Stan Ridgway è tornato portandosi dietro uno dei dischi più belli del 2004: il suo.[1] Un’opera ispirata e brillante che restituisce al cinquantenne stregone californiano quella sospirata creatività di cui sentivamo la mancanza fin dai tempi di The Big Heat (1986), una vera e propria pietra miliare dell’american music e della storia del rock. Ovviamente non siamo a quei livelli ma possiamo assicurarvi che Snakebite (Blacktop Ballads & Fugitive Songs) con le sue fluide ballate country/blues, stralunate e in leggero chiaroscuro, si candida a diventare uno dei lavori più azzeccati e interessanti della sua carriera da solista. Sostanzialmente immediato e dalle fogge tradizionali, l’album si spiega all’interno di splendide armonie punteggiate di sonorità new wave e umori suburbani, spogliandosi di quelle misurate artificiosità che tanto hanno dato allo sciamano del deserto di Barstow. Un pugno di canzoni (beh, si fa per dire, considerate le 16 tracce e i quasi 70 minuti di durata) in cui si stemperano i frammenti western di Wake Up Sally e di Your Rockin’ Chair (che ricordano qualcosa dei Blasters e di Ry Cooder), le armoniche folk/blues di Afghan/Forklift e i sentimentalismi alla Springsteen di God sleeps in a caboose. Melodie vivaci (Running with the carnival), familiari (My Rose Marie), malinconiche (Our Manhattan moment) e lievemente sbarazzine (That big 5-0), dove trovano spazio le atmosfere minacciose di Monsters Of The Id e le eloquenze di Talkin’ Wall Of Voodoo blues pt. 1 che rievocano le immagini di un passato senza tempo. Restano immutati invece, come se si trattassero di eterni marchi di fabbrica, lo spleen acustico di molte composizioni e quella sua inconfondibile voce metallica, cava e piena di pathos, che in King for a day risuona quasi come quella di Lou Reed. Zigzagante come l’incedere di un serpente e dirompente come un colpo di pistola, Snakebite (Blacktop Ballads & Fugitive Songs) realizzerà la felicità di molti ascoltatori, soprattutto di quelli che hanno saputo attendere alla finestra questo gradito e meraviglioso ritorno. (Luca D’Ambrosio)
[1] Recensione pubblicata su ML – n. 13 del 25 giugno 2005