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La lunga estate solitaria di Barzin (intervista)

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Il 3 marzo 2014 sarà pubblicato in Italia, su etichetta Ghost Records, il quarto album di Barzin, cantautore canadese di origine iraniana che già ci aveva sorpresi con il precedente Notes to an Absent Lover del 2009. Da allora sono passati cinque anni e Barzin Hossein non ha perso un minino di ispirazione e sensibilità, tornando sulla scena musicale con un’altra meraviglia dai toni intimi e raffinati che prende il titolo di To Live Alone In That Long Summer. Dieci canzoni che si appiccicano al cuore e che rivelano definitivamente il talento di un musicista autentico e sincero, sempre in bilico tra romanticismo ed esistenzialismo. Buona lettura.

Intervista – La lunga estate solitaria di Barzin
2014© di Luca D’Ambrosio
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Allora Barzin, ci eravamo lasciati con “Notes To An Absent Lover” e adesso, a distanza di cinque anni, ci ritroviamo con un’altra meraviglia di disco intitolato “To Live Alone In That Long Summer”. Dieci canzoni folk raffinate, intime, poetiche e dalle melodie sempre più cristalline. Possiamo considerare questo nuovo lavoro discografico come una naturale evoluzione, sentimentale e musicale, del lavoro precedente?
Sì, appare come un’evoluzione naturale dell’album precedente. Dal punto di vista sonoro i due lavori sono simili, e i temi di quest’ultimo sono ancora legati a quelli di “Notes Of The The Absent Lover”.

Una voce avvolgente, arpeggi di chitarra e ritmi di batteria mai sopra le righe. La miscela sembra essere la stessa di “Notes To An Absent Lover”, tuttavia “To Live Alone In That Long Summer” pare custodire un’alchimia, o forse meglio un segreto, che fa sì che le canzoni ti entrino subito nella pelle. In alcuni momenti sembra addirittura di averle sentite chissà quante volte. E poi si avverte un’aria decisamente rilassata. Mi viene quasi da pensare che questo potrebbe essere il disco della tua maturità artistica.
Sono contento che la pensi così. In questo disco sento davvero di aver raggiunto un certo grado di maturità. Questo è il mio quarto album, quindi ho imparato molto dagli errori commessi con i lavori precedenti e ho cercato di non ripeterli. Inoltre in questo album sono stato aiutato da tante persone di grande talento, più che in passato. Il contributo di queste persone ha portato nuovi elementi nel disco, cosa che non avrei potuto ottenere se avessi provato a fare tutto da solo.

L’ultima volta che ci siamo sentiti mi dicesti che tu sei sempre stato una di quelle persone che riesce a scrivere e suonare proprio quando tutto sembra andare in pezzi. È andata così anche questa volta?
Be’, penso che solo alla fine dei giochi realizzo che la mia fonte di ispirazione nasca proprio quando le cose intorno a me cadono a pezzi. È come se la mia mente e il mio corpo possano gestire le crisi solo attraverso l’arte. Vorrei poter trarre ispirazione da diverse fonti o periodi della mia vita, ma ora non sembra essere il momento giusto.

Ecco, parafrasando il titolo del disco, cos’è accaduto in quella lunga estate solitaria?
Trascorrevo un sacco di tempo da solo. Mi piaceva svegliarmi e andare in giro per la città. Prendere brevi appunti. Leggere libri. Bere caffè in varie caffettiere. Tornare a casa e lavorare sulla musica. Vivevo in diversi posti. Ogni volta che qualcuno che conoscevo stava partendo per andare fuori città, andavo a stare a casa sua. Ero alla ricerca di modi diversi di vedere le cose. Quindi, stare a casa di altri è stato davvero il miglior modo per farlo. Mi ha fatto sperimentare cosa vuol dire svegliarsi in un letto diverso. Ho visto come gli altri vivevano la loro vita, le cose che le persone tengono nelle loro case, le loro scelte nell’arredamento e ho provato la sensazione di vivere in un quartiere diverso. Mi sentivo come se stessi vedendo attraverso gli occhi delle persone che vivevano nelle case in cui mi trovavo. In qualche modo mi sentivo di vivere la vita di qualcun altro. Hai mai letto il racconto di Raymond Carver, “Neighbors”? Ecco, era più o meno così…

