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film

Pillole quotidiane: Birdman di Alejandro González Iñárritu (film)

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Be’, ieri ho visto Birdman e sono rimasto colpito dalla potenza immaginifica e narrativa di Alejandro González Iñárritu, attraverso una regia e una sceneggiatura davvero impeccabili. Per non parlare poi della splendida interpretazione di Michael Keaton e delle musiche azzeccate e originali di Antonio Sanchez, che vanno di pari passo al ritmo nevrotico e imprevedibile della città di New York. Due ore di pura evasione in cui il regista messicano mette a nudo le paranoie di ogni essere umano, realizzando un film validissimo non solo dal punto di vista tecnico (unico piano sequenza) ma anche per i contenuti, i riferimenti, le citazioni (Raymond Carver in primis). Un lavoro cinematografico visionario, surreale, che alla fine però restituisce l’immagine effettiva di questa società. Una società schizofrenica, senza cultura, sempre in cerca di supereroi o di qualcosa di sensazionale. Purtroppo una visione non basta. Sicuramente tornerò a vederlo. (L.D.)



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film musica

Pillole quotidiane: Perfect Day di Lou Reed.

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Oggi, sbirciando nel mio vecchio scaffale di casa, ho trovato l’audiocassetta di Trainspotting. Gran bella sorpresa, lo giuro. Pensavo di averla perduta durante uno dei miei burrascosi traslochi. Invece eccola lì, immobile e ricoperta di polvere, come se stesse ad aspettarmi da chissà quanto tempo. L’afferro immediatamente, e la prima cosa che faccio è quella di andare a rileggere tutti i titoli dei brani che compongono la colonna sonora del film di Danny Boyle. “Lust for life” (Iggy Pop), “Deep Blue Day” (Brian Eno), “Sing” (Blur), “Born Slippy” (Underworld) e molti altri ancora. Ma è “Perfect Day” di Lou Reed a rubare la mia attenzione, con quel “Just a perfect day…” che mi torna subito in mente come un mantra. Mi sento bene, lo ammetto, anche se poi mi rattristo quando penso che è quasi un anno che Lou Reed ci ha lasciati. Va be’, decido di non farmi assalire dalla tristezza e con piglio entusiasta sfilo l’intero artwork dalla custodia, adagiandolo sul piano della mia piccola scrivania. Ed ecco che si rivelano, in tutta la loro dissoluta bellezza, le immagini di Renton, Begbie, Diane, Sick Boy e Spud. Li guardo e, a voler essere sinceri, provo una strana sensazione. Un mix di spensieratezza e paranoia. La stessa che caratterizza i cinque protagonisti dell’omonimo romanzo di Irvine Welsh, soprattutto Begbie, il mio personaggio preferito. Quello folle. Quello che “si faceva di gente”. (L.D.)



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film Luca D'Ambrosio

Pillole quotidiane: quattro film da salvare

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Anche oggi, come spesso accade da diversi anni a questa parte, sono andato in uno dei negozi dell’usato della mia città. Entro, saluto la commessa e mi dirigo immediatamente verso il “reparto vinili”, se così si può chiamare, visto che i dischi rimasti sono ammucchiati incredibilmente uno sopra l’altro come se fossero dei piatti da lavare. “Che tristezza”, penso. Ciononostante sposto il primo album, il secondo, il terzo e così via, fino a quando mi accorgo che non c’è nulla di nuovo (e in buone condizioni) che possa interessarmi. Allora faccio un passo indietro e rivolgo lo sguardo verso il “reparto film”, ovvero un’enorme cesta posizionata sotto un bancone di legno su cui sono sistemati una quantità abnorme di suppellettili. Mi faccio il segno della croce, mi abbasso e mi introduco lentamente nel “reparto” evitando di dare una capocciata al bordo superiore del tavolo. Giunto in prossimità della cesta inizio, velocemente, l’attività di “rovistatore”. Nel frattempo, però, una micro zanzara ha provveduto a pungermi sul capo perfettamente glabro. “Maledetta!”, sussurro. Passano soltanto pochi secondi e già sento un lieve bruciore in prossimità della tempia destra. Mi vien voglia di grattarmi ma desisto e, imperterrito, continuo a frugare nel grosso contenitore. “Questo no, questo sì, questo mah…” Nel frattempo inizia a mancarmi il respiro; sotto quel bancone c’è così tanta polvere da restarci secco. Ancora un po’ e anch’io rischio di diventare parte integrante della chincaglieria del negozio. Faccio l’ultimo sforzo e vado avanti, cercando di non far crollare l’intero e precario ambaradan che mi sovrasta. “Ecco fatto!”, esclamo. Le conseguenze dell’amore, L’uomo delle stelle, Mediterraneo e Smoke, sono questi i film in DVD che, ancora sigillati, decido di mettere in salvo. Con non poche difficoltà indietreggio a testa bassa, con le gambe piegate e in punta di piedi. Dopo un paio di metri finalmente mi alzo e tiro un sospiro di sollievo. Tutto attorno a me sembra ancora perfettamente intatto. Allora mi incammino verso la cassa, pago la modica cifra di 4 euro ed esco dal negozio decisamente appagato. A volte basta poco per sentirsi bene.

Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino (2004)

L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore (1995)

Smoke di Wayne Wang (1995)

Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991)



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film Luca D'Ambrosio

Pillole quotidiane: La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.

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La grande bellezza è un ambiente mondano e pieno di contraddizioni dove ipocrisia, esibizionismo, decadenza e superficialità regnano sovrani assieme allo splendore dell’arte e dell’architettura. La grande bellezza è il luogo della cultura ostentata in cui sacro e profano si mescolano grottescamente in quell’angosciante e quotidiano stillicidio che è la ricerca della verità e di se stessi. La grande bellezza è un’opera barocca e dalle tinte caravaggesche che, oltre a svelare il fascino della notte, mostra l’unica certezza della vita: la morte. La grande bellezza non è altro che un’illusione d’amore o, forse, soltanto un’altra conseguenza dell’amore. (Luca D’Ambrosio)




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film musica video

Una vita intensa: intervista (e video-intervista) a Teho Teardo

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UNA VITA INTESA: INTERVISTA A TEHO TEARDO di Luca D’Ambrosio
Teho Teardo è sicuramente uno dei compositori più originali e prolifici del panorama musicale italiano e non solo. Conosciuto per le sue celebri colonne sonore come “Il Divo”, “Gorbaciof”, “Una vita tranquilla”, “Diaz – Don’t Clean Up This Blood” e “La nave dolce”, il musicista di Pordenone è sempre in piena attività creativa. Lo abbiamo fermato un istante per sapere qualcosa in più dei suoi ultimi progetti e per scoprire cosa sta bollendo in pentola… Buona lettura.
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C’eravamo lasciati con una video-intervista al Circolo degli Artisti di Roma in occasione della presentazione del film di Daniele Vicari, Diaz, per il quale hai realizzato le musiche (n.d.r.; guarda e ascolta la video-intervista a fine articolo). Bene, ora che sono passati diversi mesi dall’uscita, che tipo di riscontro ha avuto il film e la colonna sonora dal pubblico e dalla critica specializzata?
Diaz è un film che resta, non uno di quelli che sparisce, credo stia lasciando un segno. Ho avuto molti riscontri positivi per le musiche del film, sono davvero soddisfatto.

Ti piace scrivere per il cinema impegnato?
Mi piace collaborare a progetti dove c’é qualcosa di sensato da dire, da fare. Non é necessario ci sia un tema sociale o politico, ma ci devo trovare un senso.

Nel frattempo sono successe diverse cose. La realizzazione dell’opera teatrale “Music for Wilder Mann” ispirata al lavoro del fotografo francese Charles Fréger e la registrazione di un album con Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten. Allora, iniziamo con il primo progetto…
Sono rimasto folgorato dalle foto di Fréger, ho dovuto subito reagire e scrivere della musica. Le sue foto contengono cosí tanti segnali che mi hanno spinto a registrare un disco intitolato “Music for Wilder Mann” che uscirà all’inizio del 2013. Con Blixa il lavoro procede bene, ci rivedremo a breve a Berlino per finire di registrare le parti vocali e poi a dicembre inizierò a mixare l’album che verrà pubblicato nella primavera del 2013.

