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Amerigo Verardi: indipendenti si nasce. Una lunga e interessante intervista del 2011

Un lunga intervista a Amerigo Verardi del 2011

Intervista ad Amerigo Verardi (2011)
Alla stregua di personaggi come Federico Fiumani, Miro Sassolini, Cesare Basile, Paolo Benvegnù, Umberto Palazzo, Giancarlo Onorato e Moltheni, giusto per fare qualche nome, Amerigo Verardi è una delle figure storiche e carismatiche della scena musicale indipendente italiana. Un musicista e un produttore che, nonostante tutto, è ancora qui a scrivere, a suonare e a discutere di rock. Oggi come allora. Siamo partiti dai mitici Allison Run per arrivare a parlare della collaborazione con Marco Ancona e dei suoi nuovi progetti, tra cui un nuovo album da solista di prossima uscita. Il risultato è questa lunga, sincera e appassionante intervista. Buona lettura.

AMERIGO VERARDI
Indipendenti si nasce di Luca D’Ambrosio
Intervista ad Amerigo Verardi (2011)

Amerigo, innanzitutto grazie per la disponibilità. Devo ammettere che le domande che vorrei farti sono talmente tante che non saprei da dove iniziare. Ad ogni modo cercherò di mettere in ordine i miei pensieri seguendo un percorso più o meno cronologico. Pertanto, partirò dall’inizio della tua carriera. Forse non tutti sanno, soprattutto i giovanissimi, chi erano gli Allison Run, quando e come sono nati. Ti va di dirci qualcosa, anche correndo il rischio di essere ripetitivi?
Gli Allison Run sono stati il primo gruppo che ho messo insieme, basandomi sul forte desiderio di collaborare con Alessandro Saviozzi e Mimo Rash che erano rispettivamente chitarrista e batterista di una band punk/new wave che mi piaceva da morire, i TRASH, brindisini come me, e che come me si erano da poco trasferiti a Bologna. Poi, sempre a Bologna, ho conosciuto un altro ventenne talentuoso, Umberto Palazzo, che con il suo modo di suonare e di essere mi ha aiutato a introdurmi in modo più sofisticato nelle trame della scena indie dei primi anni ‘80. Umberto ha collaborato con gli Allison fino a pochi mesi prima delle registrazioni di “All those cats” nel 1986, e poi rientrò nella band come bassista alla fine del 1988. Siamo stati fortunati fin dall’inizio, perchè cominciammo a ricevere i primi lusinghieri commenti al nostro progetto già dopo l’uscita del primo disco. Da quello che si diceva in giro, gli Allison erano uno dei migliori gruppi italiani, pur appartenendo a un movimento musicale di chiara matrice anglosassone, la cosiddetta Nuova Psichedelia. Io ero sorpreso in particolare dagli apprezzamenti sul mio modo di scrivere canzoni, era una cosa fantastica ricevere simili complimenti, credo di essere cresciuto molto come autore anche grazie all’attenzione che mi è stata riservata fin da principio. È stimolante, oltre che gratificante, e tutti i musicisti di talento meriterebbero di ricevere quello che ho ricevuto anch’io, semplicemente per poter essere messi nelle condizioni di offrire il meglio di sè. E comunque non c’ero solo io negli Allison Run. È proprio vero che eravamo un buon gruppo, almeno per come lo intendo io ancora adesso un gruppo. Creatività, gioco, sperimentazione, amicizia, complicità… Insomma, una buonissima alchimia. Credo che in quegli anni incarnassimo un’idea di creatività e libertà assoluta che si sposavano all’inquietudine post-adolescenziale, e a mio parere attraverso la musica e il nostro modo di essere riuscivamo quasi sempre a comunicare un senso di grande positività. Ci mancava un po’ di organizzazione, avremmo certamente beneficiato della presenza di un manager in gamba, o comunque una figura esterna in grado di direzionare meglio le nostre grandi energie. Pur non essendo degli stupidi, alcune cose proprio ci sfuggivano o per pigrizia non intendevamo affatto occuparcene. I pezzi molto spesso non venivano nemmeno depositati in SIAE, firmavamo contratti senza minimamente preoccuparci di difendere i nostri diritti presenti e futuri, facevamo dischi con chiunque ci proponeva di farlo malgrado fossimo già sotto contratto. Roba impensabile, oggi. Musicalmente, però, eravamo molto più consapevoli, e sapevamo riconoscere il nostro valore artistico anche rispetto a cose che facevano altri colleghi e amici. Erano anni in cui la scena indipendente pubblicava perlopiù dischi mal prodotti, mentre con gli Allison Run lavoravamo proprio sul fronte opposto, trascorrevamo molte ore in sala prove a suonare e soprattutto registrare su multitraccia, e questo in qualche modo ci ha distinto e anche premiati, come quando ricevemmo un riconoscimento come miglior autoproduzione italiana del 1990 con l’album “God was completely deaf”, il nostro lavoro più significativo. E poi, essere considerati persino in Inghilterra non era cosa da tutti.