Con questo quarto album sei uscito definitivamente allo scoperto, mettendo in mostra le tue eccelse qualità di cantautore attraverso brani dagli arrangiamenti sempre più eleganti e curati.
È interessante come questo album sia venuto fuori. Quando ho finito il mio ultimo disco e sono tonato dal tour, mi sono detto che avrei fatto un ultimo album. Volevo fare un disco semplice: solo voce e chitarra, o forse pianoforte. E quindi ho iniziato a lavorare sulle canzoni e lentamente, in qualche modo, cominciavano ad aggiungersi altri strumenti. E così il disco è diventato sempre più “grande” (più complesso, più ricco, ndr), coinvolgendo sempre più persone. E ora che l’album è finito, e che l’osservo a distanza per quello che è, mi accorgo che è stato il disco più difficile e complicato che abbia mai fatto.

A proposito di eleganza, le atmosfere di “In The Dark You Can Love This Place” sembrano addirittura “jazzy”…
Io amo il jazz. Lo ascolto da quando ero adolescente. Quando suonavo la batteria a un certo punto ho considerato la possibilità di diventare un batterista jazz. Ma non sono mai stato in grado di mettere del jazz nella mia musica in maniera che potesse sembrare soddisfacente. Quindi, forse, quegli elementi jazz stanno lentamente iniziando a mostrarsi nelle mie canzoni e negli arrangiamenti.

Prima dicevi che era tua intenzione fare un disco semplice, solo voce e chitarra, e invece poi non è andata proprio così. Infatti, ascoltando questo nuovo lavoro, si ha quasi l’impressione che ogni cosa sia stata studiata nel minimo dettaglio, come se tutto fosse stato ben chiaro nella tua mente ancor prima di entrare in studio di registrazione
Be’, ho cominciato a registrare questo album a casa diversi anni fa. Volevo vedere quali strumenti avrei potuto utilizzare con queste canzoni. Fatto questo, le ho portate in un altro studio di registrazione (quello di Nick Zubeck, che ha prodotto l’album con me). E così abbiamo iniziato a registrarle daccapo, per vedere come avremmo potuto arrangiarle. Dopo di che ho trascorso un po’ di tempo con la band al completo e con due produttori diversi (Sandro Perri e Les Cooper) per cercare di sviluppare gli arrangiamenti che erano venuti fuori a me e Nick. In seguito sono andato in un bellissimo studio (Revolution Recording) che un mio amico ha aperto a Toronto dove abbiamo iniziato a registrare le canzoni. Insomma, siamo arrivati alla registrazione definitiva dopo aver lavorato tanto sugli arrangiamenti.

Al disco hanno partecipato molti musicisti come, per esempio, Sandro Perri, Tony Dekker, Daniela Gesundhet, Tamara Lindeman… Come sono nate queste collaborazioni?
Conosco Sandro da molti anni, è un musicista di grande talento e volevo collaborare davvero con lui su questo album. Così, quando è arrivato il momento di lavorare sugli arrangiamenti, è venuto e ha trascorso diversi giorni con me e la band offrendo le sue idee. Anche Tony Dekker lo conosco da molti anni, ma lui non ha mai partecipato a nessuno dei miei album. Così, questa volta mi sono detto che glielo avrei chiesto. E quando l’ho fatto, ha accettato volentieri. Daniela Gesundhet e Tamara Lindeman sono due cantautrici fantastiche di Toronto. Non solo amo le loro canzoni, ma anche le loro voci. Così ho voluto che facessero parte di questo album. Penso che tutti dovrebbero ascoltare la loro musica. È meravigliosa.

C’è un canzone di questo album alla quale sei particolarmente legato?
Sono davvero contento di come la maggior parte di queste canzoni siano venute, ma ce ne sono alcune di cui sono particolarmente fiero. Una di queste è “Stealing Beauty”. Ho dedicato molto tempo a questa canzone, lavorando sul testo per diversi mesi, senza però riuscire a trovare la voce giusta per cantarlo. Così l’ho buttato via e ho iniziato a scriverne uno nuovo. È stato molto difficile trovare l’intonazione giusta per quella canzone. Devo l’arrangiamento di questo pezzo a Nick Zubeck. L’altro brano di cui sono molto orgoglioso è “In The Dark You can Love This Place”, e una delle ragioni per cui sono così affezionato a questa canzone è il ritmo di batteria. L’abbiamo elaborata più volte. Nessuno degli arrangiamenti venuti fuori per quel pezzo ci sembrava giusto. E poi ricordo che il mio batterista, Marshall Bureau, ha iniziato a suonare questo nuovo ritmo che ha immediatamente attirato la mia attenzione. E non appena ha cominciato a suonarlo tutto si è composto rapidamente. Quindi devo molto a Marshall per come quella canzone è venuta fuori.

