Figli di quella Manchester alienata e “discotecara” che sul finire degli anni Ottanta vide la diffusione dell’ecstasy e di nuove sonorità dance rock, gli Stone Roses rappresentarono – per chi scrive – l’apice musicale di quel subbuglio culturale che attraversò l’Inghilterra e che prese il nome di “Madchester”. A differenza dei ben più prolifici e amati Happy Mondays, la band di Ian Brown (voce) e John Squire (chitarra) mostrò infatti, meglio di qualsiasi altra formazione del momento, quella pubblica esigenza di evasione che i giovani dell’epoca stavano inseguendo, e lo fecero superbamente, privilegiando un sound ritmato, psichedelico e dalle essenze marcatamente Sixties. Manifesto di quella “piccola rivoluzione” fu l’omonimo album d’esordio che la formazione mancuniana consegnò al popolo della notte nel lontano 1989, un (capo)lavoro orecchiabile e perfettamente pop in cui trovarono spazio le morbidezze vocali di Brown e le ritmiche attente e vigorose di due personaggi del calibro di Alan John “Reni” Wren (batteria) e Gary Mounfield (basso). Ne uscirono fuori passaggi epocali dal titolo She Bangs The Drums, This The One, Made Of Stone e I Am The Resurrection ma anche brani sorprendenti come Shoot You Down e Don’t Stop (non altro che Waterfall mandata al contrario e con un nuovo testo) mentre Elizabeth My Dear e Bye Bye Bad Man, assieme a quei limoni antilacrimogeni disegnati in copertina dallo stesso Squire (ispiratosi al pittore Jackson Pollock e alla rivolta studentesca di Parigi del 1968), furono l’esempio lampante del loro spirito ribelle e non allineato al sistema. Cinque anni più tardi l’ignobile Second Coming decreterà la fine degli Stone Roses lasciando nel sottoscritto una indefinibile sensazione di vuoto. Un disco da isola deserta.
ML – UPDATE N. 48 (2007-09-20)
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