Com’è lavorare con Blixa?
È una persona molto complessa, la cui stratificazione di esperienze e conoscenza richiede un altissimo livello di preparazione. Blixa è abituato a lavorare solo con dei fuoriclasse, per collaborare con lui bisogna essere molto bravi. Abbiamo già lavorato diverse volte assieme, prima a teatro con Ingiuria, il progetto che realizzai con la compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio e poi al cinema nella colonna sonora di Una vita tranquilla per cui abbiamo scritto la canzone “A Quiet Life”. Due esperienze artisticamente molto stimolanti che sono confluite nella realizzazione di questo album.
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A inizio anno hai messo in scena, con Elio Germano e con la collaborazione di Martina Bertoni, una lettura-concerto di “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline di cui già abbiamo parlato ad aprile scorso (n.d.r.; guarda e ascolta la video-intervista a fine articolo). In quest’ultima rappresentazione invece, “Music for Wilder Mann”, qual è la scintilla o semplicemente il motivo che ti ha spinto a realizzare questo nuovo progetto teatrale?
Le foto di Charles sono state come una sceneggiatura, come un testo da cui trarre ispirazione per scrivere musica. Se in Viaggio al termine della notte le avventure di Bardamou arrivavano ai confini delle disgrazie umane, in Wilder Mann siamo in un mondo lontanissimo, pagano e selvaggio, imprevedibile e pericoloso. Nell’apparente tranquillità del mondo digitale mi serve una scossa che arrivi da un passato, qualcosa che rimetta in discussione la sicurezza in cui pretendiamo di vivere.

Quando e dove ci sarà la prima di “Music for Wilder Mann”, chi collaborerà con te e per quanto tempo lo porterai in giro?
Il 17 ottobre 2012 all’Auditorium di Roma e il 9 novembre 2012 a Riccione, poi lo riprenderemo il prossimo anno.

Vista la tua iperattività creativa, per caso stai lavorando su qualche altro progetto o film?
Sto lavorando a un docu film in America per HBO sulla vita di un senatore americano, un progetto molto interessante.

Domanda di rito: cosa stai ascoltando ultimamente?
Pochi minuti fa riascoltavo Glimmer, il bellissimo album di Jacaszek, pubblicato dalla Ghostly, l’etichetta del bravissimo Matthew Dear.

Grazie e speriamo di vederci presto.
Grazie a te, ciao!

Intervista: Roma, Circolo degli Artisti, aprile 2012

A Quiet Life

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film musica

Intervista a Nino Bruno

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Abbiamo avuto il piacere di intervistare Nino Bruno (e le 8 Tracce), autore di uno dei brani contenuti nella colonna sonora dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, “This Must Be The Place”. Un pezzo intitolato “Every Single Moment in My Life Is a Weary Wait” che potrete ascoltare anche nel suo ultimo album intitolato “Sei Corvi Contro il Sole”. Quella che segue è una breve e interessante intervista che, oltre a svelarci alcuni retroscena del film del regista napoletano, ci consegna un musicista davvero appassionato e fuori dal comune. Buona lettura.

NINO BRUNO E LE 8 TRACCE di Luca D’Ambrosio
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Chi è Nino Bruno, da dove viene e qual è stato il suo percorso musicale?
Dopo varie vicissitudini, ho trovato nelle sonorità del beat, specie in quello più azzardato, l’ambiente sonoro ideale in cui muovermi, con il gusto di avventurarmi per vie smarrite.

La presenza di un vostro pezzo nella colonna sonora dell’ultimo di film di Paolo Sorrentino ha dato, senza dubbio, una certa visibilità alla tua band. Domanda scontata: com’è nata la collaborazione con Sorrentino?
Avevo già collaborato a “L’uomo in più”, scrivendo insieme a Paolo i testi delle canzoni di Tony Pisapia, “La notte” e “Lunghe notti da bar” e, precedentemente, Paolo aveva usato alcuni miei brani nel suo primo corto ufficiale, “L’amore non ha confini”. Insomma c’erano dei precedenti, una grande stima reciproca, e aldilà di tutto, un forte legame anche personale. Stavolta mi ha chiesto di scrivere una canzone con dei requisiti particolari, una hit del 1982, che fosse però emozionante ancora oggi. La canzone che aveva reso Cheyenne famoso da un giorno all’altro. Insomma una richiesta assurda, che chiaramente Byrne si è guardato bene dall’accettare! Ma era un lavoro adatto a me. Ho capito subito che ci voleva una canzone vera, viva, figlia di un paradosso temporale e non di un revival. Si trattava solo di spostare leggermente la data, dai secondi ‘60 al 1982 appunto, e immaginare che “Cheyenne and the Fellows”, cosa ben credibile, registrassero il loro primo inaspettato successo in uno studio non proprio all’avanguardia, pieno di reverberi a molla ed echi a nastro e del tutto privo di effetti digitali (che nell’82 solo i grossi studi dovevano già avere). È esattamente quello che ho fatto.