So che oltre ad ascoltare tanta buona musica sei anche un divoratore di libri. Mi dici cosa hai letto ultimamente?
Sì, adoro i libri. Ho appena finito di leggere un grande libro di una scrittrice di Toronto, Sheila Heti, intitolato “How a Person Should Be”. È stato meraviglioso. Sto anche rileggendo “Lolita” di Vladimir Nabokov. E parecchi libri sulla musica: “How Music Works” di David Byrne, “Tune Smith” di Jimmy Webb e ” Songwriters on Songwriting ” di Paul Zollo

Ci vedremo presto in Italia?
Sì, sicuramente. Ho in programma alcuni live in Italia come parte del prossimo tour. Per questo album sto lavorando con un’etichetta italiana (Ghost Records). Quindi passerò più tempo possibile nel vostro meraviglioso Paese.

A voler essere sincero, anche questa volta non è stato difficile innamorarmi del tuo disco, perché è andato dritto al cuore. Quindi, grazie per la disponibilità ma soprattutto per la musica che fai. Buona fortuna, Barzin!
Tu sei troppo gentile, Luca. Sono lieto di sapere che l’album ti sia piaciuto. E grazie per aver dedicato il tuo tempo a parlare con me delle mie canzoni. In questi anni mi sei stato di grande supporto, quindi ti ringrazio.

Il nuovo album è in full streaming sul sito del New York Times



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Fabrizio De André – La Buona Novella (1970)