“All those cats in the kitchen” fu il vostro primo mini LP e uscì, se non vado errato, nel 1987. Un disco molto apprezzato dalla critica italiana ma appunto anche da quella inglese. Che ricordi hai di quel primo lavoro?
Non tantissimi. Dovresti parlare con Mimo per avere più dati. Ricordo un buffo disegno di Umberto Palazzo in cui mi spiegava come suonare una sua intrigante parte di chitarra su “Yellowish”, non potendo esserci lui stesso a suonarla. Ricordo un mio viaggio-blitz in macchina da Bologna a Brindisi per remixare “Train to London”, uno dei brani del disco che non mi faceva dormire la notte a causa di un mixaggio insoddisfacente. Poi mi viene in mente uno degli episodi iniziali più gratificanti, appena dopo l’uscita di “All those cats” uno speaker su Radio Rai 1 che definì “sorprendente” e “internazionale” il nostro suono e le nostre canzoni… E comunque, per chi dovesse essere interessato alla cosa, in una lunga intervista pubblicata sul bel libro di Roberto Calabrò “Eighties colours” racconto, tra le altre cose riguardanti gli Allison, altre impressioni su quel disco e sul modo in cui fu registrato.

Come mai quel titolo?
Mmm… Vatti a ricordare. Di preciso non potrei dirtelo, ma sono abbastanza sicuro che avesse qualcosa a che fare con il vedere cose intorno che in realtà non ci sono.

Un EP per la Vox Pop, esattamente nel 1988, “God was completely deaf” nel 1989 e, poi , nel 1990 la fine artistica degli Allison Run. Accadde tutto così velocemente. Quali furono le cause dello scioglimento del gruppo?
Onestamente devo ammettere che qualche tempo dopo l’uscita di “God was…” mi stavo comportando in modo vagamente autistico, a posteriori è più semplice rendersene conto. Non riuscivo più a capire le esigenze altrui ed empatizzavo poco con chiunque. Umberto dal canto suo faceva delle pressioni per farci svegliare dal trip psichedelico e renderci un gruppo più attuale e che prendesse in considerazione, reinterpretandole, le correnti musicali del momento. Una direzione che in quei giorni non eravamo sicuramente in grado di seguire con coscienza e convinzione. Alessandro probabilmente era arrivato a un punto di saturazione assoluta, e non sopportava più nè me nè le dinamiche che si erano create con il rientro di Umberto nel gruppo, e quindi ci aveva lasciato definitivamente. Per me fu una cosa molto triste, anche se non lo davo a vedere. Era il mio amico del cuore, e si allontanava anche per causa mia. Poi, come ciliegina sulla torta, un possibile contratto con un’etichetta major era svanito nel nulla dopo contatti durati per più di un anno. Tutto questo penso sia abbastanza per far sciogliere qualsiasi band.

La musica degli Allison Run era carica di psichedelia ma anche piena zeppa di motivetti sixties e di riferimenti new wave. Una band dal sound ben riconoscibile che, ancora oggi, vanta un numero considerevole di estimatori. Insomma: quanto pesa, nel bene e nel male, il ricordo degli Allison Run nella vita e nell’attività musicale, di oggi, di Amerigo Verardi?
Io sono cresciuto con quella band, è stato il primo progetto a cui mi sono dedicato con grande impegno e passione. Non si tratta solo di ricordi, ma di un’esperienza irripetibile sotto il profilo sia musicale che umano, un’esperienza che ho dentro, che fa parte di me. In tutto quello che ho fatto e che faccio tuttora con la musica c’è anche un pezzo di Allison Run, senza dubbio. Ci sono frammenti di quegli anni ovunque. Pensa che mi porto ancora dietro un piccolo tic che mi ha passato Alessandro (ndr, tic che non ci è dato di sapere).