Che tipo di approccio avete avuto con il regista nel scegliere il brano?
C’era una scena in cui Penn doveva intonare questa canzone a voce libera per calmare un cane lupo inferocito sul punto di aggredirlo. La melodia, il testo, dovevano avere qualcosa di ammaliante, quindi. Ho scritto più canzoni, alcune sono anche nel nuovo disco, ma la canzone giusta non arrivava. I giorni passavano e non gliene andava bene una, o forse ero io che mi allontanavo troppo, andadomene per strade mie. Finché in un pomeriggio e una notte si è materializzata questa canzone fantasma… Ho scelto il titolo mentre gliela spedivo via mail.

E com’è andata con Sean Penn? Voglio dire: cosa ha detto e pensato del vostro brano e della vostra musica?
Ricordo che il brano non è nella versione finale del film, ma si trova solo nel DVD, nel CD della colonna sonora, nei teaser, negli outtakes, e costituisce dunque un prequel, una premessa, di “This Must be The Place”. Ciò detto so che Penn ha molto amato questa canzone, e così anche il suo autista, con il quale pare abbia un rapporto assai democratico. Pare che per un periodo non facessero altro che ascoltarlo insieme. Che io sappia l’ha anche provato e registrato in uno studio a Londra. Sicuramente l’ha ascoltato molte volte anche per entrare nel personaggio e nella sua storia, è un modo di lavorare tipico degli attori americani, e forse proprio per questo Paolo ha voluto “Every single moment in my life is a weary wait” prima di iniziare il lavoro con Penn. Ricordo infine che la versione che si sente in giro, anche quella presente nel nostro nuovo disco, non è cantata nè da me nè da Sean Penn, ma da David Copley.

Il vostro ultimo disco, “Sei Corvi Contro il Sole”, è nato sulla scia del film di “This Must Be The Place”, oppure già ci stavate lavorando da tempo?
Entrambe le cose. Però a un certo punto abbiamo dovuto davvero correre. Penso sia stato un bene. “Sei corvi Contro il Sole” è un disco meno pensato dei precedenti, in qualche modo più sincero e spontaneo.

Quali sono i punti saldi della musica e del cinema di Nino Bruno e le 8 tracce?
Il suono beat, il metodo di registrazione, l’inattualità, l’avventura, il sogno, l’anelito a un Nuovo Beat Psichedelico, l’orgoglioso isolamento.

Perché il nome aggiuntivo “le 8 tracce”?
Il nome sottolinea il metodo di lavoro scelto, il “Dogma 8”, appunto, che vuol dire registrare solo su 8 tracce, tutto su bobina, sia in ripresa che in missaggio (in ogni passaggio), utilizzando solo effettistica analogica ed elettromeccanica (echi a nastro, riverberi a molla).

Concerti in vista?
Il concerto più vicino sarà a Napoli, al Lanificio 25, il 4 Novembre. Presenteremo “Sei corvi contro il sole” dal vivo.

In bocca al lupo e grazie per l’intervista!
Grazie a te, Luca. E a presto.

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film

“This Must Be The Place” di Paolo Sorrentino (2011)

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Dopo una lunga e sospirata attesa ieri, finalmente, ho avuto modo di vedere l’ultimo film di Paolo Sorrentino, il primo girato in lingua inglese e con la complicità nella sceneggiatura di Umberto Contarello. L’attesa quindi era altissima, vuoi per l’apprensione che nutro per uno dei migliori registi contemporanei italiani e vuoi anche per la presenza nel cast di un personaggio del calibro di Sean Penn, che per l’occasione veste, abilmente, i panni di una decadente popstar. Un cinquantenne depresso e ansioso, o forse soltanto annoiato, che si ritrova a vivere tutte le debolezze e le conflittualità di una vita vissuta agiatamente ma senza un vera e propria personalità. Un bambino viziato che non è mai cresciuto e che, improvvisamente, si ritrova a fare i conti con se stesso e con il peggiore aspetto della vita: la morte. Tutto inizia con la notizia del padre in fin di vita, un ebreo scampato alla strage nazista con il quale Cheyenne (questo è il nome dell’icona musicale) non ha mai avuto un legame affettivo. Ecco quindi che la popostar decide di vincere tutte le sue paure iniziando un lungo viaggio che, da Dublino fino in America, lo porta alla riscoperta del papà, del passato ma soprattutto della propria identità. Forse, e scrivo forse, l’immagine che Sorrentino dà di Cheyenne è fin troppo caricaturale, molto prossima a quella di Robert Smith dei Cure ma, tutto sommato, pensandoci attentamente, va bene così, perché diversamente il film avrebbe perso quel senso surreale, romantico e cinematografico tipico del regista partenopeo. Il film si snocciola con lentezza. Una lentezza che si riflette nel lungo viaggio on the road che prende forma e velocità a metà visione, da dove escono fuori anche le belle interpretazioni di Frances McDormand (Jane), nei panni della moglie di Cheyenne, e di Judd Hirsch (il vecchio Midler) assieme a quelle delle giovani Kerry Condon (Rachel) ed Eve Hewson (Mary), quest’ultima figlia (nella realtà) di Bono Vox. Imprescindibile cameo, infine, è la presenza dell’ex Talking Heads David Byrne che, oltre a interpretare magnificamente se stesso, si occupa delle musiche del film, cantando – manco a dirlo – “This Must Be The Place”. Un’altra “piccola” meraviglia scaturita dalla fervida mente di Paolo Sorrentino. Una pellicola dai tratti ironici, commoventi e immaginifici che ha come sottofondo brani quali The Passenger di Iggy Pop, Lord I’m coming di Gavin Friday dei Virgin Prunes, Happiness di Jonsi & Alex, Charmaine di Mantovani and His Orchestra, Every Single Moment In My Life Is a Weary Wait di Nino Bruno e le 8 tracce e una cover di un pezzo di Bonnie “Prince” Billy, Lay and Love, interpretata nel film dai fantomatici e singolari Pieces of Shit. Segno di una qualità non solo cinematografica ma anche musicale. Per il resto, invece, posso soltanto dire che mi è mancato il sodalizio con Toni Servillo. Ma questa, cari lettori, è un’altra storia. (Luca D’Ambrosio)