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A proposito del grande Fabrizio De André (cantautore nato a Genova nel 1940 e scomparso a Milano nel 1999) molti dicevano che fosse il Bob Dylan italiano, ma c’era anche chi – come la mai dimenticata Fernanda Pivano – sosteneva pure il contrario, ovvero che Bob Dylan fosse il Fabrizio De André americano. Un’affermazione decisamente audace, ma non per questo infondata se consideriamo il talento ma soprattutto la complessità umana dei due personaggi che, sovente, nel corso delle loro rispettive carriere, hanno dato vita a capolavori unici e irripetibili della storia della popular music. Gemme che hanno saputo sorprendere una società molto spesso stereotipata e poco attenta al particolare, alla diversità, al senso “altro” delle cose e della vita. È il caso, per esempio, de La Buona Novella di De André, un concept album incentrato sulla cristianità che, prendendo spunto dai vangeli apocrifi, celebra e commemora rispettivamente la nascita e la morte di Gesù di Nazareth attraverso una vivida allegoria composta da dieci tracce (cinque per lato, qualora aveste la possibilità di ascoltarlo su vinile) della durata complessiva di poco più di trentacinque minuti. Una miscela ben equilibrata di musica sinfonica, canti liturgici e cantautorato folk italiano che non perde mai di tensione e intensità, grazie alla voce inconfondibile di Faber (così soprannominato dall’amico e attore Paolo Villaggio) e a una scrittura lirica e musicale che, quantunque erudita e complessa, riesce a coinvolgere l’ascoltatore fin dalle prime battute. Ne è la prima lampante dimostrazione la brevissima ode al Signore, “Laudate Dominum”, che introduce “L’infanzia di Maria”, brano che ti scoppia subito nel cuore e da cui viene fuori la figura di una Maria nata – secondo il protovangelo di Giacomo – per grazia dello spirito divino e per questo motivo sacrificata al Tempio del Signore e costretta a vivere un’infanzia difficile:“Forse fu all’ora terza, forse alla nona, cucito qualche giglio sul vestitino alla buona, forse fu per bisogno o peggio, per buon esempio, presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio […] E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio avevi dodici anni e nessuna colpa addosso: ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso.” Ma sarà la traccia successiva,“Il Ritorno di Giuseppe” (“Ai tuoi occhi, il deserto, una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura. […] E lei volò fra le tue braccia come una rondine, e le sue dita come lacrime, dal tuo ciglio alla gola, suggerivano al viso, una volta ignorato, la tenerezza d’un sorriso, un affetto quasi implorato”), a rendere giustizia al sacrificio e alla sofferenza della Vergine e alla fatica di un povero Giuseppe, appena tornato dal lavoro, pronto a sostenere “Il Sogno di Maria” (“Lo chiameranno figlio di Dio: parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno, ma impresse nel ventre”), canzone catartica e di una bellezza struggente che si conclude con il verso “E tu, piano, posasti le dita all’orlo della sua fronte: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte” e che schiude le porte a una “Ave Maria” che inneggia alla donna in quanto madre: “Ave Maria, adesso che sei donna, ave alle donne come te, Maria, femmine un giorno per un nuovo amore povero o ricco, umile o Messia. Femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente”, ed è esattamente in questo modo che si chiude la prima parte del disco. Da questo momento in poi si sprofonderà, sempre di più, in un vortice di emozioni che – a partire da “Maria nella bottega di un falegname” (una conversazione tra Maria, il falegname e la “gente”) alle conclusive “Il testamento di Tito” (il buon ladrone pentito e crocefisso accanto a Gesù) e “Laudate hominem” (che elogia l’uomo poiché fratello e figlio di un altro uomo) – esalterà la Passione di Cristo e il dolore degli ultimi e dei dimenticati: basta ascoltare le parole di “Via della Croce” (“Ma gli occhi dei poveri piangono altrove, non sono venuti a esibire un dolore che alla via della croce ha proibito l’ingresso a chi ti ama come se stesso”) oppure di “Tre madri” (”Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l’immagine d’un’agonia: sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno: lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte“) per rendersene conto immediatamente e per scoprire, oltretutto, la sensibilità di un cantautore e di un poeta come pochi in Italia (e forse anche nel mondo) ce ne sono stati. Un personaggio colto, umile e mai banale: sicuramente una delle figure più importanti della cultura italiana del Novecento. Un cantastorie – consentitemi l’uso di questo appellativo, nonostante possa sembrare riduttivo – che nel 1969, in piena contestazione studentesca, decise di immergersi nella scrittura di un album basato sulla nascita di Gesù e del cristianesimo, sottolineando, tuttavia, l’aspetto più umano e meno spirituale di questo avvenimento religioso. E a chi gli chiese perché proprio quella scelta in quel periodo storico così agitato e rivoltoso, il libertario Fabrizio De Andrè rispose dicendo che, secondo lui, Gesù di Nazareth è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, un signore che molto tempo prima aveva combattuto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. Prodotto da Roberto Dané e arrangiato da Gian Piero Reverberi (anche se nel booklet originale troverete scritto Giampiero Reverberi), La Buona Novella vedrà la luce nel 1970 e con il passare degli anni si confermerà – malgrado quel titolo apparentemente reazionario – uno dei lavori discografici più anarchici, rivoluzionari e appassionanti della carriera del musicista e cantante genovese ma anche della musica d’autore italiana. Insomma, un disco natalizio, ma non solo. Con buona pace di credenti e non credenti. (Luca D’Ambrosio)

Articolo pubblicato sul numero di Natale 2013 del periodico polacco La Rivista.



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Jonathan Wilson – Fanfare – 2013 (full album stream)

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Dentro Fanfare ci sono un sacco di cose che amo: dal folk alla psichedelia, passando addirittura per il progressive rock, genere che, a voler essere sincero, non ho mai digerito con tanta facilità e che, invece, in questo terzo album di Jonathan Wilson risulta decisamente gradevole e ammaliante. Dicevo: dentro Fanfare ci sono un sacco di cose che amo. C’è l’Inghilterra di Bill Fay, come pure il ricordo di John Martyn e George Harrison, ma soprattutto c’è l’America del Rock, quella cantata e sognata da Neil Young e dai Byrds, giusto per fare qualche nome, le cui ombre si allungano un po’ ovunque in questo nuovo lavoro del cantautore di Forest City (North Carolina). Un meraviglioso caleidoscopio di emozioni dove, in alcuni passaggi, mi è sembrato di ascoltare persino il fantasma di un altro Wilson, quello del bellissimo Pacific Ocean Blue. Collaborano al disco Jackson Browne, David Crosby, Mike Campbell, Graham Nash, Josh Tillman e molti altri ancora. E io mi sento a casa. (Luca D’Ambrosio)



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Billy Bragg – Tooth & Nail, 2013 (full album stream)

