In occasione dell'uscita del film «L'ombra del giorno», abbiamo fatto due chiacchiere con il regista e sceneggiatore Giuseppe Piccioni.
Finalmente nelle sale L’ombra del giorno, il nuovo film di Giuseppe Piccioni, regista vincitore del David di Donatello 1999 come miglior film per Fuori dal mondo, che torna sugli schermi dopo Questi giorni, del 2016. L’intervista con il regista e sceneggiatore italiano. Buona lettura. (La redazione)
Intervista a Giuseppe Piccioni © di Brevevita Letters
“L’ombra del giorno” è il tuo primo film dopo “Questi giorni” del 2016. È passato tanto tempo, dunque parlaci di questo nuovo atteso lavoro e del suo lungo periodo di gestazione
“L’ombra del Giorno” ha origine da un paio di paginette scritte molti anni fa e che erano rimaste nel cassetto. Durante l’incontro con un produttore, insieme al quale stavo pianificando alcune idee, queste due paginette tornarono a galla, anzi furono considerate molto interessanti, quindi cominciammo a lavorarci. Dopo questa fase scelsi Riccardo come attore (Riccardo Scamarcio, n.d.r.), che poteva solo in un certo periodo, ma che si mostrò subito entusiasta del progetto. Successivamente, il produttore mi ha proposto un rinvio nella realizzazione del film, dovuto a questioni che riguardavano la sua società, e allora a quel punto Riccardo s’è fatto avanti e ha preso in mano il film, anche come produttore. Insomma si tratta di un progetto che ha avuto diverse traversie, le principali sono dovute al fatto che noi avevamo il film già tutto scritto per l’inizio 2019, poi tra un ritardo e l’altro è arrivata la pandemia, per cui i miei abituali tre anni che faccio passare tra un film e l’altro sono diventati sei.
I tuoi abituali tre anni?
Sì, tre anni sono fisiologici per me, forse nel tentativo di fare sempre un film che in qualche modo mi appartenga, in cui mi posso anche riconoscere. Non ho mai voluto essere marginale, o periferico, rispetto al cinema; mi piacerebbe anzi che i miei film avessero diritto di cittadinanza in quello spazio stretto che c’è tra lo sguardo personale e l’amore che ho per le storie, per un’idea del mondo, e per un idea di cinema spero. D’altro canto il cinema è anche un’industria quindi mi piace anche cercare un pubblico. Non credo di raccontare storie che valgono solo per una sorta di gratificante rispecchiamento, e di certo non voglio neanche chiedere allo spettatore chissà quale sforzo di comprensione; tuttavia credo che i film debbano avere un segreto, e che debbano serbare tra le righe qualcosa di più di una semplice storia; penso che le trame hanno il valore che hanno ma non sono la cosa fondamentale; sono convinto che tra le righe di una storia ci possa essere una complessità, qualcosa che perfino ci sfugge, qualcosa di cui però percepiamo in qualche modo il valore, il significato.
Bellissime le tue parole sul cinema, direi illuminanti, viene voglia di conoscere anche tutti i tuoi lavori precedenti (attività che l’intervistatore ha già quasi del tutto svolto, e con molto piacere, nel corso degli anni, n.d.r.). Oltretutto hai anche anticipato quella che sarebbe stata la prossima domanda, ovvero: a parte gli elementi della trama e a parte la struttura formale del film, c’era anche un messaggio profondo che volevi dare?
Sul messaggio profondo vado sempre in difficoltà (risate, n.d.r.), e parzialmente ho risposto già sopra; comunque, nel caso, vorrei fosse talmente profondo da non essere immediatamente comprensibile.
Chiaro. Veniamo ora al film in sé.
