Fuori dal tempo, lontano dalle mode e ricolmo di quella stessa passione che anima la mia esistenza, In Black We Trust – album che segna il debutto dei madrileni Grupo Salvaje – lascia trasparire quel “vecchio e caro spirito rock” di cui avevo perso le tracce. Un condensato d’intimità, di eleganza, di mistero e di nobiltà d’animo che riflette il nero della solitudine e del silenzio; una miscela di coscienza e di intuizione che brandisce le capacità primordiali di un autentico gruppo selvaggio (chiaro il riferimento a The Wild Bunch di Sam Peckinpah del 1969). Un’opera che mette insieme Dio ed Elvis e dove confluiscono, con lucidità e sentimento, una gran quantità di sensazioni come l’amore, il dolore e la disperazione. Canzoni semplici, dolci e amare, oscure e sensuali, che si alimentano tanto di Leonard Cohen quanto dei Lambchop e che in alcuni passaggi sembrano celebrare il miglior Bob Dylan (How to make God come). L’elemento che distingue e condiziona gran parte delle composizioni di questo lavoro è la voce di Ernesto González, riflessiva, profonda e piacevolmente mutevole; meno oscura di Mark Lanegan (The survivor), più vigorosa di Kurt Wagner (Watercolour summer) e in certi momenti quasi come quella di Lou Reed(Oh! My dear) . Ad affiancare il cantante spagnolo – che suona altresì chitarra e armonica – ci sono Carlos Perino (batteria, percussioni e cori), Javier Rincón (banjo), Oscar Feito (chitarra elettrica e mandolino) e Pepe Hernández (chitarra elettrica e slide) con il coinvolgimento saltuario di Abel Hernández (piano, organo), validi musicisti e al tempo stesso squisiti compagni di avventura. In Black We Trust è un disco dal taglio classico, anacronistico, ma pieno di frammenti che bucano la pelle, un coacervo di eccitazioni che si estendono attraverso i delicati rimandi country/soul di A christian family e di Watercolour summer, le penombre di Oh! My Dear e il fascino di Sorrynonews e di Elvis, love us! (con espressioni, manco a dirlo, alla Elvis Presley). Un catalogo di emozioni che coniuga la solennità del folk rock (How to make God come) con la dolcezza del pop (Roses & Despair). Un esordio fluido e avvolgente sostenuto dalla malinconia di Desheredada (track strumentale che richiama alla mente i Black Heart Procession) e dalla quiete di The survivor, brano conclusivo dalle aperture narcotiche e cinematografiche. Con l’immagine di Elvis in copertina e con il nome di Joe Strummer trascritto in un angolo del booklet, la formazione spagnola sfoggia conoscenza e personalità tramite nove episodi che si tingono di nero; quello stesso “colore” che Johnny Cash fece proprio come risposta alle ingiustizie che affliggono il mondo. (Luca D’Ambrosio)
[1] Recensione e intervista realizzate nel 2004 ma pubblicate su ML – n. 9 del 18 maggio 2005