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Il “ragazzo col ciuffo” è tornato ed è sempre un piacere ascoltarlo, soprattutto quando realizza dischi di una bellezza cristallina come Tooth & Nail. Dodici ballate da far venire i brividi lungo la schiena (“Goodbye, Goodbye” su tutte). Dodici canzoni che vanno dritte al cuore, compresa una cover di Woody Guthrie (“I Ain’t Got No Home”). In cabina di regia c’è Joe Henry, mentre Billy Bragg suona e canta come se fosse un musicista country rock. Lo fa alla grande e con trasporto. Quanto basta per annoverare quest’ultima fatica del menestrello inglese nella lista dei miei dischi preferiti del 2013. Con buona pace dell’hipster postmoderno. (Luca D’Ambrosio)



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Kacey Johansing – Grand Ghosts (2013)

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Dopo aver debuttato nel 2010 con Many Seasons, Kacey Johansing torna con un altro delizioso album intitolato Grand Ghosts. Pubblicato lo scorso 26 febbraio, il nuovo lavoro discografico della cantautrice americana – originaria del Colorado ma residente a San Francisco (California) – si rivela, fin dal primo ascolto, estremamente piacevole. Un folk pop elegante, raffinato, ben arrangiato e mai sopra le righe, con la voce di Kacey a farla da padrone: eterea, carezzevole e a tratti persino graffiante. Grand Ghosts è un disco senza fronzoli che si lascia ascoltare tranquillamente dalla prima all’ultima traccia. Ed è proprio per questo motivo che vi consiglio di ascoltarlo in streaming integrale via SoundCloud. Buon ascolto e mi raccomando, fate attenzione a non innamoravi… (Luca D’Ambrosio)


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Pillole quotidiane: quattro film da salvare

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Anche oggi, come spesso accade da diversi anni a questa parte, sono andato in uno dei negozi dell’usato della mia città. Entro, saluto la commessa e mi dirigo immediatamente verso il “reparto vinili”, se così si può chiamare, visto che i dischi rimasti sono ammucchiati incredibilmente uno sopra l’altro come se fossero dei piatti da lavare. “Che tristezza”, penso. Ciononostante sposto il primo album, il secondo, il terzo e così via, fino a quando mi accorgo che non c’è nulla di nuovo (e in buone condizioni) che possa interessarmi. Allora faccio un passo indietro e rivolgo lo sguardo verso il “reparto film”, ovvero un’enorme cesta posizionata sotto un bancone di legno su cui sono sistemati una quantità abnorme di suppellettili. Mi faccio il segno della croce, mi abbasso e mi introduco lentamente nel “reparto” evitando di dare una capocciata al bordo superiore del tavolo. Giunto in prossimità della cesta inizio, velocemente, l’attività di “rovistatore”. Nel frattempo, però, una micro zanzara ha provveduto a pungermi sul capo perfettamente glabro. “Maledetta!”, sussurro. Passano soltanto pochi secondi e già sento un lieve bruciore in prossimità della tempia destra. Mi vien voglia di grattarmi ma desisto e, imperterrito, continuo a frugare nel grosso contenitore. “Questo no, questo sì, questo mah…” Nel frattempo inizia a mancarmi il respiro; sotto quel bancone c’è così tanta polvere da restarci secco. Ancora un po’ e anch’io rischio di diventare parte integrante della chincaglieria del negozio. Faccio l’ultimo sforzo e vado avanti, cercando di non far crollare l’intero e precario ambaradan che mi sovrasta. “Ecco fatto!”, esclamo. Le conseguenze dell’amore, L’uomo delle stelle, Mediterraneo e Smoke, sono questi i film in DVD che, ancora sigillati, decido di mettere in salvo. Con non poche difficoltà indietreggio a testa bassa, con le gambe piegate e in punta di piedi. Dopo un paio di metri finalmente mi alzo e tiro un sospiro di sollievo. Tutto attorno a me sembra ancora perfettamente intatto. Allora mi incammino verso la cassa, pago la modica cifra di 4 euro ed esco dal negozio decisamente appagato. A volte basta poco per sentirsi bene.

Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino (2004)

L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore (1995)

Smoke di Wayne Wang (1995)

Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991)



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I Blur a Roma (29.07.2013)

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Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree si presentano sul palco di Rock in Roma con evidente ritardo: sono infatti passate da poco le dieci e ancora nessuna traccia dei magnifici quattro. Il pubblico dell’Ippodromo delle Capannelle – affollato come non si era mai visto in questi giorni di festival – è visibilmente impaziente, complice anche un’afa davvero insopportabile. E proprio quando l’agitazione sembra che stia travalicando il limite, ecco che i Blur fanno il loro ingresso con Girl & Boys che fa esplodere in un boato assordante spalti e platee, e tutti, improvvisamente, si scrollano di dosso il peso della calura e delle lunghe ore di attesa. Albarn è in uno stato di forma eccellente: canta, saltella e rinfresca le prime file gettando loro l’acqua contenuta nelle bottigliette messe a disposizione del gruppo inglese. Di lì a poco è l’inizio dell’estasi: una vera bolgia di piacere fatta di cori e suoni al fulmicotone che, subito dopo, prosegue con Popscene fino a raggiungere l’apice con Parklife. C’è feeling. C’è follia. C’è voglia di divertimento. C’è un grande pubblico composto da giovani e meno giovani, ma soprattutto c’è una grande band questa sera a Roma. Senz’ombra di dubbio una delle migliori formazioni della storia del pop inglese. Quattro personaggi che dal vivo hanno saputo mettere in evidenza un’attitudine punk figlia di quell’Inghilterra audace, ribelle, stravagante e trasgressiva che ben conosciamo. Ecco perché sono i Blur i migliori eredi della scena pop rock britannica di questi ultimi vent’anni. Lo hanno dimostrato con un’ora e mezza abbondante di concerto in cui non hanno mai abbassato la tensione. Lo hanno fatto divertendosi e facendoci divertire, fino a far deflagrare l’Ippodromo delle Capannelle con Song 2, canzone nota anche ai profani che chiude meravigliosamente e in maniera pirotecnica, almeno per chi scrive, questa edizione di Rock in Roma 2013. God save the Blur.

Qui l’intera setlist del concerto del 29.07 a Rock in Roma 2013.

Qui, invece, le foto.



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I Sigur Rós a Roma (28.07.2013)

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Nonostante certuni continuino a considerare i Sigur Rós come un gruppo “noioso”, “soporifero” o “lagnoso” (spesso sulla base soltanto di qualche ascolto random), ogni live della formazione islandese si rivela sempre uno spettacolo coinvolgente ed emozionante, come pochi se ne vedono in giro. Ne è l’ennesima conferma l’esibizione tenutasi ieri a Rock in Roma 2013. Circa due ore di show che hanno ipnotizzato il pubblico dell’Ippodromo delle Capannelle gremito al di sopra di ogni (nostra) aspettativa. Un concerto catartico e dall’impatto sonoro “devastante” dove Jónsi & soci (oramai senza neanche Kjartan Sveinsson) hanno eseguito parte dei brani dell’ultimo lavoro in studio (Kveikur) ma anche alcune delle loro canzoni memorabili come Olsen Olsen e Hoppípolla. Al resto, invece, ci hanno pensato le suggestive proiezioni video e una splendida quanto semplice scenografia fatta di lampadine, accese, messe sull’estremità di un’asta e sistemate qua e là sul palco. Insomma, anche questa volta, con la complicità di fiati e archi, i Sigur Rós hanno dimostrato di essere una vera e propria band da palco capace di dar vita a un concerto incantevole e allo tempo stesso dilaniante.

Qui l’intera setlist del concerto del 28.07 a Rock in Roma 2013.

Qui, invece, le foto.

Setlist – qui



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Neil Young & Crazy Horse a Roma (26.07.2013)

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Diciamoci subito la verità: non capita spesso di andare a vedere un concerto rock, così travolgente ed emozionante, come quello che Neil Young e i Crazy Horse hanno tenuto ieri seri a Roma, soprattutto se consideriamo che siamo nel 2013, ovvero in piena tracimazione “indie”, e che i quattro (Young, Talbot, Molina e Sampedro) hanno una media di ben 68 anni. Sì, avete letto bene: 68 anni!

Ragion per cui ci rechiamo all’Ippodromo delle Capannelle un po’ frastornati, con un sentimento abbastanza combattuto e persino una domanda nella testa: “Come saremo noi alle soglie dei settant’anni?” Mah! Lasciamo perdere… Arriviamo in largo anticipo e, nonostante le chiacchiere e qualche birra, lo sguardo è quasi sempre rivolto sulle lancette dell’orologio. Fa caldo, anzi, caldissimo. L’attesa è lunga e ci piace immaginare il “giovane” Neil sulla spiaggia di Ostia che guarda il mare in perfetta solitudine. Ci rendiamo conto, però, che la fantasia ci ha preso d’assalto, a tal punto da farci dimenticare che ad aprire il live del cantautore canadese ci sarà nientemeno che Devendra Banhart.