“L’ombra del giorno” racconta la storia di Luciano, gestore di un ben frequentato ristorante di una città di provincia, Ascoli Piceno appunto, e la storia è ambientata in un arco di tempo che va dal 1938 al 1940 inoltrato, fin dopo la dichiarazione di guerra. Luciano è un fascista “sui generis”, come la maggior parte degli italiani in quegli anni, un simpatizzante anche abbastanza convinto sebbene non abbia mai voluto fare carriera negli apparati del partito, difatti non ha cariche ufficiali, né è un attivista politico. Il suo mondo è il suo ristorante, le regole che si è dato, le sue consuetudini, una specie di barriera di protezione dal mondo esterno, un mondo che Luciano guarda con indulgenza dalla sua elegante vetrata, e gli capita a volte di pensare che probabilmente egli persino condivide il granitico muro di consenso che fino ad allora il fascismo ha ottenuto in Italia, in particolare negli ultimi anni con tanti millantati risultati conseguiti, come appunto le opere pubbliche, le nuove città, le bonifiche dell’Agro Pontino e così via, con tutta l’opera di fascistizzazione di un Paese che sembra aver ritrovato un suo orgoglio, un ottimismo diffuso in cui non sembra sia possibile una forma di dissenso organizzato. Si tratta ovviamente di un’illusione, e lo sguardo di Luciano è appunto quello di una persona che cerca di assecondare quell’illusione. Sembra che niente possa fermare Mussolini e il suo regime, però proprio il ’38 è un anno fondamentale perché arrivano le prime crepe a questo muro di consenso generale, in particolare mi riferisco alle leggi razziali. Le regole che vigono nel “rifugio” di Luciano, il suo ristorante appunto, continuano ad avere un senso finché non arriva dal mondo esterno una minaccia, che aleggia al di là della vetrina, e che diventa sempre più tetra, sempre più soffocante, fino a far vacillare le sue certezze, le coordinate della sua esistenza.
Perché Ascoli Piceno?
All’inizio il film lo avevamo idealmente ambientato a Roma, ma non riuscivamo a trovare né a immaginare un luogo dove fosse possibile girare con tranquillità, tenendo presente tutte le difficoltà di Roma: traffico, rumore, parcheggi, ecc. Per la presa diretta sarebbe comunque stato un problema enorme, e col budget produttivo abbastanza limitato stavamo facendo fatica a trovare soluzioni percorribili. Detto questo, essendo io originario proprio di Ascoli, un giorno mi ritrovai al Caffè Meletti, in Piazza del Popolo, nel centro storico della città, e lì mi è arrivata l’illuminazione. Mi era sembrato di trovarmi al di qua della vetrata da dove guardava il mondo Luciano. Il film lo ambientiamo qui, ho detto. Dapprima Riccardo (Scamarcio, n.d.r.) è parso titubante, ma poi una volta fatto un sopralluogo in città s’è mostrato entusiasta. Ascoli è una città che sorprende, rappresenta alla perfezione la provincia italiana ed è così incredibilmente ricca di bellezze architettoniche e storiche. Oltretutto il Caffè Meletti, che sarebbe stato il centro focale di molte scene, è uno splendido locale del primissimo novecento in stile Liberty puro, che conserva le sue caratteristiche non solo nella struttura e negli arredamenti, ma persino negli oggetti. Era il posto perfetto per ambientarci il ristorante di Luciano. Una volta deciso per Ascoli abbiamo immediatamente coinvolto la Regione, la Fondazione Carisap, e il Sindaco, che ha sposato completamente il progetto. Abbiamo subito avuto la sensazione che questa distanza dai “luoghi del Fascismo” cosi come erano identificabili in una città come Roma ci avrebbe permesso un approccio ancora più interessante. Ci siamo resi conto che il film avrebbe guadagnato sia dal punto di vista della resa visiva – e quindi del valore produttivo – e sia dal punto di vista della possibilità di compiere anche un lavoro di astrazione, il che avrebbe portato un valore aggiunto, un qualcosa di molto più grande rispetto a quello a cui potevamo aspirare con le nostre risorse. Girare al Caffè Meletti permette anche di non preoccuparsi di una rigorosa scansione cronologica, è come se la storia assumesse la semplicità e l’evidenza di un lavoro quasi teatrale. E girare in piena pandemia ha fatto il resto. Voglio dire che senza aver premeditato nulla, il clima che abbiamo vissuto sul set sembrava quasi assomigliare al clima che poteva essere quello dell’Italia di quegli anni. Non certo per una riconoscibilità di fatti, questioni ecc., ma proprio per certe vibrazioni narrative e per le suggestioni che ha la trama.
Mi verrebbe quasi voglia di spendere qualche parola in più sul clima dell’Italia in quegli anni . . .
