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MyTunes: le 77 canzoni di Maurizio Blatto (intervista)

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MyTunes è il nuovo libro di Maurizio Blatto pubblicato da Baldini&Castoldi lo scorso 21 maggio. Settantasette canzoni scelte e commentate dallo scrittore e critico musicale torinese che già ci aveva sorpreso con L’ultimo disco dei Mohicani . 77 canzoni che, ancora una volta, rivelano tutto l’amore di Blatto per un certo tipo di cultura musicale. Buona lettura.

Intervista a Maurizio Blatto di Luca D’Ambrosio
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Dopo averci sorpreso e deliziato con L’ultimo disco dei Mohicani, eccoci qui, finalmente, con un nuovo libro che prende spunto e titolo dalla rubrica musicale che dal 2006 curi su Rumore, ovvero “MyTunes”. Innanzitutto, quanto è stato difficile fare questo secondo passo dopo il successo del tuo debutto letterario?
Autore di successo è una definizione che ovviamente renderà orgogliosa mia madre, grazie… Nessuna difficoltà, MyTunes è una rubrica che ha sempre riscontrato approvazione e fedeli su Rumore. È un contenitore semplice ma funzionale: i contorni critici e storici di una canzone usati come collante per pezzi di autobiografia “modificata”. La vita che entra nella musica o viceversa. Ho raccolte le migliori, ampliandole però per un pubblico meno “erudito” di quello abituale di Rumore, in sostanza privilegiandone la parte letteraria. Intervenire aggiungendo, limando o sbilanciando l’insieme di quanto già scritto è stato un processo molto stimolante dal punto di vista letterario. “Rifinire” mi è piaciuto moltissimo.

Sei passato da “Castelvecchi editore” a “Baldini&Castoldi”. Due grandi case editrici, a dimostrazione del tuo talento di scrittore oltre che di critico musicale. Qual è stato il motivo di questo passaggio? Sempre che tu abbia voglia di dirmelo…
Nessun problema. Come in quasi tutto quello che faccio, privilegio sempre l’aspetto umano. L’attuale Direttore Editoriale di Baldini&Castoldi è un mio vecchio amico. È venuto a stanarmi in negozio e mi ha proposto di realizzare MyTunes. L’idea mi girava in testa da tempo e spesso i miei lettori me la chiedevano espressamente. Quindi, affare fatto.

Nel tuo primo lavoro parli di musica partendo da quelle storie incredibili e divertenti che ruotano attorno a Backdoor (nda, storico negozio di dischi di Torino), in quest’ultimo invece racconti alcuni momenti della tua vita seguendo una lista di canzoni che, finora, hanno caratterizzato la tua esistenza. Insomma, mi sembra di capire che tu abbia applicato una specie di “proprietà commutativa” che equivale a dire: invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia. E per risultato, in questo caso, intendo “raccontarsi attraverso la musica”. È andata più o meno così?
Sì, il processo formativo è questo. Da sempre la musica è una calamita per la mia intera esistenza, un incagliarsi inarrestabile di piccoli gesti che si legano a ritornelli o assoli in distorsione. Mi sono piacevolmente arreso a questa evidenza.

Le canzoni scelte sono 77. Mi dici come le hai messe su e qual è stato eventualmente il filo conduttore?
Talvolta ho davvero voglia di parlare di canzoni precise, ma spesso è un piccolo accadimento a colpirmi e a domandare subito un aggancio melodico. Una piccola conversazione, una coincidenza buffa, timidamente persino una qualche elucubrazione filosofica apparsa all’improvviso. Le annoto mentalmente e poi vado a cercarmi la canzone di supporto. Sono vasi comunicanti, quasi sempre. Direi quindi che è lo stretto quotidiano, arricchito dal bagaglio di esperienze passate, a funzionare da filo conduttore.

Considerato il tuo ampio background musicale, sicuramente non è stato facile limitarsi a 77 canzoni. Voglio dire: c’è stato un momento in cui sei stato combattuto nell’inserire questa o quell’altra canzone?
No, devo dire che l’unica limitazione (peraltro non sancita da nessuna parte) che mi pesa è il dovermi attenere a una sola canzone per autore. Il fatto di aver già scritto su On The Beach di Neil Young non mi consente di versare lacrime su Cortez The Killer. Ma per il resto ho massima libertà.

(Ascolta “On The Beach” di Neil Young)

Mi sembra d’obbligo domandarti se c’è qualche canzone a cui sei particolarmente legato?
Asleep degli Smiths. Scritta soltanto per il libro. Gli Smiths sono il “mio” gruppo e ne ho parlato talmente tanto che mi ero ripromesso di non farlo più. Ma non potevo lasciarli fuori. E su Asleep mi sono aperto completamente. Spesso sono autobiografico (magari anche solo apparentemente…), ma su Asleep ho camminato senza rete. Esercizio difficile…

(Ascolta “Asleep” degli Smiths)

Una canzone che invece vorresti inserire oggi e il motivo.
Come ti dicevo, vorrei aggiungere qualcosa di autori che amo ma che ho già trattato. Qualcosa dei Velvet Underground, She’s Lost Control dei Joy Division per esempio.

(Ascolta “She’s Lost Control” dei Joy Division)

C’è invece una canzone che avresti fatto a meno di inserire e che casomai hai inserito “a forza” giusto perché ha contraddistinto un momento della tua vita?
Non entrano mai a forza. AC/DC, Deep Purple o Eagles non sono certo la mia tazza di tè, ma scriverne è stato divertente e mi ha offerto spunti ironici altrimenti preclusi da ballatone strappamutande sulle quali avrei versato fiumi di autocompiacimento morriseyano. Ho scritto persino dei Queen, gruppo che detesto con risolutezza.

(Ascolta “Highway To Hell” degli AC/DC)

“MyTunes” si può leggere anche in modalità “random”?
Altroché! Liberta assoluta, mettete la puntina dove volete. Per favorire eventuali percorsi di lettura ho creato delle playlist apposite, illustrate al fondo.