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film musica video

A Weather – Intervista (2008)

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“Cove” è l’esordio degli A Weather, formazione di Portland (Oregon) artefice di un album di canzoni malinconiche ma estremamente intriganti, a metà strada tra folk e dream pop. Un debutto sicuramente di non facile presa per via delle sue atmosfere intense e dei suoi ritmi blandi, tuttavia, “Cove” è un disco madido di vibrante poesia e parabole sonore che potrebbero ricordare qualcosa dei Dakota Suite e L’Altra ma anche dei Kings Of Conveniece. Un gruppo che attraversa con attitudine indie certi ambienti musicali cari agli appassionati del cosiddetto New Acoustic Movement. In occasione dell’uscita discografica abbiamo preso subito la palla al balzo per fare due chiacchiare con Aaron Gerber, voce e chitarra della formazione americana.

Oh, mio Dio, anche voi di Portland! Negli ultimi anni da questa città stanno venendo fuori un numero considerevole di artisti e di band che fanno buona musica. Mi dici cosa sta succedendo da quelle parti?
Ho trovato Portland come il posto ideale per una band che vuole iniziare a suonare e farsi conoscere. La comunità musicale è una comunità nel vero senso della parola. Le persone si aiutano a vicenda e i musicisti sono disponibili e vivono con i piedi per terra. A parte questo c’è un sacco di buona musica che sta nascendo: Laura Gibson, Weinland, Loch Lomond, Horse Feathers etc. È una sorta di casualità che ci siamo trovati qui però sembra che il nostro stile musicale abbastanza tranquillo si adatti perfettamente alla visione musicale che gli Stati Uniti e il mondo hanno nei confronti di Portland.

Pensi che da quelle parti stia nascendo un nuovo movimento culturale e musicale? Qual è il segreto di questa città?
Non credo ci sia un segreto. Io penso che Portland attragga i musicisti che vengono da altri paesi come una specie di mecca creativa, ma non penso ci sia qualche codice nascosto e indecifrabile nel modo in cui le cose avvengono. Le gente qui ha un genuino interesse nel creare arte, ma sono sicuro che è cosi da qualsiasi altra parte del mondo. Personalmente non mi sento parte di un movimento. Come ti dicevo, noi suoniamo la nostra musica che potrebbe essere simile a quella di altre band di Portland, ma nonostante tutto è particolare, insolita e personale. Noi avremmo suonato questo tipo di musica indipendentemente dal posto in cui avremmo vissuto.

Ok, parliamo ora del gruppo. Come e quando sono nati gli “A Weather”?
Gli “A Weather” si sono formati nel Gennaio 2007, poco più di un anno fa. Tutto è iniziato come progetto solista sul quale stavo lavorando quando mi sono trasferito a Portland nel 2005. Volevo inanzitutto saltar fuori dalla mia camera da letto e fare qualche concerto ma ero terrorizzato di affrontare questa esperienza da solo, quindi ho cercato dei musicisti con cui condividere il palco e il peso di questa pressione. Abbiamo inziato a suonare in piccoli locali con una formazione sparsa, infine siamo arrivati a suonare con 3 chitarristi, 1 basso, una batteria e 2 cantanti…e questa formazione era la combinazione perfetta.