Questo è un elemento di riflessione che riguarda tutti. Siamo usciti dalla seconda guerra mondiale come se fossimo stati i vincitori, in realtà eravamo dalla parte dei nazisti, quindi degli sconfitti, e l’Italia raramente ha fatto i conti con questa verità storica, per quanto importante e nobile sia stata l’esperienza della Resistenza. Noi siamo stati liberati dagli Alleati, ed è un dato di fatto che un popolo che era schierato completamente col regime Fascista dall’oggi al domani ha scoperto questa vocazione per la libertà. In fondo, la festosità e l’accoglienza riservate agli americani non erano molto diverse da quelle che venivano elargite alle marcette, alle fanfare, alle esibizioni e parate durante il periodo fascista. In ogni caso il film non è un compendio e non è un giudizio storico su quel periodo, è invece una vicenda specifica, una storia d’amore che si inserisce in quel contesto.
Non credi sia particolarmente importante, quasi necessaria, l’uscita di questo film, oggi?
In effetti ho la sensazione che questo film possa avere un impatto particolare sullo spettatore, perché in qualche modo riconduce a qualcosa che ha a che fare con l’attualità, però non mi sento di dire molto di più. Affrontiamo una storia in cui si percepisce l’idea di un paese redivivo, apparentemente compatto, che vuole a tutti i costi fornire un’immagine di sé moderna ed efficiente, ma è anche un paese che ha paura, che vede addensarsi nubi all’orizzonte e nel contempo finge di essere pronto e battagliero; in cui cominciano a esserci quelle delazioni che ha già raccontato anche Ettore Scola in “Una Giornata Particolare”; e soprattutto, un Paese dove dissentire di fronte a questo conformismo dilagante richiede davvero un atto di coraggio, come un atto di coraggio era stato quello avvenuto molti anni prima, nel ’31, quando quel drappello di professori universitari rifiutò di giurare fedeltà al fascismo, e in tanti altri episodi di dissenso “occasionale”, affidato appunto al coraggio dei singoli, più o meno organizzati. Il fascismo poi era fatto di tante sfumature diverse, anche nella nomenclatura; un conto era l’ottusa obbedienza di Farinacci, un conto altri personaggi che pur avendo avuto momenti davvero poco edificanti nella loro carriera politica mostrarono a volte stranissimi slanci, mi viene in mente Bottai, che era una sorta di intellettuale molto aperto anche al contributo di persone che erano critiche nei confronti del fascismo. Non dimentichiamoci che Bottai fu l’artefice delle leggi sulla protezione del patrimonio artistico, in assoluto la prima legislazione italiana in materia, e non dimentichiamoci nemmeno che nella sua nidiata di giovani cresciuti nell’orbita della rivista “Primato” figuravano anche personaggi come Giulio Carlo Argan, perfino Calvino. Poi c’erano i G.U.F., i Gruppi Universitari Fascisti, e qui troviamo di tutto, anche nomi che poi avrebbero partecipato alla Resistenza. Certo, forse regnava un certo automatismo che catapultava gli studenti in quei gruppi senza averlo esattamente scelto, o forse addirittura un’obbligatorietà a partecipare, ma in ogni caso voglio citare tutto questo per dire che quel ventennio fu un periodo molto più complesso e meno schematico di quello che può sembrare a noi, per come noi l’abbiamo appreso, e per come noi lo abbiamo elaborato.
Sul set è filato tutto liscio? qualche aneddoto in particolare?
Soliti ritardi che tu maledici ma che invece forniscono occasioni ulteriori per rivedere la scrittura, solito sole che ti aspetti e invece ecco la pioggia che arriva, solito amico organizzatore che continuava a ripetere: “Conviene ciò che accade“, e aveva ragione, perché l’imprevisto fornisce sempre altre occasioni. In ogni caso i problemi esistevano perché avevamo poco tempo e dovevamo girare tutto in 6 settimane, ma abbiamo fatto qualsiasi cosa in nostro potere al fine di ottenere un risultato in cui si ha l’impressione di vedere un film produttivamente solido, girato con grande passione e grandissima armonia da tutta la troupe. I momenti di intervallo poi erano incredibili, nel bene e nel male, perché ci ritrovavamo noi e la quiete della città, resa quasi irreale dall’atmosfera della pandemia. Tutto questo ha contribuito a creare un’esperienza unica. Oltretutto credo che in fondo, dentro ognuno di noi, si sia annidato un pizzico di quella ambizione profonda di quando forse stai riuscendo a fare qualcosa d’importante, e spero che dal punto di vista dello spettatore si colga altrettanto questa intensità, questo nostro desiderio. E poi c’è da dire che anche io cambio moltissimo quando sono sul set. Ho sempre quest’aria un po’ pacata nella vita quotidiana, invece quando giro un film mi scatta qualcosa di veramente strano, perché mi sembra di entrare in un tunnel in cui non farò più le cose che facevo prima, cose che appartengono alla mia vita e a cui non vorrei rinunciare; e poi però quando sono nel tunnel, il tunnel è la vita, è il posto dove tutte le decisioni che prendi hanno una conseguenza immediata, dove non ci sono attese, non c’è spazio per immalinconirsi, o impigrirsi, o rimuginare, no no, non c’è spazio, tutto è necessario, tutto è vitale, tutto è immediato e tutto diventa importantissimo. Ogni cosa che fai è cruciale. E poi quando ti dicono: “È soltanto un film“, no non è soltanto un film, non può mai essere soltanto un film, perché è come quando a un appassionato di calcio dici ‘Ma è solo una partita‘, non è così, né potrà mai esserlo.