Un Devendra che si presenta con i capelli corti e la barba sfoltita e che dà vita, per tre quarti d’ora, a uno show elettrico, piacevole e impeccabile, ma forse – e ribadiamo forse – non proprio adeguato a una platea come quella di Rock in Roma. Il talento c’è tutto, il pubblico apprezza e si diverte, ma si percepisce immediatamente che, questa sera, sono tutti qui solo per ascoltare quella voce inconfondibile che viene dall’America del Nord e per essere travolti da quell’onda sonora fatta di folk, psichedelia, noise e tanta ma tanta poesia. E con Love and Only Love succede proprio così: bastano i primi accordi e la folla va subito in visibilio. È un vortice di chitarre distorte e un Neil Young, vestito di nero, che canta e suona da Dio. Il cuore batte forte. La gente lo acclama canzone dopo canzone, da Powderfinger a Hole in the Sky che introduce la meravigliosa Red Sun, passando per Heart of Gold, Singer Without a Song e addirittura una cover di Bob Dylan (una Blowin’ in The Wind suonata e cantata meglio di Mr. Zimmerman), brani che sembrano concedere un po’ di respiro alla serata.

Terminata la parte folk e acustica, si torna a cavalcare sulle note di Ramada Inn e Sedan Delivery sospinte dall’energia e dall’entusiasmo di una formazione sempre puntuale, quantunque non estremamente virtuosa; del resto il rock che piace a noi non ha bisogno di virtuosismi, ma semplicemente di cuore. Quello stesso impulso e quegli stessi sentimenti che animano Surfer Joe and Moe the Sleaze e Rockin’ in the Free World (quest’ultima cantata a squarcigola dagli spettatori) che assieme a Cortez the Killer e Cinnamon Girl suggellano definitivamente, dopo circa due ore, l’esibizione di questi “grandi vecchi del rock”, mentre da lontano scorgiamo uno striscione con su scritto: “Every morning comes the sun” (verso estrapolato da Ramada Inn). Ecco, potrebbe essere proprio questo il leitmotiv con il quale torniamo a casa sereni e decisamente appagati. (Redazione Musicletter.it)

Qui l’intera setlist del concerto del 26.07 a Rock in Roma 2013.

Qui, invece, le foto.

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Gli Atoms for Peace a Roma (16.07.2013)

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Quello degli Atoms for Peace a Rock in Roma 2013 è stato un concerto dai suoni potenti, ipnotici e tribali capace di mescolare rock ed elettronica come pochi altri finora sono riusciti a fare. E pensandoci bene non poteva essere altrimenti visto che a far parte della superband ci sono personaggi come Flea, Mauro Refosco, Nigel Godrich, Joey Waronker e Thom Yorke, musicisti dal talento e dalle qualità inequivocabili che non hanno affatto disatteso il pubblico romano accorso numeroso all’Ippodromo delle Capannelle. Un’esibizione intensa e allo stesso tempo emozionante iniziata sulle note di Before Your Very Eyes e proseguita con Default, The Clock e Ingenue che, nel giro di venti minuti circa, mettono subito in chiaro uno stato di forma eccellente, con particolare attenzione a Yorke (canottiera e codino) e Flea (torso nudo e “pantaloncini”, se così si possono chiamare) che non smettono un solo minuto di agitarsi. È una performance catartica e travolgente, con la voce magnetica del leader degli Atoms for Peace che si rivela il “collante” perfetto di un muro sonoro in grado di fondere i Radiohead (quelli sperimentali, per intenderci) con l’Africa di Fela Kuti o, meglio ancora, con l’afrobeat: una specie di “tribalismo tecnologico” che, oltre a rapire il cuore, riesce anche a far dimenare i sederi; non a caso, infatti, Thom Yorke e soci hanno deciso di far aprire i propri concerti dagli Owiny Sigoma Band, gruppo londinese/keniota che coniuga magnificamente elettronica e musica africana. Insomma, quello di Roma è stato un live che non ha mai perso di intensità e pathos, nonostante un imprevisto tecnico che ha indotto la band ad abbandonare il palco per una decina di minuti; per poi riappropriarsene “alla grande” con Skip Divided, Paperbag Writer e Amok (giusto per citarne alcune), fino a chiudere la bella serata capitolina con Black Swan, sotto un cielo stellato e con un pubblico visibilmente soddisfatto.

Setlist – qui



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