C’è qualcosa che ti manca di allora?
Non saprei. Sono una persona che forse è sempre troppo coinvolta dal presente, e sono sempre stato così. È difficile che mi convinca di sentire la mancanza di qualcosa o qualcuno. Certo, ogni tanto sento che non ho più quella spensieratezza dei vent’anni, ma non è nostalgia, non rivoglio niente indietro. È solo la constatazione che non ho più grandi quantità di quel tipo di cosa. La nostalgia… È una bella parola, suona bene. Probabilmente qualcosa dentro di me lavora per evitarla, perché ho quest’idea della nostalgia come di un sentimento che mi rende poco propositivo sia verso me stesso che verso gli altri. Forse da vecchio sentirò di più la mancanza di tante cose vissute, probabilmente sarò più permeabile e indifeso. Se penso a una “mancanza” o a una nostalgia, in ogni caso, il pensiero non va agli Allison malgrado li abbia amati moltissimo, ma vola naturalmente verso mio padre e la mia nonna materna.

Julian Cope, Syd Barrett e Robyn Hitchcock: questi i principali riferimenti che sono stati fatti negli anni parlando della tua personalità artistica e della tua musica. Sinceramente, quanto ti senti vicino a questi personaggi e quanto hanno realmente influenzato la tua musica?
Lennon, Barrett, i Rolling Stones, Bowie, Lucio Battisti, Lou Reed, i primi Cure, i Television… Ho ascoltato e ancora ascolto tutto ciò. È stata la mia scuola naturale, mi sono sentito sempre vicino a quel modo di interpretare il pop. A 14 anni ascoltavo l’Album Bianco e pensavo “Mmm… MARTHA MY DEAR non la posso scrivere, ma HAPPINESS IS A WARM GUN ci potrei provare, sì… “Ah ah ah!” (ndr, sorride) Capisci che stronzetto? Ero così con i miei Maestri! Sai, credo sia essenziale crederci e provarci. Sempre. Senza presunzione, possibilmente. Sapendo di avere sempre da imparare e da scoprire. Da Barrett credo di aver appreso che tutto è possibile se hai la mente aperta e ricettiva, e se lasci naturalmente convivere ciò che vivi con ciò che suoni. Nessun limite alla creatività e all’espressione, dipende solo da te. Ne sono tuttora convinto. Montagne di jazz e musica etnica nordafricana e asiatica da sempre mi permettono di viaggiare ben oltre i confini del rock ed esplorare differenti stati psicofisici. Dei Rolling Stones degli anni ‘60 amavo quella sfacciataggine e quell’oscurità che accompagnava sempre ogni loro mossa, riflettendosi naturalmente nella musica che creavano. Brian Jones è stato il mio primo, vero mito musicale. Due anni fa sono stato nel villaggio di Joujouka, nel Nord del Marocco, dove Brian Jones aveva registrato nel 1968 i suoni catartici dei flauti, dei rhaitas e dei tamburi dei Master Musicians of Joujouka. Una musica di una purezza tale che non mi è facile parlarne. Suoni reiterati, ciclici, che creano una condizione di trance a chi suona e a chi ascolta. Un’atmosfera di pura magia. E con Anita Pallenberg lì presente che in perfetto italiano prova a smorzare quella magia con il suo cinismo proverbiale, e mi sorprende concedendomi l’onore di qualche confidenza non richiesta, tipo “Brian non era inizialmente molto interessato a questa roba, è stato portato quasi di forza in questo villaggio perché era diventato troppo paranoico e io e Keith non lo stavamo più sopportando, volevamo togliercelo di torno facendogli fare qualcosa che potesse aiutarlo, catturando la sua attenzione. Lui stava qui con i suoi registratori, e noi ce la siamo svignata”. Ecco come si prova a smontare un mito, in perfetto stile Anita. Che donna!