Parlaci dell’aspetto promozionale e di post-produzione che crediamo tu stia vivendo in questo periodo. Hai molta esperienza e dunque forse sai capire fin da subito se “L’ombra del giorno” sarà omaggiato con la giusta attenzione da parte dei media e conseguentemente del pubblico. A tuo avviso le premesse da questo punto di vista sono buone?
Non ho molte illusioni sull’esito del film, sia per ragioni di difficoltà oggettive riguardo le regole di distanziamento post-covid nelle sale, sia per il fatto che in passato, per altri film di cui ero convintissimo e le cui proiezioni in anteprima avevano dato dei riscontri ottimi, non c’è stato poi un grosso risultato al botteghino. Per queste ragioni è un po’ difficile avere adesso chissà quali certezze. Tuttavia non nego che senz’altro stavolta la fiducia e l’attenzione mi sembra che ci siano, i distributori sono molto contenti, ed i riscontri che abbiamo avuto dalle prime proiezioni sono molto buoni, al punto che tutto lascia sperare che forse il film abbia qualche carta importante da giocarsi. Quindi stiamo lì con tutto l’ottimismo che si può avere, ma sono molte le cose che non possiamo prevedere del tutto, nel senso che vedremo, vedremo… è nel destino del film, è qualcosa forse ricollegabile al “segreto” che ogni film può contenere tra le righe, come dicevamo poc’anzi, e comunque è certo che il motivo per cui il pubblico premia un film a volte ti sfugge. A questo proposito posso citare, più che un aneddoto, una caratteristica ricorrente sui miei set: a me piace moltissimo lavorare con gli attori, provare, dialogare, cerco di farlo sempre, però sul set è come se volessi toglier loro la possibilità di pensare troppo. Nel contempo mi piace anche coglierli un po’ impreparati a volte, e veramente in questi casi possono venir fuori delle cose interessanti, perché può accadere che arrivino davvero dei bei regali dagli attori; quindi ecco mi piace pensare che quando faccio un film non sono solo un professionista; sì è vero, conosco il mio mestiere, posso anzi dire di conoscerlo molto bene, però nello stesso tempo ho sempre questa idea di cogliere l’impalpabile, quel guizzo in più da tutti i facenti parte della troupe, perché quello che stiamo facendo lo stiamo facendo tutti insieme e quindi cerco di trasmettere che siamo tutti parte importante di questo progetto, e insomma quando questa idea passa, di certo favorisce un clima davvero particolare, qualcosa che mi piace molto.
Come vedi l’attuale panorama, a dire la verità confuso, del mondo della distribuzione nel 2022? Cinema tradizionali, videoteche online, google film, Netflix, non è facile rigirarsi in un simile calderone, né per il pubblico e né, credo, per gli addetti ai lavori. Probabilmente siamo in un periodo di transizione?