Nick Hornby ne aveva scelte 31 di canzoni per il suo libro, e non saprei dirti perché proprio quel numero, tu invece perché ne hai inserite settantasette?
Gambe di donna, anno del punk, 77 è un bel numero. Mi avvicinavo a quel numero e mi sembrava significativo. Come dicevano i CCCP “chiedi a 77 se non sai come si fa”.

(Ascolta “Emilia Paranoica” dei CCCP)

A proposito, ormai inizi a essere il nostro Nick Hornby. E non sono certamente il primo a dirlo. Mi chiedo: non è che lascerai “Backdoor” per dedicarti a una carriera esclusivamente di scrittore?
Io sono la versione Abatantuono di Nick Hornby… più commedia all’italiana che britannico humour. Anche se ti devo confessare che ultimamente mi sto appassionando al lato malinconico delle cose. Alla sottile lagna che esce fuori da certe cose che scrivo. Comunque no, per adesso vender dischi rimane il mio impiego istituzionale.

Non prendere questa domanda come una provocazione, bensì come uno spunto di discussione. Oramai le nuove generazioni, parlo di quelle cresciute con l’mp3, non ascoltano più dischi interi ma semplicemente canzoni. Tutti vanno in giro con iPod carichi di brani senza sapere a quale album appartengano e quali siano i riferimenti temporali e di genere. La musica intesa come semplice intrattenimento. Con questo “MyTunes” tu, in qualche modo, hai fatto un gran lavoro perché racconti delle storie, parli dei testi… Ecco, non pensi però che forse in futuro si debba lavorare anche su un libro di album per tentare di rieducare i giovani all’ascolto?
Quella sarebbe un’operazione più strettamente di critica musicale, per giunta già esplorata molte volte. “I migliori dischi di…” è un grande classico. Rispettabilissimo, ma che non mi interessa al momento. Le canzoni sono più flessibili narrativamente, magari rappresentano episodi isolati anche all’interno della discografia di quel gruppo. A me interessa molto di più incrociare la musica con qualcos’altro.

Ascoltare un disco in vinile è un rito che esige attenzione e premura. Pensi che in questi ultimi anni ci sia stato un incremento della vendita di vinili?
Sì, è un dato di fatto incontrovertibile. Oltre alla bellezza innegabile e glorificatrice dell’oggetto, obbliga l’ascoltatore a prendersi del tempo per sé, ad alzarsi per girare il disco, a manutenerlo. È un lusso. Concedetevelo.

Bene, prima di salutarci, torniamo alle nostre manie. Al momento, quali sono i dischi del 2014 che stai ascoltando più di ogni altro?
Top list del momento:
– Sun Kil Moon “Benji”
– Stephen Malkmus “Wig Out at Jagbags”
– Cagna Schiumante “Cagna Schiumante”
– Slint “Spiderland (box edition)”
– Effe Punto “Dinosauri”
– AA VV “Too Slow To Disco, vol.1”
– Fitness Forever “Cosmos”

(Ascolta “Benji” di Sun Kil Moon)

Non mi dire che hai già in mente qualche altro progetto.
Un romanzo. Storia già tutta in testa, ma poche righe scritte per ora.

Dove presenterai prossimamente “MyTunes”?
– Venerdì 13 giugno 2014, Circolo dei Lettori, Torino
– Venerdì 20 giugno 2014, Spazio 211, Festival Rumore, Torino
– Mercoledì 2 luglio 2014, Libreria Trebisonda, Torino
– Giovedì 10 luglio 2014, Libreria Il gatto che pesca, San Mauro (TO)
– Venerdì 25 luglio 2014, Festival Rock, Alpette (TO)

Grazie per la solita disponibilità.
Grazie a te. Che Lou Reed ci assista tutti quanti dall’alto.

(A questo punto ci sembra doveroso chiudere l’intervista con “Perfect Day”)



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Mario Calabresi – Spingendo la notte più in là (Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo) – 2007

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Ci sono dei libri che andrebbero letti assolutamente, non tanto per arricchire il proprio bagaglio culturale e le proprie conoscenze (cosa che non fa mai male) ma più che altro per non continuare a commettere quegli stessi madornali errori politici compiuti in Italia in quei maledetti anni ’70. Anni cosiddetti “di piombo” che hanno svelato il lato peggiore di un’Italia socialmente disastrata. Un’Italia iraconda che ha perseguito idealismi politici (di destra e di sinistra) attraverso ricatti, ritorsioni, sequestri, vendette e atti efferati che hanno prodotto soltanto una sequela di “crimini e misfatti” (per dirla alla Woody Allen benché riferita a un contesto differente) e che non hanno per niente giovato al nostro paese, bloccandone oltretutto l’evoluzione socio-culturale, e di cui paghiamo ancora oggi le conseguenze. Un’Italia estremamente violenta, incapace di dialogare, che ha ucciso in nome della giustizia e della democrazia gettando nello sconforto e nel dolore numerose famiglie di onesti lavoratori. Un’Italia insomma funestata dal terrorismo che il bravissimo Mario Calabresi ha saputo raccontare in maniera pacata, equilibrata e con profondo sentimento attraverso questo agevole libricino che prende spunto dalla strage di Piazza Fontana (12-12-1969), dalla morte di Giuseppe Pinelli (15-12-1969) e in particolar modo dalla scomparsa del papà, il commissario Luigi Calabresi ucciso il 17 maggio 1972 con due colpi di pistola. Un numero inverosimile di omicidi e di attentanti politici ma soprattutto una tragedia familiare personale rievocata prima attraverso lo sguardo e gli occhi di un bambino incosciente e poi attraverso il desiderio di conoscenza di un uomo alla ricerca della verità e di un perché. Una narrazione che sa essere tanto didascalica quanto poetica, che non scade mai nella pateticità e che in alcuni momenti riesce a essere addirittura ironica. Un libro che rivela l’immagine di uno Stato debole e indifferente capace di generare solamente scontri sociali mettendo in lotta dei gruppi di stupidi esaltati contro i “figli del popolo” (per dirla alla Pasolini); uno Stato insomma che soggiace alla smisurata ipocrisia di politici e di fanatici a discapito della vera sofferenza, quella delle famiglie delle vittime abbandonate a loro stesse. “Spingendo la notte più in là” è un libro che scopre con orgoglio e con dignità tutta la grandezza, il coraggio, il sacrificio e la tenacia di mamma Gemma in grado di educare, meravigliosamente e senza alcun livore, il proprio nucleo familiare nonostante tutto e tutti. Un bel racconto di vita vissuta, quindi, che andrebbe letto se non altro per scoprire dei piccoli e amorevoli episodi (come per esempio L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters regalata da Giuseppe Pinelli a Luigi Calabresi) ma anche per non cadere in quelle stesse e tragiche situazioni di conflitto sociale in nome di una politica rossa, nera o verde che sia.

