Si può essere punk fino al midollo senza borchie, capelli sparati e calze a rete?
Si può essere punk fino al midollo senza borchie, capelli sparati e calze a rete? Patti Smith sa come si fa: il suo debutto Horses non è solo punk, ma precede e profetizza il movimento intero. Oltre a ispirare alcune delle gran dame del genere – Siouxsie Sioux e Viv Albertine su tutte – trascina sulla scena una nuova arrivata con tanto da dire, e zero peli sulla lingua nel dirlo.
Horses di Patti Smith è uno di quei debutti che passano in sordina – ci sta, senza dubbio, per un’artista che col passare del tempo avrebbe lasciato impronte ben più marcate. Ma quello che si capisce solo guardandola è che quella è una donna che avrebbe lasciato un’impronta. E in una maniera molto vintage per un’artista degli anni settanta: come balladeer vecchio stile, che affida alla sua penna pezzi interi di mondo.
“Cavalli”: titolo azzeccato, perché la parola che più di tutte descrive la Patti Smith che si sente in Horses è “cowgirl”. Per essere precisi un ibrido tra Calamity Jane e Charles Baudelaire, alla cui iconografia popolare Smith si ispira per la copertina. E già quella foto, a quello sguardo di ghiaccio, a quei capelli scompigliati, e quel corpo androgino che appartiene solo e soltanto alla sua proprietaria, si meriterebbe più di un paragrafo. “E tutto intorno a lei è una pozza di luce argento” cantava KT Tunstall in Suddenly I See, la canzone dedicata a Smith come sua musa ispiratrice. “Ti fa sentire calmo/ti tiene nel suo palmo”. La copertina di Horses per citare Talia Schlanger del World Cafe, rappresenta uno dei primissimi esempi di female gaze: ed è lo sguardo di Smith a farla da padrone. Un filtro sul mondo che, pur provenendo da una donna giovane, è colmo di dignità e maturità.
Le riesce facile, o così pare. La spontaneità diventa da subito parte del suo carattere, anche grazie a una voce fresca e versatile che lei presenta da subito in mille forme diverse. Attrice, più che cantante, e poliedrica senza fatica. Interpreta una madre e un figlio con la stessa facilità, vive insieme il lutto e la celebrazione, e sa mostrare sicurezza esperta e intima vulnerabilità con lo stesso, veloce colpo di mano.
Il carisma istantaneo e magnetico di Patti Smith, dalla voce calda alla verve teatrale delle sue performance, dona alle tracce di Horses un’immediata credibilità. È una peccatrice, come si presenta nella prima traccia Gloria: In Excelsis Deo, ma non si macchia di lussuria come ci si aspetterebbe da una donna di musica. È disinvolta, ma non per farsi vedere o comunicare qualcosa. È sensibile e sognatrice, ma non stucchevole. Ha un senso di giustizia, ma sa che la vita è dura. Come Cat Stevens – ma senza l’immediata riconoscibilità di una Father and Son, perché si accolla dinamiche più complicate – Smith brilla di più quando parla di dinamiche famigliari. Lo fa con esperienza, ma anche con molto cuore. Diventa addirittura la sua stessa madre in Free Money, dove la narratrice sogna di arricchirsi per viziare sua figlia e tenerla lontano dai dolori.
Smith si trova particolarmente a suo agio con le storie legate alla sua famiglia. Da Kimberley, dedicata teneramente alla sorella minore, a Redondo Beach, retelling melodrammatico di una lite con la sorella maggiore. E la cantante diventa una Jo March in brache e bretelle: litigiosa un minuto, tenera e materna quello dopo. Nulla, dopotutto, dice che non possa concedersi quel ruolo. Forse, tuttavia, gli esempi più calzanti dell’occhio lungo della signora si manifestano nelle sue cover. Patti Smith, che come molti artisti dell’epoca si mette alla prova cimentandosi con qualche vecchio classico, ne sfoggia due. E anche allora emerge il suo estro, perché nulla rimane uguale. I mezzi non sono innovativi – in Gloria: In Excelsis Deo assistiamo a una profanazione del sacro che, soprattutto a posteriori, non percorre terreni mai toccati – ma l’affabile sfacciataggine di Smith lo fa funzionare e amare. Ma anche queste sono minuzie a confronto con la vera sorpresa di Horses: la Smith poetessa e attrice.
La citazione a Charles Baudelaire sulla copertina di Horses, nell’abbigliamento di Smith. è un sottile indizio per gli uditori e anticipa una chicca molto speciale. Smith è da sempre appassionata di poesia, e con il suo debutto mette da subito in chiaro che chi avrà voglia di seguirla dovrà aspettarsi di trovarne parecchia e buona. Appare per la prima volta in Birdland, in un climax frenetico e ubriaco, e ricompare all’inizio della title track Horses. Non c’era, per l’album, un inizio più adatto: un po’ dramma di formazione, un po’ solo voglia di ballare, una vera maratona rock da cinque minuti. Riprende tra le altre cose Land of a Thousand Dances, canzone di poco conto degli anni sessanta. E con essa ricorda la tesi di ogni grande album: la passione. Per la poesia, per le grandi storie, per la voglia di crescere e diventare, di raccontarsi e far sapere chi si è. E naturalmente per la musica, qualunque essa sia.
Patti Smith, con Horses, non vuole prendere posizione. Si veste da uomo perché le piace, racconta dei suoi peccati e della sua sicurezza perché è fatta così. Eppure, nel farlo, non può fare a meno di lasciare una traccia di sé. Perché è scapigliata, perché è stramba. Perché è punk. Perché adora quello che fa. Sbraita e ringhia alla fine di Break It Up, come a cadere a pezzi, e come a dire questa va cantata così, è difficile, ma va così. E poco dopo gorgheggia in Elegie, tributo a Jimi Hendrix e ai morti in generale, ma si rivolge ai suddetti morti chiamandoli colloquialmente “our friends”. Si muove, si sbraccia, si fa sentire e racconta le sue storie intorno a un fuoco che si allarga a tutto il mondo. Ai nuovi arrivati un sorriso, una pacca sulla spalla, e uno spazio per sedersi e ascoltare. Ed è così che Horses marcia nella storia e vi rimane. (Maria Flaminia Zacchilli)
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