Perchè “A Weather”?
Amo la natura nebulosa di questo nome. La mancanza di uno specifico o concreto immaginario lascia il nome aperto a qualsiasi sfumatura che la nostra musica può evocare. Il nome non crea necessariamente un preconcetto nell’ascoltatore. È un nome neutrale. Per un momento sono stato interessato al tempo, alle stagioni, alle ore del giorno e agli altri significati che diamo allo scorrere della nostra vita. Ecco, questo è il motivo per cui il nostro gruppo si chiama così.

“Cove” è un album delizioso, un mix perfetto di musica folk e pop dove è possibile ravvisarci influenze recenti e passate, penso per esempio a Simon & Garfunkel, ai Dakota Suite, a L’Altra e a tutto il New Acoustic Movement. A cosa o a chi vi siete ispirati nel realizzare l’album?
Le ispirazioni o influenze, per me sono molto più frequenti durante la scrittura e l’arrangiamento delle canzoni. Mentre siamo in studio è importante solo registrare e mettere i pezzi al posto giusto. Il resto non conta quando una canzone è stata mixata o arrangiata in studio. Quando scrivo è diverso perchè sto ancora modellando la musica con i frammenti della vita di ogni giorno, lo stress e l’idiosincrasia di vivere che inevitabilmente giocano una parte rilevante nel processo di scrittura. Penso costantemente anche a come una canzone si adatti all’album, se i brani sono troppo simili e se hanno un filo logico… Non mi stupisce il tuo riferimento a Paul Simon. Pitchfork ha comparato la mia voce con la sua in una canzone. È stato un grande complimento per me.

Questo alternarsi di voci tra te e Sarah è stato qualcosa di intenzionale o un’idea che si è sviluppata durante la realizzazione del disco come naturale conseguenza nel cantare e suonare assieme?
Non volevo essere il solista della band e nemmeno il leader. Pensavo fosse più interessante avere a disposizione due voci autonome che potessero lavorare insieme pur mantenendo una certa indipendenza. Mi annoia l’idea stereotipata del cantante associato alla corista. Io e Sarah abbiamo cantato insieme per quasi due anni. Passiamo ancora un sacco di tempo rielaborando le nostre parti. A volte lei apporta a una canzone, che io ritenevo già completa, qualcosa di completamente inaspettato e questo è ciò che più mi appaga nell’avere due cantanti nella band.

Avete lavorato molto su questo album d’esordio?
Abbiamo iniziato le registrazioni a metà del mese di Luglio nel 2007 e finito di mixare nella metà del mese di Agosto. Avevamo lavorato sulle canzoni per un anno intero, poi abbiamo speso il primo mese per la registrazione e l’altro per gli aggiustamenti finali; così il tempo nello studio di registrazione, anche se breve, è stato molto produttivo dando l’esito desiderato.

Come nascono le vostre canzoni?
Come già detto, molti dei miei testi si riferiscono a fatti di vita quotidiana, ricordi o stati d’animo particolari. Io non cerco di ordinare queste idee fin dall’inizio, lascio che si liberino nella mia mente e successivamente le organizzo. Poi inizio a lavorare sul ritmo, le rime, e ogni altro aspetto formale legato al testo. Cerco sempre di mantenere una distanza tra me stesso e il mio lavoro, in particolare quando sento che mi sto inoltrando in un’area che mi suscita troppe emozioni; cerco di alleggerire alcuni dei temi piu pesanti con qualcosa di più leggero o ironico. Con questo non penso di fare torto alle mie emozioni; penso che quello che molti di noi musicisti fanno (nel bene e nel male) è cercare di essere utili alla gente. Normalmente l’impeto di una canzone è una melodia che sta al di sopra degli accordi di base. La parte più difficile è trovare un testo che si sposi bene con la melodia senza che questa sia insopportabile o banale.

La copertina del disco è meravigliosa: un piccolo elefante che cammina da solo sulla spiaggia. L’immagine rappresentata rende perfettamente l’atmosfera che si respira ascoltando il disco. Chi è l’autore del disegno?
Sarah ha disegnato la copertina insieme alle immagini contenute all’interno del cd. Sono molto soddisfatto del risultato finale. Lei passa molto tempo a dipingere e i suoi disegni sono in perfetta sintonia con il tipo di musica che suoniamo.