ML – UPDATE N. 69 (2010-01-31)

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VARSAVIA ALTERNATIVA (2011)

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L’impressione di chi si è appena trasferito in quel di Varsavia è quella di un posto in continuo fermento. Una sensazione che, oltre a trovare conferma nei numerosi eventi culturali e ricreativi realizzati quasi in ogni angolo della città, si percepisce immediatamente dai tantissimi lavori di edificazione e di ristrutturazione urbana in atto soprattutto negli ultimi anni, molti dei quali presumibilmente anche in vista degli Europei di calcio del 2012: ammodernamenti, restauri e ampliamenti che, nonostante i buoni propositi, non possono che arrecare piccoli disagi. Vivaddio, però, i cantieri si aprono e si chiudono con regolare scadenza e raramente ci si trova di fronte a edifici eternamente incompiuti o con “gestazioni” di decenni. Già qualche anno fa accadeva spesso, non senza sorpresa, di vedere opere completamente ultimate nel giro di appena qualche mese. Lo stesso sbalordimento, misto ad ammirazione, è stato ravvisato in ambito culturale, nella moltiplicazione delle iniziative più disparate e stravaganti: dalla fotografia alla pittura, dal teatro al cinema, dalla musica a ogni sorta di circostanza artistica, consolidando l’idea di una metropoli fondamentalmente giovane, dinamica e creativa. continua (Fonte: Il Mucchio Selvaggio)

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Maurizio Blatto – Intervista (2011)

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L’ultimo disco dei Mohicani è uno di quei libri che va letto non tanto per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, quanto invece per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. Una sorta di autopsicoanalisi comparativa che, in parole povere, significa: a chi assomiglio? Al piastrellista in fissa per il funky e le donne di colore o al diabolico e perverso Paragonio che ha “il vizio di accostare qualsiasi artista (che ti piace) a uno (che detesti) lontano anni luce per sensibilità e caratteristiche”? All’audiofilo hardcore o a Mimmo Regghe? A Tony Locomotiva o a Renatino Punk? Ad Autolavaggio o ai gemelli Diufaus? O vi sentite proprio come Maurizio Blatto che passa intere giornate dietro il bancone ad ascoltare i racconti più disparati e bizzarri dei clienti? Insomma, di storie e di personaggi con cui confrontarsi non ne mancano. Perché Backdoor, storico negozio di dischi di Torino, è un piccolo universo fatto di veri e propri cultori musicali, più o meno folli, ma anche di improvvisati frequentatori che, varcando la porta d’ingresso, sono capaci di porre le domande più assurde di questo mondo, del tipo: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?” oppure “Morricone era uno dei Camaleonti?” (ML 75) Di questo e altro abbiamo provato a parlarne, più o meno seriamente, direttamente con l’autore. Buon divertimento.

Appena ho avuto il tuo libro tra le mani, la prima cosa che ho letto e che naturalmente mi ha colpito è stata la tua breve nota biografica: “Nato nel 1966, ha accantonato sul nascere una carriera da avvocato preferendo Backdoor, storico negozio di dischi cittadino […]”. La prima domanda stupida che mi viene in mente è questa: come si trova la forza e il coraggio di abbandonare, dopo anni di studi, una possibile quanto redditizia professione da avvocato per lavorare in un negozio di dischi?
Beh, ci ho provato. Sono stato forse il primo a laurearmi con una tesi sulle direttive europee di quella che poi sarebbe diventata la legge 626 (sicurezza sul lavoro). Io speravo di trovare una collocazione sul versante della difesa dei lavoratori. Non mi cercò nessuno. In compenso mi chiamavano tutte le grandi aziende, e per i motivi opposti. Una volta mi proposero un’assunzione immediata nell’ufficio del personale di una grande industria. Vendevano aerei da guerra in Siria. Io tornavo a casa e avevo Billy Bragg sul giradischi. Telefonai: “Mi spiace. Avete puntato sulla persona sbagliata”. Non avrei mai potuto farcela. Mi presero in un grande studio, mentre andavo in tribunale avevo Rockerilla e l’NME nella borsa. Mi chiudevo nella mia stanza e ascoltavo i Minutemen nel walkman. Non sentivo le chiamate che arrivavano dalla segreteria.Bussai alla porta del titolare dello studio e dissi “Mi spiace. Avete puntato sulla persona sbagliata”. Di nuovo capii che non avrei mai potuto farcela. Il giorno dopo andai a fare il commesso nel mio negozio di dischi preferito. I miei non dissero nulla, ma capirono lentamente. La mia compagna di allora, oggi mia moglie, mi sostenne. Moralmente ed economicamente. Billy Bragg e i Minutemen non lo seppero mai.

