Dopo una lunga e sospirata attesa ieri, finalmente, ho avuto modo di vedere l’ultimo film di Paolo Sorrentino, il primo girato in lingua inglese e con la complicità nella sceneggiatura di Umberto Contarello. L’attesa quindi era altissima, vuoi per l’apprensione che nutro per uno dei migliori registi contemporanei italiani e vuoi anche per la presenza nel cast di un personaggio del calibro di Sean Penn, che per l’occasione veste, abilmente, i panni di una decadente popstar. Un cinquantenne depresso e ansioso, o forse soltanto annoiato, che si ritrova a vivere tutte le debolezze e le conflittualità di una vita vissuta agiatamente ma senza un vera e propria personalità. Un bambino viziato che non è mai cresciuto e che, improvvisamente, si ritrova a fare i conti con se stesso e con il peggiore aspetto della vita: la morte. Tutto inizia con la notizia del padre in fin di vita, un ebreo scampato alla strage nazista con il quale Cheyenne (questo è il nome dell’icona musicale) non ha mai avuto un legame affettivo. Ecco quindi che la popostar decide di vincere tutte le sue paure iniziando un lungo viaggio che, da Dublino fino in America, lo porta alla riscoperta del papà, del passato ma soprattutto della propria identità. Forse, e scrivo forse, l’immagine che Sorrentino dà di Cheyenne è fin troppo caricaturale, molto prossima a quella di Robert Smith dei Cure ma, tutto sommato, pensandoci attentamente, va bene così, perché diversamente il film avrebbe perso quel senso surreale, romantico e cinematografico tipico del regista partenopeo. Il film si snocciola con lentezza. Una lentezza che si riflette nel lungo viaggio on the road che prende forma e velocità a metà visione, da dove escono fuori anche le belle interpretazioni di Frances McDormand (Jane), nei panni della moglie di Cheyenne, e di Judd Hirsch (il vecchio Midler) assieme a quelle delle giovani Kerry Condon (Rachel) ed Eve Hewson (Mary), quest’ultima figlia (nella realtà) di Bono Vox. Imprescindibile cameo, infine, è la presenza dell’ex Talking Heads David Byrne che, oltre a interpretare magnificamente se stesso, si occupa delle musiche del film, cantando – manco a dirlo – “This Must Be The Place”. Un’altra “piccola” meraviglia scaturita dalla fervida mente di Paolo Sorrentino. Una pellicola dai tratti ironici, commoventi e immaginifici che ha come sottofondo brani quali The Passenger di Iggy Pop, Lord I’m coming di Gavin Friday dei Virgin Prunes, Happiness di Jonsi & Alex, Charmaine di Mantovani and His Orchestra, Every Single Moment In My Life Is a Weary Wait di Nino Bruno e le 8 tracce e una cover di un pezzo di Bonnie “Prince” Billy, Lay and Love, interpretata nel film dai fantomatici e singolari Pieces of Shit. Segno di una qualità non solo cinematografica ma anche musicale. Per il resto, invece, posso soltanto dire che mi è mancato il sodalizio con Toni Servillo. Ma questa, cari lettori, è un’altra storia. (Luca D’Ambrosio)
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