Il futuro delle sale è incerto. Molte sale sono state costrette a chiudere a causa della pandemia, e comunque le affluenze si sono ovunque ridotte, le abitudini degli esseri umani sono cambiate, e il cinema sembra non essere più il luogo deputato alla fruizione di un film. Questo è grave, perché sappiamo tutti che cos’è una sala cinematografica e quanto sia diverso vedere un film in sala dal vederlo a casa. Le piattaforme interattive sono diventate punto di riferimento obbligato anche per molti giovani registi, per fare esperienza, sì, però mi sembra che manchi un pensiero indipendente. Le grandi difficoltà non sono solo quelle che riguardano le sale, ma anche i piccoli produttori, perché l’idea di un progetto che nasca e che preveda un percorso che non venga troppo condizionato dal rapporto che si ha con le piattaforme, come accade soprattutto in Italia, è un’idea che attualmente è difficilissima da realizzare. È una situazione abbastanza confusa sì, ma io sono ottimista, e non credo che queste piattaforme possano risultare alla lunga così pervasive e vincenti. Non lo so… C’è stata una golden age delle serie televisive e ci sono state cose molto belle. Adesso mi sembra che la presenza sul mercato di queste piattaforme sia un po’ troppo forte, una presenza così ingombrante da ridurre anche la figura del produttore, che diventa un’appendice del processo produttivo e distributivo, quasi delle persone che ricevono delle commesse, e quindi s’è un po’ avvilito il panorama che c’era tanti anni fa con tanti piccoli e medi produttori indipendenti. Attualmente anche le nuove stagioni delle serie più riuscite danno quasi l’impressione di una specie di grande supermarket dove ci possono essere prodotti anche molto buoni, però tutto è troppo “cercato”, tutto è troppo diretto verso l’intercettazione di questo algoritmo che dovrebbe essere l’indicatore dei gusti del pubblico. Questa è la realtà attuale, ed è una realtà che mi lascia perplesso. Però, come ho già detto, io sono ottimista e penso che ci sarà un grande ritorno della sala, soprattutto penso che si riuscirà a reagire a questa specie di vita domestica in cui siamo relegati e che si possa davvero tornare a vivere la sala, lo auspico. Ci sarebbe bisogno di nuove idee e di qualche persona illuminata che trovi il modo di far rivivere le sale tenendo conto dei tempi in cui viviamo, mi sembra che oggi si assecondi troppo l’esistente.
Come hai vissuto la pandemia?
Solitudine. Paura. Non ho avuto covid però vivendo da solo la mente viaggiava e avevo l’incubo che i Monatti venissero a prendermi per trascinarmi da qualche parte non dandomi la possibilità di avvisare nessuno. Quei lunghi mesi per me sono stati un grande momento di solitudine, di riflessione, di ricerca, di letture, di scritture di appunti, e anche di risveglio fortissimo. Ero pervaso da una strana energia. Sono anche riuscito durante la prima ondata a non bere mai un bicchiere di vino, e a smettere di fumare. A volte nelle condizioni peggiori riesco a fare delle scelte davvero decisive. E anche per queste ragioni avevo un attività mentale intensissima, grande lucidità, grande voglia di fare che nel corso di un anno mi ha permesso di realizzare molte cose: uno spettacolo teatrale, un film, un documentario. Lo so è paradossale.
Un pensiero su Roma e un pensiero su Ascoli Piceno, le tue due città.
Roma è una città strana perché da l’idea di essere una città molto accogliente, il cui cinismo possa in qualche modo risultare inoffensivo, invece a Roma mi sembra che si corra sempre il rischio di perdere tantissimo tempo. Parlo sopratutto per quel tipo di scelte che ho fatto io, e per coloro che intendessero fare questo stesso tipo di scelte. È come se a Roma ci si trovasse in una sorta di anticamera, una sala d’attesa, e non si è mai dentro alle cose fino in fondo. Su Ascoli, beh, è il luogo della mia infanzia e adolescenza, dei miei genitori che non ci sono più, dei miei fratelli che ancora ci sono, delle radici, è ovvio che resti sempre qualcosa di forte. Ora quando passo in città mi trovo a parlare con persone che hanno fatto parte del mio passato, e capisco che anche se tornassi non sarebbe mai un vero ritorno. C’è qualcosa che mi fa sentire nel mezzo di queste due realtà: una a cui non appartengo più, e l’altra in cui non mi sono mai radicato totalmente. Su Ascoli però voglio dire un’altra cosa: durante le riprese di questo film è stato chiaro ai nostri occhi come tutti, tutte le persone della città abbiano dato il loro contributo, è stato bellissimo come ci hanno accolti, come ci hanno aiutato a risolvere delle situazioni, come io sia stato amato dalla mia città. Certo, siamo sempre in provincia, e c’è sempre qualche voce dalle retrovie che chiacchiera, no? (risate, n.d.r.), però alla fine dei conti si è trattato di un vero e proprio abbraccio, ed è stato emozionante.