La critica e il pubblico in generale come hanno accolto il vostro esordio?
Le risposte sono state incredibilmente positive. Ci sentiamo veramente fortunati in quanto sia i nostri fan che i critici musicali hanno capito cosa volevamo realmente realizzare con questo disco e hanno preso del tempo per scrivere qualcosa di positivo e ci hanno fatto sapere quanto gli era realmente piaciuto. Non è un disco immediato ma mi fa piacere che la gente gli abbia concesso del tempo per capirlo e non si è fermata a un ascolto superficiale.

Per caso avete già in mente il secondo album?
È ancora presto per parlarne. Abbiamo scritto delle nuove canzoni che eseguiamo durante i nostri live, ma non sappiamo ancora quale sarà la loro fine. Lavoriamo sempre su del materiale nuovo, ma credo che per un pò la nostra attenzione sarà focalizzata su questo disco.

Spero di vedervi presto in Europa, soprattutto in Italia e in Polonia.
Ci piacerebbe visitare l’Europa. Non sono mai stato in Italia e neanche in Polonia ma ci piacerebbe tanto venirci. Ho trascorso qualche mese in Grecia e ne sento già la mancanza.

ML – UPDATE N. 54 (2008-05-10)

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film libri Luca D'Ambrosio

Maurizio Blatto – L’ultimo disco dei Mohicani (2010)

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L’ultimo disco dei Mohicani è uno di quei libri che va letto non tanto per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, quanto invece per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. Una sorta di autopsicoanalisi comparativa che, in parole povere, significa: a chi assomiglio? Al piastrellista in fissa per il funky e le donne di colore o al diabolico e perverso Paragonio che ha “il vizio di accostare qualsiasi artista (che ti piace) a uno (che detesti) lontano anni luce per sensibilità e caratteristiche”? All’audiofilo hardcore o a Mimmo Regghe? A Tony Locomotiva o a Renatino Punk? Ad Autolavaggio o ai gemelli Diufaus? O vi sentite proprio come Maurizio Blatto che passa intere giornate dietro il bancone ad ascoltare i racconti più disparati e bizzarri dei clienti? Insomma, di storie e di personaggi con cui confrontarsi non ne mancano. Perché Backdoor, storico negozio di dischi di Torino, è un piccolo universo fatto di veri e propri cultori musicali, più o meno folli, ma anche di improvvisati frequentatori che, varcando la porta d’ingresso, sono capaci di porre le domande più assurde di questo mondo, del tipo: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?” oppure “Morricone era uno dei Camaleonti?” Quesiti a cui è difficile rispondere ma che ogni tanto trovano una risposta immediata e consona all’esigenza da parte di uno zelante venditore (Maurizio Blatto) che, oltre a essere armato di una santa pazienza, si rivela un attento studioso del genere umano; caratteristiche pressoché sconosciute dall’altra metà della ditta, ovvero l’austero Sig. Franco, abile contabile nonché fondatore dello storico negozio cittadino. In fondo per capire quale sarebbe stato il destino del giovane Blatto basta iniziare a leggere il primo capitolo: “Ero partito più o meno con lo stesso obiettivo: garantire assistenza. Legale, immaginavo, vista la mia laurea in Giurisprudenza. Poi le cose sono andate diversamente e, quando, con la velocità del fulmine, mi sono calato dalla finestra di uno studio specializzato in diritto del lavoro sedotto dai feedback dei Velvet Underground e impaurito dai misteri dell’usucapione, davvero non immaginavo che sarebbe diventata di carattere sanitario. Igiene mentale. Sempre l’assistenza, si intende.” Ecco quindi vedersi trasformare una laurea in legge in una laurea in psicologia e “Il bancone in un lettino psichiatrico” rendendo “Il negozio di dischi come l’Azienda Sanitaria Locale”. Narrazioni e scene estremamente esilaranti ma che, in aggiunta, sanno essere anche commoventi, almeno per chi ancora adesso si ritrova con gli occhi lucidi dopo aver ascoltato un disco o una canzone. Suggestioni, queste ultime, tipiche di uno stato mentale da paziente inguaribile in cui lo stesso Maurizio Blatto a volte sembra ritrovarcisi, se non altro per quella scelta fatta tanti anni fa che lo ha portato a condividere gioie, dolori e inquietudini dei suoi clienti. “Sono un equalizzatore più sociale che Pioneer, una sorta di terapeuta omeopatico. Curo con l’intera discografia dei Pavement (o dei Fall, se serve una punta di elettroshock)”, potrebbe riassumersi così il leitmotiv di tutti quelli che hanno deciso di lavorare in un negozio di dischi. Un lavoro dalle forti connotazioni sociali e culturali descritto magistralmente e con sferzante ironia da L’ultimo disco dei Mohicani. Un’opera prima davvero encomiabile attraverso la quale il quarantaquattrenne scrittore piemontese ha saputo riprodurre fedelmente i suoni, gli umori e gli odori quotidiani di un’amabile comunità di “psicopatici”. Poiché, come recita il sottotitolo, questo libro rivela “Tutto quello che esiste ma che non potete credere che esista nel mondo della musica rock e dei suoi seguaci (più o meno) appassionati”, e noi che l’abbiamo mandato giù quasi tutto di un fiato non possiamo che auspicarne l’acquisto. Soprattutto se siete di quelli che quando entrano in un negozio di cd e di vinili avvertite un improvviso senso di pace e di relax.