A proposito di influenze e di riferimenti musicali, mi dici quali sono i tuoi cinque album da isola deserta che ti vengono in mente in questo preciso momento? Non prenderla eccessivamente sul serio perché, come al solito, è semplicemente un gioco tra appassionati.
“In a silent way” di Miles Davis, “Imidiwan” dei Tinariwen, “Electric Ladyland” di Jimi Hendrix, “The end of the game” di Peter Green, “666” degli Aphrodite’s Child. Ma se la domanda fosse comodamente aggiornata all’era degli mp3, sull’isola stai certo che mi porterei tutta la discografia della Impulse Records! (ndr, sorride)

Ultimamente, invece, quali novità discografiche hai apprezzato particolarmente più di ogni altra?
A parte i Tinariwen, non mi viene in mente nessuna novità eclatante in campo discografico internazionale che mi abbia veramente messo KO. Sono sicuro che ci sono una miriade di cose interessanti e anche innovative in giro, ma non è che sto tutto il giorno a controllare. Sono più interessato a ciò che succede in Italia, per la verità. Ascoltare Edda per me è infinitamente più coinvolgente e ha in generale più senso che ascoltare le tronfie produzioni inglesi alla Muse, per intenderci. Non li reggo. E poi c’è “A sangue freddo” del Teatro degli Orrori, che mi ha fatto davvero un’ottima impressione. E qualche anno fa ho comprato “Vago svanendo” di John De Leo, che mi è piaciuto tantissimo. John ha fatto uno dei più bei concerti a cui ho assistito in questi ultimi anni. Veramente un fuoriclasse, sono certo che prima o poi il suo talento verrà apprezzato anche e soprattutto in Europa. Glielo auguro di cuore.

Facciamo nuovamente un passo indietro. Ricordo che, quando comprai la compilation “Union”, tra tutti i brani presenti nel disco, quello che mi colpì già dal primo ascolto fu il vostro; rimasi affascinato dalla vostra versione de “La Fata” di Edoardo Bennato. Bellissima! Ancora oggi. Perché sceglieste quel brano? Raccontaci qualcosa di particolare che, forse, non hai mai detto a nessuno.
“Burattino senza fili” l’ho comprato quando avevo meno di 12 anni, ed è stato il primo album italiano di cui mi sono innamorato. Bennato è stato uno dei pochi veri rock’n’roller in Italia, uno dei pochi a poter riprodurre QUEL sound. Gli piacque molto la nostra versione, o almeno così ci disse. Lo incontrammo al Primo Maggio in Piazza S. Giovanni a Roma nel 1990. Quella sera avremmo dovuto suonarla insieme, “La fata”. In principio il festival sarebbe dovuto essere incentrato su nuove band indipendenti e con la speciale partecipazione di pochi big come appunto Bennato. Mi sembra ci fosse anche Franco Battiato, e poi i Litfiba. Gli Allison Run avrebbero dovuto suonare due pezzi dal vivo, così come tanti altri gruppi. Poi, man mano che le case discografiche più grosse si resero conto di stare a perdere un importante treno promozionale, la situazione precipitò in modo radicale e squallido. Le major, dall’alto del loro magnifico potere stile “Il Padrino”, cominciarono a IMPORRE alcuni dei loro nomi più grossi allora in classifica o in promozione. Diventò un baraccone senza capo nè coda, che aveva completamente smarrito il suo spirito iniziale. E l’aspetto peggiore di questa triste manipolazione dell’evento fu che a noi, come anche agli altri gruppi indie coinvolti, fu imposto di partecipare con una sola canzone e per di più eseguita con la base in playback. Noi mimammo “La fata”, appunto. Avremmo dovuto rinunciarci e basta, a quel punto mi sono sentito un vero idiota. Vabbè, andò così, chi se ne importa. Adesso il Primo Maggio a Roma ha acquisito tutto un altro senso e un’altra vita, mi sembra.