Prossimo progetto o prossimi progetti a cui stai lavorando o conti di lavorare?
Vorrei tanto dirtelo ma è un po’ difficile. Ci sono dei pensieri, delle riflessioni, delle ipotesi, però devono passare un po’ di settimane prima che possano davvero resistere alla mia abitudine di ripensarci e di cambiare storia. Non posso dirti con esattezza qualcosa di delineato, no, perché al momento non sussiste. C’è ancora una specie di nebulosa in cui mi trovo dentro abbastanza incerto.
Nella tua carriera hai avuto sempre un buon riscontro sia di pubblico e sia di critica, ma specie nel periodo del trittico “Fuori dal mondo”, “Luce dei miei occhi” e “La vita che vorrei” la tua popolarità ha toccato picchi altissimi. Dopo di queste scorpacciate di gloria il tuo cinema e il tuo tocco delicato sono rimasti sullo stesso livello (“Il rosso e il blu”, uno dei miei preferiti), ma a me pare che si sia iniziato a parlare meno di te e del tuo lavoro. C’è stato qualcosa che è andato storto e che ha determinato una minore attenzione nei tuoi confronti? Oppure si tratta semplicemente di fisiologiche vicissitudini della vita da regista di successo?
Faccio fatica a rispondere a questa domanda. Sono argomenti talmente delicati di cui magari potrei parlare con un amico, e faccio fatica a confessarmi. In ogni caso la vita di un regista non dovrebbe garantire un risultato dal punto di vista del successo riconosciuto e dello status, poi ovviamente se uno ce l’ha meglio. Per quanto mi riguarda, io ero preparato a questo genere di dinamiche. Non ho scelto questo mestiere per acquisire uno status. Non nego di avere come tutti un pizzico di vanità e piacere nel ricevere consensi, però io non rinuncio a cercare di fare i miei film. Il cinema è stata la mia scelta definitiva e mi ha assorbito totalmente nonostante io non sia mai stato così prolifico come avrei dovuto essere, ma a me piace pensare che posso mettere in fila 6-7 film in cui mi riconosco e in cui posso dire che c’è una linea, chiara, soprattutto dopo i primi film, forse da “Fuori dal Mondo” in poi. Non dico che “Chiedi la Luna” o “Il grande Blek” non siano degni miei figli, ma dopo di essi questa linea di cui parlo mi appare più chiara. Quello che posso dire è che di certo, mettendo da parte queste dinamiche dello show business, sempre un po’ aleatorie, io conservo per esempio un bellissimo rapporto con i ragazzi (gli studenti di cinema, n.d.r.), e quando mi chiamano per fare delle lezioni io mi trovo benissimo con loro; mi piace aiutarli a non perdere troppo tempo nelle loro elucubrazioni, a non perdere il tempo che ho perso io, perché l’esperienza è un accumulo di errori e allora cerco di non far fare a loro gli errori che ho fatto io. Come vedi per fortuna ho degli spazi in cui mi rigenero, anche quando non faccio un film. E poi ho dei momenti in cui sto a misurare anch’io – come tutti – il valore delle cose che ho fatto, cosa mi è mancato, e rimugino, però ancora ho un idea di futuro, sono sempre lì a progettare, leggo tantissimo, anche se mi piace molto il calcio per cui mi ritengo un italiano medio (risate, n.d.r.). Mi piace il calcio anche perché mi piacciono le storie, la vita irripetibile di quei novanta minuti, sempre appesi a centinaia di decisioni immediate da dover prendere e da cui non si torna indietro (in questo il calcio ha di certo molto in comune col cinema dunque, n.d.r.), il fattore imponderabile che c’è in una partita di calcio, in cui le cose si possono risolvere in un secondo oppure annegano in un match che non si riesce a raddrizzare. È per tutta questa serie di motivi che una risposta ancora più approfondita mi riserverei di dartela in un periodo futuro, più avanti, quando il momento dei bilanci si presenterà in maniera più perentoria. Un’altra cosa che posso dire riguardo le vicissitudini del regista è che esse non sono solo una cosa fisiologica, ma sono anche determinate da scelte di direzione ben precise che si fanno durante l’esistenza, e che contribuiscono a costruire uno specifico percorso per ognuno. Mi spiego meglio: a me piace costruire commedie, ma non commedie inoffensive in cui lo spettatore si ritrova per quello che è e si compiace di essere descritto in quel modo, no, piuttosto a me piacerebbe fare per esempio una commedia gioiosa come poteva farle Lubitsch, un qualcosa che veramente aiuti a vivere, perché Lubitsch aiuta a vivere con storie che non sembrano profonde, che hanno a che fare forse solo con l’aspetto superficiale del vivere, ma allo stesso tempo sono storie dal tocco delicato e dal gran bel gusto, è come un bicchiere di champagne di grande qualità, anche quella è vita, anche quello fa parte della vita.