ML – UPDATE N. 75 (2011-02-07)

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film

Stand by me (ricordo di un’estate) di Rob Reiner (1986)

Ci sono film che restano impressi nella memoria come se ti avessero marcato a fuoco il cervello e che, contrariamente alla semplicità del plot, mettono in evidenza una profondità narrativa fatta di discorsi e di immagini decisamente emozionanti, rispecchiando in qualche modo la propria adolescenza.

Stand By Me (ricordo di un’estate) – tratto dal romanzo di Stephen King (The Body) e diretto dal figlio d’arte Rob Reiner – è uno di quelli.

Ambientato sul finire degli anni Cinquanta, Stammi Vicino è il racconto di quattro dodicenni che, partendo dalla sonnolenta cittadina dell’Oregon, Castle Rock, decidono di avventurarsi nella ricerca del cadavere di un loro coetaneo dopo che il paffutello Vern era venuto a conoscenza della triste notizia che, di lì a poco, avrebbe stravolto quei giorni d’estate.

Un viaggio lungo i binari della ferrovia, lontani da casa, verso la scoperta del corpo dell’amico e di se stessi. Un’avventura che non racchiude alcun mistero se non quello della vita che, improvvisamente, viene messa in discussione con la morte del giovane Ray Brower.

Un ricordo malinconico, goliardico e a tratti grottesco che vede come protagonisti, oltre al pavido e ingenuo Vern, l’occhialuto Teddy, folle come pochi, il carismatico e povero Chris (interpretato da un giovanissimo River Phoenix, talentuoso attore scomparso a soli 23 anni) e il riflessivo Gordie con evidenti e combattute aspirazioni di scrittore (il babbo avrebbe preferito la sua morte anziché quella del fratello maggiore, nei confronti del quale nutriva invece le speranze di una più interessante carriera sportiva).

Un’opera cinematografica che trasuda in meno di 90 minuti principi morali e umane debolezze che a stento oggigiorno si riescono a trasmettere in una narrazione così leggera e così lineare.

Con questa pellicola, infatti, Reiner riesce a mostrare il cinismo unito al senso di appartenenza, l’immaginazione che si muove assieme all’angoscia, derivante dalle incomprensioni familiari, e il romanticismo che assume le sembianze dello sberleffo oppure di una fraterna sfregata di mano.

Visioni crepuscolari e splendidi dialoghi, a partire dall’iniziale partita a carte nel rifugio costruito sopra l’albero, a cui si alternano momenti di paura, di coraggio e di fragilità come quando Teddy, per orgoglio, difende a spada tratta il papà violento e mentecatto.

Un perfetto equilibro di naturali trepidazioni: da quel sano desiderio di popolarità che spinge il gruppo al ritrovamento della salma, prima che questa venga rinvenuta dalla polizia, alla sfida con i ragazzi più grandi del paese, anche loro sulle tracce del defunto per guadagnarsi la notorietà in TV.

Infine, ci sono ricordi che non si possono raccontare a nessuno, neanche al migliore degli amici, come la scena dell’incontro ravvicinato di Gordie con il daino, istanti talmente intimi che a riferirli perderebbero di poesia.

Stand By Me è senza dubbio una delle pellicole più care al sottoscritto che fa il paio con il monumentale Walk The Line di James Mangold interpretato, manco a dirlo, da Joaquin Phoenix (fratello di River).

Un film per tutti quelli che non hanno mai smesso di credere nel valore universale dell’amicizia e che termina sulle note del capolavoro di Ben E. King

ML – UPDATE N. 47 (2007-06-28)