La nota biografica, poi, si chiude con “L’ultimo disco dei Mohicani è il suo primo libro”. Ecco, quindi, che scatta immediatamente la seconda domanda, altrettanto banale: come si arriva a pubblicare il primo libro a 44 anni, in un’epoca in cui ci sono autori che neanche a trent’anni hanno pubblicato dischi e libri a volontà?
Scrivo da più di quindici anni su Rumore e ho spesso collaborato con riviste musicali, occupandomi talvolta anche di letteratura e sport. Non avevo mai preso seriamente in considerazione l’idea di scrivere un libro. Sono lento, tendo a rimandare tutto all’ultimo momento (ma sono puntualissimo). Seppur in modo svagato, elaboro però in continuazione. Credo fermamente nella necessità di fare poche cose, ma bene. E nell’obbligo di seguirle finché si può, promuoverle e assecondarle. In un mondo di tutto e di più, io sostengo il “meno è meglio”. Quindi mi sono svegliato tardi. L’idea di questo libro ce l’avevo però da tempo, questo sì. Fermentava dentro e alla fine si è tramutata in una vera esigenza.

Quanto tempo ci hai lavorato sopra?
Molto poco e a tratti. Soprattutto notti e qualche pomeriggio strappato agli impegni di famiglia (una bambina che esce da scuola, hai comprato il latte?, l’altra bambina che esce dall’asilo, cazzo c’è una perdita in cucina!), al lavoro in negozio e alle scadenze delle riviste. Ho sempre vagheggiato di andarmene via un paio di settimane a “scrivere il mio libro”, ma è stato impossibile. Ho subaffittato una stanza nello studio dove lavora mia moglie e stretto i tempi. In totale, e con pause lunghissime in mezzo, direi sei mesi circa.

Perché proprio Castelvecchi editore?
Mi aveva cercato Arcana per un progetto diverso, più strettamente musicale. Bisognava seguire un gruppo, fare interviste e muoversi. Impossibile per me in quel periodo. A Gianluca Testani, direttore artistico di Arcana, parlai però del progetto di quello che sarebbe poi diventato L’ultimo disco dei Mohicani e gli fece leggere quel poco che avevo già scritto. Lui ne fu entusiasta sin dall’inizio. Il passaggio a Castelvecchi, casa editrice gemella, lo concordammo insieme, perché il libro potesse nascere in un ambito più strettamente narrativo e meno musicale. Non ho mai contattato nessun altro editore. Per me è determinante lavorare con le persone che mi piacciono e sono gentili con me. Gianluca è stato uno di questi. Firmare un contratto e avere una data di consegna è stato fondamentale. Io mi conosco bene e so che soltanto gli obblighi mi spronano a produrre.

Penso che L’ultimo disco dei Mohicani vada letto non solo per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, ma anche per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. In fondo un negozio di dischi è quasi sempre frequentato da gente fissata, o no? Quando hai capito che la tua laurea in giurisprudenza si sarebbe ben presto trasformata in una laurea in psicologia?
Alla fine sono diventato come un taxista newyorchese, che non si stupisce più di nulla. La musica e il collezionismo sono due (splendide) dipendenze che selezionano già alla porta un certo tipo di umanità, ma davvero io credo di avere una sorta di calamita che attira i caratteri sghembi. La gente ha bisogno di essere ascoltata, si “apre”, e dopo poco l’ordinario va in soffitta. Di sicuro quando mi hanno chiesto “Che Guevara ha fatto più niente?” ho capito che non si tornava più indietro.

Conciliare lavoro e passione non sempre può risultare piacevole. C’è stato il classico momento in cui avresti voluto abbandonare il tuo lavoro e goderti le tue passioni, in perfetta solitudine, da semplice consumatore finale?
Onestamente accade spesso. Culli questa idea di essere a casa ad ascoltare Nick Drake mentre fuori nevica. Talvolta fai il pieno di “parole” e scoppi. Probabilmente accade a chiunque abbia fare con il pubblico. Ma altrettanto sinceramente la condivisione di questa insana passione è ancora un punto forte. Le classifiche, le analisi dei brani, le lista di ricerca, il pacco appena arrivato dall’Inghilterra: è ancora un bello spasso.

Oggi rispetto a ieri, cos’è cambiato nell’attitudine culturale dell’appassionato di musica? E cosa invece è rimasto pressoché immutato?
L’appassionato che ha iniziato con il supporto fisico, vinile o cd che sia, è rimasto in buona parte lo stesso. Anzi, in molti i casi ha estremizzato la sua passione/ ossessione. Chi comprava tre cd all’anno e adesso scarica tonnellate di files senza nome dall’ufficio, non ha mai fatto testo. Sulle nuove generazioni la smaterializzazione della musica e la sua apparente mancanza di valore (e non solo monetario) ha tracciato una linea netta. Ma ultimamente ho notato un piacevole ritorno dei giovanissimi. Ipod e vinile stanno diventando un connubio diffuso.

Qual è la tua opinione circa le webzine che fanno critica musicale?
Vanno benissimo, purché siano ponderate e non buttate di getto. Non amo il bloggerismo d’assalto, i giudizi di pancia e livorosi. La possibilità di pubblicare immediatamente on line spesso si porta dietro una mancanza totale di filtro, una sorta di autocensura che, a ogni livello (carta stampata compresa), andrebbe più praticata.

È inutile dire che ho trovato il tuo libro davvero bello e divertente oltre che pieno zeppo di riferimenti. Mi chiedevo, però, se tutti quei personaggi e quelle situazioni sono davvero reali o se in parte sono frutto della fantasia dello scrittore Maurizio Blatto?
Drammaticamente reali. Io ho apportato giusto qualche arrotondamento narrativo. E, in un’ottica di protezione dei collaboratori di giustizia, ho cambiato qualche nome per salvaguardare la libertà di alcuni compratori selvaggi. Da scrittore, se avessi inventato le storie, temo che mi sarei auto cassato. Tipo “No, a questa non ci crederebbe nessuno”.