Un collega italiano che stimi particolarmente.
Ce ne possono essere alcuni, sì, non tanti. Per esempio Sorrentino e Garrone. Magari non riconosco appieno il valore di tutti i loro film però li stimo, anzi un pochino li invidio per la libertà di cui possono godere, perché se la sono conquistata manifestando perentoriamente il loro stile. Poi ci sono alcuni volti nuovi, ad esempio “Aria Ferma” di Leonardo Di Costanzo è un film che mi è piaciuto moltissimo. A parte questo, vedo troppi ragazzi giovani che ambiscono solo a entrare nel mondo del cinema ed essere riconosciuti come “facenti parte di” (un circoletto chiuso, una élite, n.d.r.), insomma tanti ragazzi che aspirano semplicemente a uno “status”, anziché concentrarsi sulla loro formazione e sull’espressione della propria “voce”, il proprio pensiero cinematografico; ecco, questa è una cosa che mi delude un pochino.
A tal proposito, che cosa consiglieresti a un ragazzo che sente di voler fare del cinema? Quale scuola di cinema, quale attrezzatura, e a chi mandare i propri corti dopo averli girati? Bisogna iniziare “a girare” senza tante menate come dice Scorsese?
È difficile. Il primo consiglio che darei è capire la ragione per cui si vuole fare cinema, perché non è sempre cosi lineare, come dicevo poc’anzi a volte è solo un desiderio malsano di successo. Dopodiché gli augurerei di non atteggiarsi nelle storie che sceglie di raccontare, piuttosto cercarle nel profondo di sé stesso, e fare in modo che queste storie rivelino un mondo. Vedi, a volte i ragazzi che frequentano le scuole di cinema pensano di dover riempire tutte le caselle dell’esistente per quanto riguarda libri da leggere e film da vedere, invece la prima cosa che dovrebbero fare è muovere la ricerca partendo da sé stessi, non aver paura di riconoscere le proprie impronte digitali e i propri limiti, e trasferire tutto nelle storie che scegli. Bisognerebbe creare un piccolo altarino di registi e scrittori che ti corrispondono, che fanno parte del tuo mondo, questa è una cosa da fare subito, bisogna appunto trovare la propria “voce”, ecco, perché quando si scopre questa cosa è come aver trovato una pepita d’oro, si scopre un sentiero che è il “tuo” sentiero, non di altri, e questo è bellissimo. Vorrei anche aggiungere che, a prescindere dal fatto delle commedie di successo commerciale o dei film d’autore, spesso in Italia si fanno dei film di “atteggiamento” in cui si cerca di corrispondere una tendenza estetica generale, anche un po’ vaga, non ben centrata, e invece occorrerebbe capire bene dove si è, in che luogo, dove sta la tua identità. Bisogna dare manifestazione a queste cose, assolutamente, perché la nostra “voce” si formi e si arricchisca con importanti autori che si eleggono come i nostri compagni di viaggio, che alimentano il nostro linguaggio, il nostro stesso modo di parlare con gli altri, è importantissimo. Per esempio nei corti non bisogna farsi prendere dalla smania di trovare un’idea, perché penso che i corti che hanno un’idea apparentemente forte, si rivelano poi corti dal respiro “corto”. Bisognerebbe semplicemente usare i corti come biglietto da visita, come un logo, una intro a qualcosa che verrà. E poi non bisognerebbe preoccuparsi delle delusioni, e di tutte quelle cose che si dicono riguardo il cosiddetto “bisogna fare le conoscenze…”; è invece fondamentale avere una enorme fiducia in quello che si fa e mettere tutto il meglio che sei in quei periodi della tua vita in cui sei giovane e in cui devi cercare di farli, prima di tutto, questi piccoli film, anche con risorse sgangherate. D’altro canto credo che il talento si riconosca anche in opere molto povere, anche se si volesse filmare qualcosa con una telecamerina o un telefonino, ma di certo auguro a chiunque che ci sia anche la possibilità di fare qualcosa di più di questo.