Che tipo di rapporto hai avuto e hai con la musica italiana?
Quando ero adolescente non ascoltavo molta musica italiana. Sai, quando sei perso con i vari Stones, Beatles, Hendrix, Who e via discorrendo, non è facile trovare riferimenti adeguati nella musica prodotta qui da noi. Ho sempre amato il blues e il jazz e tutte le relative derivazioni. I Doors mi davano letteralmente delle allucinazioni, e prima di poter provare qualcosa di analogo nei confronti di artisti nostrani, è dovuto passare del tempo. L’equilibrio si è ristabilito quando mi sono perso per Lucio Battisti, quando ho ascoltato appunto “Burattino senza fili” e poi “Arbeit macht frei” degli Area, quando nel 1979 ho comprato il primo album solista di Mauro Pagani che per me è un assoluto capolavoro, e quando Faust’O con i suoi primi tre dischi mi ha fatto capire che la nostra lingua poteva essere serrata, tagliente e modernissima anche alle prese con uno stile musicale più ritmico e influenzato dalla new wave. Mi piace ascoltare i testi che si muovono in simbiosi con la musica e con quello che c’è intorno. Da molti anni, ormai, trovo che la nostra musica sia estremamente valida e competitiva a livello internazionale anche in ambiti di rock oltre che di canzone d’autore in genere. Scopro sempre più spesso molta musica di spessore prodotta nel nostro Paese. E poi abbiamo musicisti di prim’ordine in fatto di gusto, fantasia e tecnica. In Italia Giovanni Ferrario è quasi un signor nessuno. Per me è un grande chitarrista, e in assoluto è lui il miglior produttore di rock italiano indipendente. Ma anche per PJ Harvey evidentemente è un musicista di serie A, visto che gli ha chiesto più di una collaborazione in studio e dal vivo. I Leitmotiv, gruppo della provincia di Taranto con cui ho avuto il privilegio di collaborare, fanno grandi concerti, vincono il Festival del Mediterraneo e vengono apprezzati in Europa dell’Est e anche in Spagna, mentre qui da noi non trovano nemmeno uno straccio di etichetta nè un’agenzia di booking che abbia voglia di lavorare con loro. Come si fa a non deprimersi? Non c’è niente da fare, non riusciamo a valorizzare tutto il nostro potenziale, e forse è anche un po’ il pubblico indie-rock stesso che sembra aver smarrito la voglia di scoprire cose nuove e in generale la capacità di provare curiosità e stupore. E in più siamo anche bloccati da politiche sociali minatorie, regolamentazioni SIAE a dir poco misteriose, e infami tagli sullo Spettacolo. Tutte cose che meriterebbero come risposta una ragionevole rivoluzione armata. Battute a parte, credo sia tempo per una sana, totale autarchia artistica.

Domanda lunga e da cento milioni di euro (ndr, sorridiamo). Hai sempre avuto il pallino per i progetti paralleli o, comunque, la voglia di sperimentare nuove strade e nuovi percorsi musicali utilizzando, spesso e volentieri, nomi e sigle diverse. Se non ricordo male, infatti, già mentre suonavi con gli Allison Run portavi avanti un altro progetto, i Betty’s Blues, che però durò giusto il tempo di un EP. Poi cu fu l’incontro con la Cyclope Records di Francesco Virlinzi che segnò, in qualche modo, l’inizio della tua attività da solista, prima con “Morgan” (1993) e poi con “Cremlino e coca” (1997). Poi vennero due album siglati Lula (“Da Dentro” del 1993 e “Lula” del 1999) , “Nessuno è innocente” (2003) a nome Lotus e “The dregs of a nation” (2004) come The Freex , fino ad arrivare agli attuali progetti firmati Amerigo Verardi e Marco Ancona. Bene, da dove nascono questi continui cambiamenti di “identità” e questa continua ricerca musicale? Cosa cerca Amerigo Verardi nel rock?
Cerco da sempre un tipo di soddisfazione che non riuscirei a definire in maniera esauriente con le parole. Cerco e basta. (ndr, risposta da cento milioni di euro)

Tra tutti i progetti elencati, a quale sei particolarmente e inconsciamente legato?
Sono tutti progetti che ho amato realizzare, a cui ho dedicato una parte della mia vita. Erano ciò che desideravo fare nel momento in cui li portavo avanti. Con ognuna delle persone che hanno condiviso con me quei progetti ho avuto un rapporto di grande vicinanza empatica. Forse i Freex, un duo formato da me e Silvio Trisciuzzi, hanno rappresentato il culmine di questo tipo di sintonia tra me e altri musicisti. È un paradosso, se pensi che di questo progetto è stato pubblicato solo un singolo brano. Per quello che mi riguarda, con Silvio ho prodotto della musica semplicemente fantastica.