Che fine ha fatto, allora, l’uomo che ha inventato i Massive Attack? L’hai più visto o sentito? (ndr, sorrido)
Sparito. Per fortuna mi verrebbe da aggiungere. In realtà sono io che gli dovrei qualcosa. Beissline è il pezzo che funziona di più durante le presentazioni e il fatto che gli Offlaga Disco Pax lo abbiano sempre letto (e musicato) durante i bis del loro ultimo tour è stato per me un grandissimo veicolo promozionale. Oltre che un evidente motivo d’orgoglio. Dove sarà? Magari sta inventando il genere musicale che sconvolgerà il prossimo decennio. Chissà.

C’è stato qualche cliente che leggendo il libro si è riconosciuto in uno dei personaggi da te descritti ed è venuto in negozio o ti ha chiamato al telefono per lamentarsi o per complimentarsi?
Io avevo avvertito tutti. Guardate che sto scrivendo un libro su Backdoor, magari ci finite dentro… Praticamente tutti mi hanno dato carta libera, felici in ogni caso di venir rappresentati e inseriti nel nostro amato microcosmo. Ma succede spesso che qualcuno che è stato descritto, anche ferocemente, mi dica: “Comunque mi sono riconosciuto!”. Allora mi tremano i polsi e chiedo “Ah sì, dove?”. E loro, immancabilmente “Eh, in quel capitolo dove si parla delle mogli che rompono i coglioni! Che vita dobbiamo fare!”

Dentro questo libro c’è un po’ tutto quello che il rocker e l’appassionato di musica rock cerca: sesso, sentimento, divertimento ma soprattutto il fervore per quel background culturale che ci spinge a leggere certi libri, a vedere certi film e ad ascoltare certi dischi. C’è qualcosa che non hai scritto e che avresti voluto aggiungere?
Sesso soprattutto degli altri direi (vedi il paragrafo di Marcello), ma capisco cosa intendi. Oltre a
ciò che dici mi preme il senso di appartenenza. Tribù, sottocultura, manipolo di snob, conventicola di “tuonati”. Qualsiasi cosa sia è un sentire fondamentale. Nel libro ho messo tutto quello che ritenevo importante e funzionale al ritmo della narrazione. Incredibilmente mi sono scordato di “Quando ho stretto la mano al Presidente del Kazakistan”, destinato a diventare una sorta di bonus track del futuro.

Per caso stai già pensando di scrivere un altro libro?
Come accennavo prima, sono nella fase dell’elaborazione. Ci penso con una certa continuità. Tenterei un romanzo, mantenendo alcune caratteristiche mohicane. Territorialità e linguaggio soprattutto.

Credo che i negozi di dischi in qualche modo si somiglino un po’ ovunque, per clientela, per atmosfere, per situazioni talvolta anche assurde e imbarazzanti, soprattutto per chi entra per sbaglio o per la prima volta in simili ambienti. Pensi che andrebbe ratificata una legge o una circolare interna tra i negozianti del settore che obblighi a esporre all’esterno un cartello a caratteri cubitali del tipo: “Attenzione: questo è un negozio di dischi”?
L’insegna potrebbe aiutare, soprattutto quando entrano e ti chiedono un dvd di George Clooney o una grammatica in spagnolo…

Consiglieresti mai questo lavoro alle tue figlie?
Non direi, penso che vendere dischi diventerà come fare il liutaio o aprire una bottega di caccia e pesca. Qualcosa di simile a quelle occupazioni che vedi nelle saghe di paese, stile “gli antichi mestieri”. Detto questo per me rimane tra i lavori migliori del mondo. Di sicuro auguro alle mie due figlie di poter fare una professione che le gratifichi e le rappresenti almeno in parte. Banale e disperato come auspicio, mi rendo conto. Ma credo valga la pena di rischiare. E accontentarsi, certo.

Sempre dalla tua nota biografica, leggo: “Dovendo scegliere, sceglie il vinile”. Quali in particolare?
Drammaticamente tutti. I vinili intendo, da quelli pregiati e irraggiungibili, fino alle schifezze da mercato dei disgraziati. Gli originali della Motown e il 45 con i discorsi di Papa Giovanni. Tutto mi seduce in qualche modo. Pochi oggetti come il vinile hanno la capacità di catapultarti in un’epoca distante o in una dimensione parallela. I 10” della Sarah records con le copertine fiorite e le raccolte disco anni settanta con scritto a biro “Stefania sei bona” sul retro. Tutto mi comunica qualcosa. Quelli che mi hanno segnato irrimediabilmente? Per motivi diversi, i tre fondamentali sono l’esordio degli Smiths, la banana dei Velvet Underground e Lungo i bordi dei Massimo Volume.

Il solito gioco: qual è stato il tuo disco del 2010?
Cattive Abitudini dei Massimo Volume. Un ritorno da me desideratissimo, ma con risultati artistici superiori ad ogni aspettativa. Ispirato dall’inizio alla fine, intensissimo.

Un libro e un film che invece ami appassionatamente e che, spesso e volentieri, ti è capitato di tornare a leggere o a guardare.
Al solito, difficile scegliere. Ma direi Si spengono le luci di Jay McInerney. Affresco di perdita e caduta di un’eleganza infinita (io muoio ogni volta dietro alle storie delle coppie che si sgretolano. Insieme al tema della sopravvivenza è la mia cosa). Il film? Butch Cassidy, probabilmente per gli stessi motivi elencati sopra.

Buttiamola anche sul polemico (ndr, sorrido). Pensi davvero che Tunnel Of Love sia uno dei dischi peggiori di una discografia brillante quale quella di Bruce Springsteen? Sono convinto che quel disco, pur non essendo un capolavoro, col passare degli anni abbia riacquistato la sua giusta dignità, non credi?
Tanto per chiarirci ho paura degli springsteeniani, come di tutti i fedeli intransigenti di qualsiasi chiesa. Non ritengo un cattivo disco Tunnel of Love. Temo addirittura di averlo. È malinconico e per nulla machista dopo gli steroidi, magari involontari, di Born in The U.S.A. Ma è un innegabile classico degli usati. Il rocker stereotipato (padano o dell’Arkansas che sia) lo vive come un tradimento. È il tiramisù portato alla grigliata delle salsicce di cervo. Non va. Quindi tutti se lo sono venduto. È pieno di chiaroscuri con suoni sbagliati. Non ha la bellezza disperata e scarna di Nebraska, ma è un po’ tramonto anni ottanta. Il che me lo rende simpatico. Dopo quel disco tutto quello che ho sentito di Springsteen, francamente, mi è parsa poca cosa.

