Prima di affrontare l’acceso dibattito sulle quote di musica italiana nelle radio, premetto che ideologicamente sono contrario a ogni sorta di quota culturale e sociale. Ciò perché credo fermamente nelle qualità morali, intellettive e artistiche della singola persona, indipendentemente da genere, nazionalità, orientamento politico, religioso e sessuale.
Detto questo, ecco il mio pensiero sull’argomento.
Da un po’ di giorni non si fa altro che discutere della proposta di legge depositata dalla Lega, ma in qualche modo già avanzata nel 2017 dall’ex ministro Dario Franceschini, circa l’obbligatorietà per le emittenti radiofoniche, sia pubbliche che private, di “riservare almeno un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori e di artisti italiani e incisa e prodotta in Italia, distribuita in maniera omogenea durante le 24 ore di programmazione (art.2, comma 1)”.
Si aggiunge poi che “una quota pari almeno al 10 per cento della programmazione giornaliera della produzione musicale italiana di cui al comma 1 è riservata alle produzioni degli artisti emergenti (art. 2, comma 2).”
Nella proposta dal titolo Disposizioni in materia di programmazione radiofonica della produzione musicale italiana (qui il testo integrale) si legge inoltre, nell’articolo dedicato ai “Principi”, che “la musica italiana è riconosciuta come patrimonio artistico e culturale della Repubblica ed è tutelata ai sensi dell’articolo 9 della Costituzione (art. 1, comma 2)” e “in attuazione del principio di cui al comma 1, la presente legge mira all’introduzione, per le emittenti radiofoniche, dell’obbligo di trasmissione di una quota minima di musica italiana nella programmazione giornaliera (art. 1, comma 2).”
Ora però mi chiedo, al di là degli eventuali buoni propositi del legislatore, cosa c’entri tutto ciò con la musica e l’arte in generale, e in particolar modo con la salvaguardia del mercato discografico italiano.
La domanda è soltanto una: in un’epoca dove l’informazione e le vendite discografiche passano attraverso siti, canali e piattaforme online, credete che l’obbligatorietà imposta per legge possa favorire la crescita dell’industria musicale italiana, compresa quella emergente?
La mia risposta è: NO! Per diverse ragioni che cercherò di esporre per punti.
1) Di musica italiana le radio e le tv “mainstream” ne passano già abbastanza e le classifiche del Paese sono dominate da tanti artisti italiani, basta farsi un salto sul sito della FIMI.
2) La musica oggi non si regge più sulla vendita dei dischi, bensì sui concerti. L’album è diventato un oggetto promozionale e il mercato mondiale si è talmente contratto da fare abbassare la soglia per l’assegnazione dell’ambito “Disco d’oro” (in Italia è di 25mila copie, inclusi gli streaming a pagamento). C’è da dire però che se un artista passa su un canale “mainstream” ha più possibilità di diventare popolare e quindi di fare concerti. Ma è altrettanto vero che vi sono tantissimi musicisti e gruppi che sopravvivono grazie al web e a una fitta rete di social network. Pertanto, in questo caso, l’applicazione della legge sarebbe inutile, a bilancio zero.
3) Credo che l’imposizione per legge di “una quota italiana” favorisca sempre di più strutture forti e collaudate economicamente, a tal punto da veicolare anche il mercato degli “emergenti”.
4) Il fatto che una legge simile sia applicata anche in Francia o che Mogol, Presidente della Siae, sia a favore non vuol dire nulla. Anzi, la mia paura è che questo atteggiamento possa espandersi in tutti gli Stati del mondo limitando la libera circolazione della cultura. Un approccio localistico che rischierebbe di impattare negativamente con il momento ben più complesso, articolato e globale che stiamo vivendo.
5) Sono sempre più convinto che l’identità, la conoscenza e lo sviluppo culturale di un territorio non si possano tutelare per legge ma soltanto mediante la pluralità e la libertà di scelta.
Molte di queste argomentazioni si possono trovare anche nel mio libro “La musica, per me. Come funziona la musica? Rispondono 50 artisti italiani” (un po’ di pubblicità non fa mai male).
Chiuderei quindi questa breve riflessione prendendo in prestito il verso di una canzone del 1976 di Eugenio Finardi dal titolo La radio:
“Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente. Se una radio è libera, ma libera veramente, piace anche di più perché libera la mente”.
Con buona pace di Mogol. (L.D.)
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