Preferisci cantare in italiano o in inglese? Oppure per te non c’è alcuna differenza?
Mi piace scrivere qualche volta anche in inglese. Ma preferisco di gran lunga scrivere e cantare in italiano. Diversamente, mi sarei già da tempo trasferito a Londra o in California.

Non sei soltanto un cantautore ma anche un produttore artistico. Penso, per esempio, a dischi cult italiani come il “Sussidiario illustrato della giovinezza” dei Baustelle e “La verità sul tennis” dei Virginiana Miller, e altri ancora. Mi dici cosa ti entusiasma di quest’altra attività rispetto a quella di musicista?
Entrare in una sfera di pensiero totalmente differente dalla mia, ed empatizzare con quella di altri fino a diventarne una parte complementare. Mi sento felice quando queste mie proiezioni aiutano a creare una certa magia intorno, quando aiutano ad ampliare e completare un certo lavorio creativo su un progetto. Nel mio piccolo, mi piace contribuire al diffondersi della bellezza in senso lato. E, malgrado le difficoltà oggettive, sono davvero fortunato a pensare di potermi guadagnare da vivere così.

Assieme a personaggi come Federico Fiumani, Miro Sassolini, Cesare Basile, Paolo Benvegnù e Moltheni, così giusto per fare qualche nome e un salto nel passato, Amerigo Verardi è una della figure storiche e carismatiche della scena musicale indipendente italiana. Come ci si sente in questa veste di incorruttibile divulgatore di rock e come si fa ad andare avanti così tenacemente resistendo alle “intemperie” della vita artistica?
Occupandoti di ciò che ami e che vuoi veramente fare, ed evitando accuratamente di pensare a tutto quello che hai appena citato.

Vivi più o meno interrottamente la musica rock fin dagli anni ’80. Raccontami le cose che hai visto cambiare, in peggio e in meglio, in tutti questi anni, anche dal punto di vista della critica musicale.
Non saprei da dove cominciare, la domanda è troppo complessa e ci vorrebbe un libro e anche uno scrittore che abbia voglia di scriverlo per raccontare qualcosa di apparentemente sensato ed esauriente. Io sarei forse più adatto a raccontare il mio punto di vista su cosa è cambiato dentro di me. Ma questo non ha molto a che vedere con il rock.

Quale consiglio daresti a un giovane che sta muovendo i suoi primi passi nella musica indipendente e rock?
Di suonare quello che suona con il più alto senso del divertimento. E di cercare magari di guardare indietro e capire cosa hanno cercato i Maestri di questo genere musicale e perché.

Dal punto di vista sociale e politico, invece, cos’è cambiato in meglio e in peggio in Italia?
C’è proprio bisogno che lo dica io? Vuoi sentirmi dire, come ho già più volte detto e come tanti hanno già detto, che l’Italia puzza sempre di più di corruzione, di corrotti, di fascismo vecchio e nuovo, di mafia vecchia e nuova, di ignoranza becera, di sterilità intellettuale, di indifferenza e di volgarità? C’è bisogno che lo dica io che il sig. B. (ndr, chi sarà mai?) e i suoi lacchè si presentano agli occhi della gente onesta come un’associazione a delinquere autolegalizzata? E quella che viene chiamata “Opposizione” non l’ha già qualificata a suo tempo alla perfezione Nanni Moretti? Mi dispiace profondamente per tutta la gente in gamba, e ce n’è tanta, che è costretta a subire la meschinità progressiva della parte peggiore di questo Paese e della spregevole classe politica che degnamente la rappresenta. Sono angosciato per tutta le persone intelligenti, sensibili e capaci che non riescono a trovare un lavoro adeguato alle proprie qualità umane e professionali. Sono addolorato per le famiglie dei lavoratori in cassa integrazione o alle soglie del licenziamento. Anche se devo ammettere che a volte mi soffermo a pensare a coloro che hanno avuto il coraggio e la spregiudicatezza di votare e sostenere negli anni questa nuova classe politica. Chi ha permesso al sig. B. e alla sua rozza e spietata idea di capitalismo e di cianfrusaglie di entrare nelle nostre case? Non sono stati solo i ricchi, i potenti e i privilegiati, ma – ed è questo che mi fa un po’ star male – anche la gente cosiddetta “semplice”, le casalinghe, i pensionati, gli studenti, gli operai, i cattolici… sono stati anche loro a votare e lodare questo arrogante psicopatico che da più di 15 anni sevizia l’Italia, la nostra cultura, la nostra intelligenza, la nostra Costituzione. E sono stati anche un bel po’ di ex-comunisti delusi, molti ora neo-imprenditorini convinti, a mischiarsi tra i rampanti di “Forza Italia”, e io ho avuto negli anni la possibilità di incontrarne parecchi. Adesso che il boomerang tornerà violentemente al mittente, perché sta succedendo esattamente questo, pochi si assumeranno la responsabilità morale di questo asservimento, di questa dissennata fiducia-adorazione per il potente dei potenti. Ognuno di noi avrà da riflettere sulle relative conseguenze di una scelta così stupida e illusoria, tanto da risultare una sciagura per tutti, indistintamente. Siamo un popolo stordito e indebolito da montagne di menzogne, robaccia televisiva, insulti di ignoranti leghisti e lezioni morali da cocainomani e delinquenti comuni mascherati da politici, proclami circensi e illusioni da quattro soldi. Napoli rappresenta una metafora nazionale. Come facciamo a non vedere e sentire tutta la spazzatura che ci ricopre?