Senti, ma “a livello di Italia”, musicalmente, come siamo messi?
Ah! meglio che a livello di Spagna, tanto per citare la richiesta bizzarra del libro. Io sono un grande appassionato di musica italiana, non soltanto per motivi di lingua, ma per la sua vera qualità. Detesto lo snobismo “ah no, sai che seguo soltanto gli americani” e simili. Ritengo che siano moltissimi i gruppi interessanti in giro. I miei preferiti? Massimo Volume, Perturbazione, Offlaga Disco Pax e Altro. E tra le ultime cose Distanti, Piet Mondrian e Duemanosinistra.

Una volta, diciamo una ventina di anni fa, ero fuori un negozio di dischi mentre aspettavo che aprisse. Ricordo bene ancora oggi che c’era una persona dietro di me con i capelli lunghi e un giubbetto di jeans tappezzato di teschi e di toppe raffiguranti gruppi come Iron Maiden, AC/DC, Slayer e affini. Per tutta l’attesa non fece altro che emettere suoni di batteria con la bocca (si fa per dire) portando il ritmo con la mano destra sulla gamba destra, quasi fosse a un concerto. Devo ammettere che quel tipo di atteggiamento fu abbastanza noioso e tracotante. A distanza di tanti anni ti chiedo, visto che tu ne hai viste di tutti i colori, che tipo di cliente è l’ascoltatore di Metal? Poi: perché a un certo punto avete deciso di non trattare più, o meglio di accantonare, questo genere di musica a Backdoor?
Io non sono mai stato un metallaro, ma ho sempre avuto simpatia per il loro atteggiamento. Sono dei fan assoluti e non temono il ridicolo, nemmeno quando si riempiono di mostri, croci grosse come quelle del Cimabue e inserti leopardati sul giubbotto. Mantengono una sorta di devozione per il genere anche in tarda età, e persino chi non è più metallaro in genere parla con un sorriso del suo periodo Saxon. Quando Backdoor, all’epoca Metalbridge, aprì nel 1982 scelse il metal per ragioni direi commerciali. Io arrivai nel 1994, quando tutto il metallo era già stato accantonato con rara lungimiranza. Una mezza follia, il metal vende sempre. Attualmente ha un suo repartino in vinile sopra il mobile del jazz, prezzo unico e baraonda senza ordine alfabetico. Ma sopravvive.

Devo ammettere che, dopo aver letto il tuo libro, mi sono sentito una “persona normale”. Grazie!
Ottimo, vuol dire che ti sei riconosciuto in questa via di mezzo tra il villaggio di Asterix e il Circolo Pickwick. È una compagnia “disturbata” ma accogliente. Un po’ questo effetto consolatorio di non sentirsi solo ha fatto anche la fortuna del libro. Ci si annusa e riconosce al tempo stesso. L’importante è non identificarsi con i casi davvero clinici che abbondano nella prima parte del libro. Io lo dico sempre, “non vi sembrava che parlassi di voi? Grande, siete sani”. Ma nel caso qualcuno cominciasse ad avere dei dubbi, dagli il mio indirizzo. Sono sicuro di avere il disco giusto per guarire anche lui.

Foto: Luca Saini

ML – UPDATE N. 76 (2011-03-07)



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Pillole quotidiane: la politica dell’amore di Alina Reyes

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Un libro per le donne ma soprattutto un libro per capire le donne. Alina Reyes, autrice francese nota al grande pubblico per il best seller Il macellaio – di cui abbiamo avuto anche una rappresentazione cinematografica da parte di Aurelio Grimaldi con la nostra Alba Parietti nel ruolo della protagonista, una donna brillante ma insoddisfatta – ci regala con La Politica dell’amore un volume assai divertente che parla, con il solito spirito anticonformista, dissacrante ma allo stesso tempo sentimentale che contraddistingue la scrittrice, d’amore e di eros, di libertà e di ribellione.

Una raccolta di scritti divisi in ventiquattro brevi capitoli, molti dei quali già pubblicati su giornali e riviste, che analizza e tenta di sovvertire i principi di una società e di una cultura che, ancora oggi, hanno come ideale comune “una donna algida e priva di voce, espressione di un mondo sciocco, il quale, più che amore sembra offrire un sesso surgelato”.

La Reyes non si perde mai in stupide e romantiche astrazioni, tipiche di un atavico stereotipo maschilista, che vogliono appunto la femmina illibata, sdolcinata, fedele, devota e alla disperata ricerca del principe azzurro, anzi. Il ritratto che ne esce fuori, al contrario, è quello di una donna che chiede passione, serenità, fantasia, mistero, coinvolgimento, rispetto e al contempo in grado di offrire il fascino, l’innocenza e l’intelligenza di Marilyn Monroe. Un’opera che ha come filo conduttore quel “desiderio” latente ed essenziale che spesso viene a mancare nei rapporti di coppia, e che qui rivendica ad alta voce il diritto all’orgasmo.

Un piacere, dunque, non soltanto di buoni sentimenti, di discrezione e di comprensibile gelosia ma anche più liberamente edonistico, fatto di mutandine rosse, di autoerotismo e di condivisa trasgressione. Quello che chiede la nostra scrittrice è un amore istintivo e naturale, come lo è l’odore di due corpi avvinghiati e appiccicosi; un amore rispettoso di ogni scelta sessuale, gay o lesbica che sia; un amore non ipocrita, che sappia esaltare il maschio (talvolta “Barbablù” altre volte “Pompiere”) e “Quel bell’oggetto del desiderio”.

