomo nel 1978 perché l’hanno già fatto in molti, piuttosto chiudo la top ten con la clamorosa esecuzione de L’uomo col megafono con i fogli A4 buttati per terra come Bob Dylan, da parte di un super esordiente cantautore romano ancora sconosciuto, tale Daniele Silvestri.
. . . “Daniele SilvesssCCi”. . .
Qui ci piazzo una pausa lunga come quella che Roberto Benigni assegnava alla celebre dicitura “Mia madge…” in Johnny Stecchino.
Eh sì, perché Daniele Silvestri è uno dei più grandi rimpianti della mia vita musicale: averlo visto lambire la grandezza assoluta per lo spazio di due album (Prima di essere un uomo e Il Dado) e poi avere assistito alla sua lenta precipitazione, nel mondo dei simpatici e “bravi cantautori qualunque”, mi ha fatto molto male.
Piuttosto, tornando alla manifestazione in sé, quel che non ho mai capito del concetto Sanremo nasce soprattutto dalla vita del festival attorno agli anni ’70 e ’80, quando forse la canzone italiana raggiunse il suo picco massimo grazie ad artisti come Lucio Battisti, Bennato, De Gregori, De André, Battiato, Pino Daniele, eccetera, che regolarmente snobbavano il festival, come se questo non esistesse, e piuttosto all’Ariston vedevamo Christian, Tiziana Rivale, i Ricchi e Poveri, Fra Giuseppe Cionfoli per ben due anni consecutivi e, soprattutto, Paolo Barabani con Hop Hop Somarello.
Ora invece Sanremo è tornato di moda e pare la meta di tutti. Gente tipo Bugo, che nel 2006 era un genio, adesso darebbe un crociato anteriore pur di apparire in qualche Dopofestival con Mara Venier, o semplicemente farsi fotografare con le sue nuove fichissime giacche di paillettes fuori dall’ingresso dell’Ariston.
Come cambia la vita.
Di sicuro, il fatto che Amadeus sia da tre anni il direttore artistico, in linea di massima ha svecchiato e innalzato il livello. Accanto ai nomi tradizionali come Iva Zanicchi (anche l’anno scorso c’era Orietta Berti), che comunque vengono recuperati e riletti con ironia e un pizzico di contemporaneità, vivaddio si nota un certo rispetto verso quel che sta succedendo a livello autoriale tra le nuove generazioni di cantanti, musicisti e professionisti dello spettacolo.
Ci si avvicina forse al concetto di “canzone italiana”, anche se un vero festival della canzone italiana, oggi come oggi, dovrebbe includere perlomeno Andrea Laszlo de Simone, Clavdio, Testaintasca, I Quartieri, Toni Bruna, Il Pan del Diavolo, Mapuche, Federico Fiumani (o Diaframma che dir si voglia), Celentano (sì, lui), Massimo Volume, al limite I Cani, di certo Baustelle (o anche Francesco Bianconi in solo), i Lombroso se non si so’ sciolti, Contini (nome d’arte di Alessandra Contini, ex Il Genio, il cui disco solista d’esordio pubblicato nel 2019 è stato una rivelazione e da allora ho molta fiducia in lei); e Bugo, che comunque continuerei a mettercelo, perché, anche se un po’ squinternato, è sempre gradevole, sa il fatto suo e certe volte le canzoni continua ad azzeccarle.
Poi qualche rapper, che ce ne sono di bravi.
Poi sicuramente alcuni altri che qui su due piedi non mi vengono in mente.
Chiudo con qualche frase sparsa, che forse finirà per infrangersi in qualche sigaretta violenta sui tavoli del bar. Il nazionalpopolare da ragazzo lo sopportavo, ora sono quasi del tutto dalla parte dei Bachi da Pietra. Anzi, a proposito del grande Giovanni Succi e dei suoi insetti illuminati, li aggiungerei decisamente al roster. Fine. (Brevevita Letters)
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