Chiudiamo questa triste parentesi italiana e torniamo a parlare di musica. Prima accennavo al tuo attuale progetto con Marco Ancona. Com’è nata questa collaborazione, quali sono i progetti finora realizzati e, in linea generale, come sta andando?
Il progetto con Marco nasce dall’idea di fare una data in acustico. Ma dico proprio una, in un locale vicino Lecce. Durante le prove ci siamo impegnati e anche divertiti. È venuto fuori un suono, e poi non volevamo più smettere di suonare e organizzarci concerti. Ne abbiamo fatti quasi un centinaio in tutta Italia. Abbiamo stampato un album registrato dal vivo e lo abbiamo chiamato BOOTLEG. Abbiamo avuto recensioni su tutti i giornali e le webzine nazionali. Abbiamo vinto il Premio PIMI-MEI come migliore autoproduzione dell’anno. Nel fare tutto ciò non abbiamo avuto nessuno alle spalle, nè etichette nè ufficio stampa, ed è stata una vera boccata d’aria. Credo che la storia di questo progetto possa esprimere abbastanza fieramente e senza ambiguità un concetto ampiamente verificabile di indipendenza. Autarchia, appunto. E questo naturalmente senza scendere nel dettaglio della qualità artistica dei singoli progetti. Per ciò che ci riguarda, a settembre pubblicheremo un album registrato e autoprodotto nello studio di Marco. Con noi hanno collaborato il batterista dei Fonokit Paolo Provenzano e il tastierista de Il Genio Gianluca De Rubertis. Lavoreremo con un’etichetta salentina, la Lobello Records, creata da un musicista che è anche nostro amico, e con un team interamente basato su realtà e talenti locali. Non sono mai stato campanilista, non è nella mia indole, ma sono convinto – come molti pugliesi – che un certo senso di riscatto nazionale possa partire anche e soprattutto dal forte carattere e dal talento della gente del Sud.

Ci sono altri musicisti con cui ti piacerebbe collaborare in futuro?
L’elenco sarebbe spropositato.

Cos’altro bolle in pentola?
Un mio album da solista. Poi una colonna sonora per un cortometraggio e un nuovo progetto con una band che sto cercando di assemblare.

“Riesumare” gli Allison Run, no, eh?
Faccio il musicista, non il becchino (nrd, ridiamo). Ti dico la verità: al momento non mi sento nè abbastanza famoso né abbastanza annoiato per pensare a una reunion. Un giorno, chissà…

Com’è la tua vita di tutti i giorni? Voglio dire, oltre la musica, cos’altro ti piace fare?
Mi piacciono davvero un sacco di cose, e per questo motivo cerco di farne il meno possibile.

Complimenti per la musica che ci hai dato e che ci continuerai a dare e, naturalmente, grazie per averci concesso l’intervista.
Ma grazie a te, accidenti!

ML – UPDATE N. 78 (2011-06-02)

Foto di Enrico Giordani

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