Un amore che riesce a essere critico anche verso le donne e verso un mondo in cui la musa ha perso il ruolo fondamentale d’ispiratrice: “La musa di oggi è priva di voce. Si chiama top model, è un essere ideale che non mangia e non beve, esibisce un vitino e una linea di dea, non ha né vita né cuore, o pochissimo, è senza capo né coda (come spesso, d’altronde, i creatori che lei ispira), un essere tuttavia ricco sfondato, profondamente legato alla realtà di questo mondo dal peso dei dollari che accumula.” Per Alina Reyes – infatti – “la musa è caduta davvero in basso”.

Addio a personaggi come Brigitte Bardot, Marlene Dietrich, Grace Kelly, Ava Gardner e Rita Hayworth che, invece, seppero essere fonte d’ispirazione e di desiderio di grandi artisti. Un lavoro che ci entusiasma davvero, per la sua abilità di saper giustificare certe “immoralità affettive” ma anche per il coraggio di unire il concetto di amore a quello di politica perché, come diceva Milena Jesenka, “Un articolo politico dovrebbe essere scritto come una lettera d’amore”. La politica dell’amore potrebbe essere, inoltre, una delle tante possibili risposte intelligenti e poco impegnative alla teoria del sociologo polacco Zygmunt Bauman che, nel passaggio della nostra collettività dallo stato moderno (solido) a quello postmoderno (liquido), ha visto svanire (o meglio liquefarsi) ideali, fiducia, sicurezza economica e sentimentale.

In conclusione: un libro brillante, divertente e agevole che potrebbe fare coppia con l’entusiasmante opera teatrale de I monologhi della vagina della bravissima Eve Ensler. Centoventuno pagine la cui lettura, di questi tempi, andrebbe consigliata a molti scellerati.

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Maurizio Blatto – L’ultimo disco dei Mohicani (2010)

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L’ultimo disco dei Mohicani è uno di quei libri che va letto non tanto per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, quanto invece per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. Una sorta di autopsicoanalisi comparativa che, in parole povere, significa: a chi assomiglio? Al piastrellista in fissa per il funky e le donne di colore o al diabolico e perverso Paragonio che ha “il vizio di accostare qualsiasi artista (che ti piace) a uno (che detesti) lontano anni luce per sensibilità e caratteristiche”? All’audiofilo hardcore o a Mimmo Regghe? A Tony Locomotiva o a Renatino Punk? Ad Autolavaggio o ai gemelli Diufaus? O vi sentite proprio come Maurizio Blatto che passa intere giornate dietro il bancone ad ascoltare i racconti più disparati e bizzarri dei clienti? Insomma, di storie e di personaggi con cui confrontarsi non ne mancano. Perché Backdoor, storico negozio di dischi di Torino, è un piccolo universo fatto di veri e propri cultori musicali, più o meno folli, ma anche di improvvisati frequentatori che, varcando la porta d’ingresso, sono capaci di porre le domande più assurde di questo mondo, del tipo: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?” oppure “Morricone era uno dei Camaleonti?” Quesiti a cui è difficile rispondere ma che ogni tanto trovano una risposta immediata e consona all’esigenza da parte di uno zelante venditore (Maurizio Blatto) che, oltre a essere armato di una santa pazienza, si rivela un attento studioso del genere umano; caratteristiche pressoché sconosciute dall’altra metà della ditta, ovvero l’austero Sig. Franco, abile contabile nonché fondatore dello storico negozio cittadino. In fondo per capire quale sarebbe stato il destino del giovane Blatto basta iniziare a leggere il primo capitolo: “Ero partito più o meno con lo stesso obiettivo: garantire assistenza. Legale, immaginavo, vista la mia laurea in Giurisprudenza. Poi le cose sono andate diversamente e, quando, con la velocità del fulmine, mi sono calato dalla finestra di uno studio specializzato in diritto del lavoro sedotto dai feedback dei Velvet Underground e impaurito dai misteri dell’usucapione, davvero non immaginavo che sarebbe diventata di carattere sanitario. Igiene mentale. Sempre l’assistenza, si intende.” Ecco quindi vedersi trasformare una laurea in legge in una laurea in psicologia e “Il bancone in un lettino psichiatrico” rendendo “Il negozio di dischi come l’Azienda Sanitaria Locale”. Narrazioni e scene estremamente esilaranti ma che, in aggiunta, sanno essere anche commoventi, almeno per chi ancora adesso si ritrova con gli occhi lucidi dopo aver ascoltato un disco o una canzone. Suggestioni, queste ultime, tipiche di uno stato mentale da paziente inguaribile in cui lo stesso Maurizio Blatto a volte sembra ritrovarcisi, se non altro per quella scelta fatta tanti anni fa che lo ha portato a condividere gioie, dolori e inquietudini dei suoi clienti. “Sono un equalizzatore più sociale che Pioneer, una sorta di terapeuta omeopatico. Curo con l’intera discografia dei Pavement (o dei Fall, se serve una punta di elettroshock)”, potrebbe riassumersi così il leitmotiv di tutti quelli che hanno deciso di lavorare in un negozio di dischi. Un lavoro dalle forti connotazioni sociali e culturali descritto magistralmente e con sferzante ironia da L’ultimo disco dei Mohicani. Un’opera prima davvero encomiabile attraverso la quale il quarantaquattrenne scrittore piemontese ha saputo riprodurre fedelmente i suoni, gli umori e gli odori quotidiani di un’amabile comunità di “psicopatici”. Poiché, come recita il sottotitolo, questo libro rivela “Tutto quello che esiste ma che non potete credere che esista nel mondo della musica rock e dei suoi seguaci (più o meno) appassionati”, e noi che l’abbiamo mandato giù quasi tutto di un fiato non possiamo che auspicarne l’acquisto. Soprattutto se siete di quelli che quando entrano in un negozio di cd e di vinili avvertite un improvviso senso di pace e di relax.