Tarantino, Spike Lee, George Clooney, Fratelli Coen, un aggettivo su ognuno, per favore. Anche due se vuoi. E dicci, è gente che ti piace?
Prima di tutto è gente che mi piace perché, per esempio, se penso ai Coen, quella è una idea di cinema d’autore che non nega l’aspetto spettacolare del film, e quando parlo di spettacolo lo intendo in senso buono. Anche Truffaut parlava di spettacolo, diceva che “il film è un battello che rischia di affondare e che bisogna tenere a galla in ogni momento“. Insomma spettacolo può significare anche un film molto rigoroso o un film da camera o un film girato in due stanze e cucina. Per quanto riguarda gli aggettivi: Tarantino rivoluzionario, antipatico ma rivoluzionario; Spike Lee, libero; George Clooney sorprendente, personalissimo nei suoi film; fratelli Coen, beh, già lo accennavo qui sopra, direi innamorati del cinema e innovatori su tutto, specialmente su quel loro mondo di personaggi incredibile, un mondo che non era stato mai raccontato, e oltretutto raccontato con uno stile nuovissimo. Direi degli scienziati quasi.
Ultima domanda, sull’animo umano, ma niente di troppo filosofico per carità. Argomento: i legami con le persone (amicizie, affetti familiari, ecc.), come si trasformano andando avanti nel tempo? Si amplificano? Tutto prende direzioni diverse producendo un grande malinconico distacco? Oppure è vero come dice qualcuno che subentra una specie di ipersensibilità allergica? Non sarebbe bello costruirci un film?
Sì credo che per questo tipo di legami, specie per i vecchi amici, si crei questo distacco anche incolmabile, soprattutto perché ogni volta si cerca di resuscitare nelle maniere più ovvie, attraverso i ricordi, quindi le varie rimpatriate non si proiettano mai nel nuovo dell’esistenza; d’altro canto è anche vero che tutti noi ci siamo pure un po’ dimenticati di antichi pezzi di vita passata, e per quanto mi riguarda io sono stato il primo a farlo, però adesso ammetto che provo un piacere, quasi una necessità di tornare saltuariamente nei luoghi e nelle ruette dove ebbe origine tutto, e forse è una dinamica legata ai miei anni (Giuseppe Piccioni è nato nel 1953 ad Ascoli Piceno, ma vive e lavora a Roma, n.d.r.). Da quel che mi sembra di capire, c’è un tempo per ritrovare e rispolverare antiche storie, antiche immagini, in quello spazio che non fa parte dei rapporti “finalizzati a”, in quello spazio che non era contaminato da altri interessi se non quello dei primi passi nella vita, la vita quella tua quella vera, e dunque le primissime amicizie. Quanto alla famiglia avrei voluto costruirmene una per mio conto, assolutamente, anche perché sono cresciuto in una famiglia molto semplice in cui però c’era sempre molto chiasso, molta vita, molta presenza in casa di voci, rumori, e dunque adesso, anche quando dormo, se sento rumori dalla strada o dai vicini non mi danno per niente fastidio, anzi mi fanno compagnia. Quindi certo che mi piace, adesso anche più di prima, rivedere gli old friends, quelli dei primi anni in cui ti affacciavi nel mondo, e cominciavi a vedere la possibilità di un futuro che fosse per tutti noi sfolgorante. Mi piace rivederli con gli acciacchi, le sconfitte, le soddisfazioni, tutto. L’età ti dà la possibilità di riavvicinarti, di far sentire tutti nella stessa barca, con il futuro che si restringe, con le preoccupazioni, e vivaddio anche con progetti che riguardano il domani, e insomma c’è qualcosa di inevitabile in questo nostro essere vivi. Varrebbe assolutamente la pena costruirci un film però sfuggendo a quella idea un po’ melensa dei ricordi, della sconfitta, delle mediocrità, bisognerebbe trovare una strada diversa, non so quale.
Grazie, Giuseppe. L’ultima domanda su Dio esiste te la risparmio, tanto siamo sicuri che non c’è. (Brevevita Letters)
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