La mia vicenda con Monday at the Hug & Pint degli Arab Strap potrebbe essere paragonata alla storia di Salim (se non ricordo male, credo di averla letta su un vecchio diario realizzato da una comunità di recupero per tossicodipendenti) che si può riassumere così: “Salim era un giovane pescatore che viveva sulle rive del fiume Gange. Un giorno, mentre tornava da una pesca poco proficua, si mise a pensare a cosa avrebbe fatto se fosse stato ricco. Dopo aver percorso qualche chilometro di strada, il suo piede calpestò un sacchetto che conteneva qualcosa di simile a sassolini. Senza prestare particolare attenzione, lo raccolse e cominciò a gettare i sassolini nel fiume con lo sguardo perso nel vuoto e una speranza nel cuore. Lanciò un primo sasso, poi un secondo e così di seguito. Tra un tiro e l’altro immaginava una casa migliore, un posto migliore, una vita migliore insomma. Giunto all’ultimo sasso, lo prese e lo rigirò tra le dita, l’osservò attentamente e si accorse, con immenso rammarico, che quel sasso era una pietra preziosa.” Ecco, qualcosa di analogo è accaduto al sottoscritto ascoltando questo quinta fatica discografica di Aidan Moffat e Malcolm Middleton, ovviamente con conseguenze meno sciagurate e con un epilogo di certo recuperabile (stiamo pur sempre parlando di musica, o no?). Ero convinto che il duo scozzese difficilmente avrebbe realizzato un altro disco di qualità dopo The Red Thread del 2001, e per questo motivo avevo accolto la notizia dell’uscita del nuovo disco con poco entusiasmo e scarsa partecipazione. Insomma, non avevo alcuna intenzione di ascoltarlo. Allo stesso modo di Salim stavo cercando, altrove e non so dove, una “felicità” che invece era a portata di mano. A distanza di alcuni mesi, invece, scoprire quest’album è stato un po’ come trafugare nei propri sentimenti trasformando uno sbadiglio in un sorriso. Ciò grazie alle atmosfere da camera di Who Named The Days, alle modulazioni armoniche di The Shy Retirer e di Serenade e agli sviluppi indie folk di Loch Even Intro, Loch Even e Act Of Wow. Un album ben equilibrato dove alle quisquilie anestetiche di Meanwhile, at the Bar, a Drunkard Muses e Pica Luna si contrappongono gli spasmi conturbanti di Fucking Little Bastards (quando i Sonic Youth insegnano l’arte del rumore!) e le dissonanze post-country e in odore di new wave di Flirt (l’unico brano che sembra discostarsi da tutti gli altri). Composto da archi, beat elettronici e passaggi elettroacustici, il nuovo lavoro in studio del duo di Glasgow si rivela incantevole e prezioso come pochi altri oggigiorno, praticamente una piccola gemma del 2003.[1] (Luca D’Ambrosio)
[1]Recensione pubblicata su ML – n. 59 del 21.11.2008