ML – UPDATE N. 75 (2011-02-07)

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Intervista su Qui Magazine (2009)

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QUI MAGAZINE Frosinone | Maggio 2009

Musicletter, la musica è in linea di Ilaria Ferri

ALLA FANZINE NATA NEL 2005 PER INIZIATIVA DI LUCA D’AMBROSIO COLLABORANO TANTI APPASSIONATI

L’amore per la musica, la voglia di diffondere una cultura alternativa, il piacere di scrivere, di curiosare e portare alla luce le gemme spesso nascoste del panorama nazionale e internazionale: sono questi gli elementi che hanno portato alla nascita di Musicletter, fanzine creata da Luca D’Ambrosio, oggi una delle riviste on line più consultate e autorevoli, grazie all’apporto di collaboratori appassionati, provenienti anche dal mondo del giornalismo musicale “tradizionale”. Di questa bella realtà abbiamo parlato con Luca (ideatore anche del festival sorano “Riverland”).

Luca, come nasce l’avventura di Musicletter?

Nasce dalla mia passione per la musica e dal tentativo di voler condividere le proprie emozioni cercando di metterle “nero su bianco”. L’avventura è iniziata nel febbraio del 2005 con una semplice newsletter contenente alcune mie recensioni destinata ad appena 300 indirizzi di posta elettronica. All’epoca non avevo alcun collaboratore e il sito ancora non esisteva, anche perché non pensavo minimamente che quell’idea potesse riscontrare così tanto successo. Poi, con il tempo, il numero dei destinatari è andato ad aumentare così come quello dei collaboratori. Il nostro scopo è di fare da filtro alla gran quantità di dischi che oggigiorno si producono e ci vengono propinati dalla rete, dalle radio e dalle stesse riviste specializzate. In un certo senso ci stiamo riuscendo, almeno nel principio generale che è, appunto, quello di scegliere la “buona musica”.

Musicletter è anche cartacea o ha solo un’edizione on line?

ML è scaricabile gratuitamente in formato pdf sul sito www.musicletter.it. Ognuno può farne ciò che vuole: leggerla on-line o stamparne una o più copie per sé o per gli amici. Noi, per esempio, ne facciamo giusto un paio di copie cartacee, anche perché bisogna salvaguardare l’ambiente. Altrimenti tutta questa tecnologia a disposizione a cosa serve?

Quanti contatti al mese avete?

Abbiamo una mailing list di oltre 9.000 indirizzi di posta elettronica a cui spediamo sistematicamente i nostri aggiornamenti. Posso dirti che nell’ultimo mese abbiamo avuto circa 1.300 visite. Il contavisite del sito in questo preciso istante segna 41.358.

Tra i collaboratori ci sono anche nomi noti del giornalismo “tradizionale” nazionale.

Sì, ci sono “semplici” appassionati di musica e critici che collaborano con altre riviste nazionali: tra questi ci sono anche dei giornalisti iscritti all’albo e persino un ex conduttore di Rai Stereonotte. La cosa più importante è che si tratta di gente davvero esperta e in gamba: dal nord al sud dell’Italia. Senza di loro Ml non sarebbe quello che è.

Il Riverland festival ha siglato l’anno scorso la seconda “puntata”.

Dopo tanti anni di “buio culturale” ho tentato di portare una ventata d’aria nuova nella mia città, Sora, realizzando un festival di “musica alternativa” che, nell’ultima edizione del 2008, ha visto esibirsi gruppi come The Niro e Gentlemen’s Agreement. Che atmosfera si è respirata? Semplicemente emozionante e con un pubblico numeroso che è accorso specialmente da fuori.

La prima, nel 2007, invece come è andata?

Molto bene anche se la tensione era davvero altissima. Un’agitazione che è stata sciolta dai Desert Motel capaci di regalarci una serata indimenticabile.

L’edizione numero 3 invece è in forse. Ci puoi spiegare perché?

È una tristezza, ma sono stanco di chiedere l’elemosina per organizzare certi eventi culturali che, oltretutto, vengono snobbati dalla popolazione autoctona e dalle istituzioni locali. Nonostante la buona volontà di alcuni amici e di qualche amministratore, siamo ancora legati a un concetto “tradizionale” e “classico” di cultura. Un esempio? Con tutto il rispetto per i grandi della musica rock, che tra l’altro adoro, conosco gente che ascolta ancora solo ed esclusivamente i soliti nomi come Bruce Springsteen, Bob Dylan, Ry Cooder, i Doors, i Pink Floyd credendo che di musica buona non se ne faccia più. Una sciocca affermazione. La musica buona c’è ancora, basta non smettere di cercarla ma soprattutto di ascoltarla. La vecchiaia spesso fa brutti scherzi. Tornando al festival, posso dirti che, nonostante il successo delle due precedenti edizioni, allo stato attuale ho deciso di mettere tre puntini sospensivi. Il mio auspicio, ovviamente, è quello di trovare un buon samaritano (pubblico o privato) che con un migliaio di euro voglia sostenere questa terza edizione di Riverland. Al momento non vedo vie d’uscita.

Esiste un autore o una band italiana secondo te sottovalutati?

Ti faccio qualche nome che in questo momento mi ronza nella mente: i Flor De Mal (poi Flor), Amerigo Verardi e Moltheni.

Conosci bene la scena musicale provinciale? Che ne pensi?

In linea generale posso dirti che, rispetto al passato, c’è stato un netto miglioramento specialmente nell’area di Frosinone. Qui a Sora, invece, da qualche anno qualcosa si sta muovendo ma siamo ancora lontani anni luce. Il problema è sempre lo stesso: mancanza di cultura “alternativa”. Nonostante i buoni propositi, il substrato culturale è ancora arido.

Perché, secondo te, nonostante tutti gli sforzi e alcuni nomi validi, questa scena non ha mai veramente “sfondato” a livello nazionale?

È il solito mistero italiano. A dire il vero però c’è un personaggio “indie” che conosco e che ha sfondato, si chiama Silvio ma fa un genere troppo “fake” per piacermi (sorride, ndr).