Nel marasma musicale d’oggigiorno, fitto di nuove e repentine uscite discografiche che il più delle volte rendono spasmodici i nostri ascolti, capita sempre più spesso che alcuni dischi, così particolarmente piacevoli, durino giusto il tempo di una breve stagione musicale per poi essere dimenticati in un angolo recondito dei nostri scaffali. È il caso di Redemption’s Son, terzo album in studio del musicista americano Joseph Arthur, lasciato in disparte per un lungo periodo e ripescato casualmente in occasione della solita riorganizzazione di fine anno. Scoperto da Peter Gabriel attraverso la sua Real World Records, l’artista statunitense (originario di Akron, Ohio, ma trasferitosi da diverso tempo a Brooklyn, New York), dopo alcuni EP e due full-length, rilascia questo lunghissimo CD contenente, appunto, ben 73 minuti di vibrante pop rock d’autore. Sedici oneste canzoni che si muovono tra Beck e Jeff Buckley, capaci di corrompere cuore e cervello attraverso le atmosfere folk di Honey And The Moon, le pieghe soul di Could Be In Jail e i riverberi etnici e psichedelici di National Of Slaves. Un lavoro che coniuga fragilità elettroacustiche (Termite Song), motivi ruffiani (September Baby) e miscugli di rumore e melodia (Permission) senza mai perdere, tuttavia, quell’equilibrio fatto di intensità e romanticismo rintracciabile nella dolce ma rockeggiante Blue Lips e in Favorite Girl, talmente intima da sembrare scolpita nell’anima. Una fatica, leggera e malinconica, suggellata da tracce come Innocent World, passaggio che sembra sospeso tra i Radiohead e Neil Young, e Buy A Bag che, invece, dà l’impressione di riecheggiare qualcosa di Prince. Segnaliamo, infine, You Are The Dark, nenia dalle tinte country, e la ballata conclusiva You’ve Been Loved. Dopo Big City Secrets del 1997 e Come To Where I’m From del 1999, Redemption’s Son è un altro lavoro pieno d’energia che, nonostante la durata eccessiva, non scade mai nella mediocrità. (Luca D’Ambrosio)
[1]Recensione pubblicata su ML – Update n. 61 del 28 gennaio 2008