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Cat Power a Roma (08.07.2013)

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Cat Power sale sul palco della Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma con circa un’ora e mezza di ritardo dopo che un acquazzone nel pomeriggio aveva provocato non pochi problemi all’organizzazione dell’evento, facendo così slittare il soundcheck oltre le 21. Ad aprire il live della musicista e cantante americana c’è il bravo Scott Matthew che, solo soletto, intorno alle 22, intrattiene gli spettatori romani con alcune deliziose cover tratte dal suo ultimo album intitolato Unlearned. Il pubblico è abbastanza numeroso e tra i presenti si scorgono persino Nanni Moretti e Asia Argento. Il primo, lo incontriamo seduto al bar con un trench verde mentre aspetta l’apertura dei cancelli; la seconda, invece, la intravediamo in prima fila che chiacchiera divertita con degli amici subito dopo l’esibizione della nostra indie woman preferita. Esibizione che prende il via con The Greatest e che trova subito l’entusiasmo dei partecipanti, ma che nel giro di un’ora viene sospesa dalla stessa Charlyn Marie Marshall (così all’anagrafe) che dice di avvertire un rumore di fondo insopportabile. Un suono che le spezza il cuore, precisamente. È impaziente: fuma, canta e sembra anche soffrire di un dolore alla gamba. Improvvisamente, però, sbotta e abbandona la scena. Il pubblico si divide: c’è chi l’acclama e chi si innervosisce. Noi, invece, che la “conosciamo bene” e che l’amiamo così com’è, restiamo in trepidante attesa, anche se – a voler esser sinceri – dalla galleria non abbiamo avvertito alcun suono fastidioso. Trascorrono quindici minuti, forse anche venti, e la cantautrice americana torna sul palcoscenico fumando e cercando di controllare, in prima persona, ogni singolo strumento e ogni singola apparecchiatura in funzione. Lo fa mentre canta alcuni brani del suo ultimo lavoro in studio, Sun, e tentando di scusarsi con il pubblico. Tuttavia, il concerto va avanti così, oltre la mezzanotte, quasi in maniera delirante e improvvisato. Non c’è più nulla da fare: questa è Cat Power. O la si ama incondizionatamente o la si odia. Noi abbiamo deciso di amarla, non solo per il suo talento, ma anche per la sua anima fragile e indocile.



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The National a Roma (01.07.2013)

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I National oramai sono una certezza. Un crescendo di personalità e talento che va confermandosi album dopo album, a partire dall’omonimo esordio del 2001 fino all’ultimo acclamato Trouble Will Find Me (2013), disco che è riuscito a mettere d’accordo un po’ tutti, persino quella parte di pubblico e di critica specializzata che fino a qualche tempo fa nutriva ancora qualche dubbio nei confronti della formazione americana. Del resto, con quest’ultima fatica, Matt Berninger e soci sembrano quasi essersi sdoganati dal quel concetto strettamente “indie rock” a cui molti gruppi oggigiorno sembrano essere legati. Sarà forse perché i National, pur suonando in maniera originale, alternativa e del tutto attuale, riescono a racchiudere quel misto di fervore e dannazione che ricorda tanto Johnny Cash quanto Ian Curtis: due personaggi oscuri ed enigmatici che sembrano guidare Berninger in questo percorso musicale che unisce, in maniera decisamente trasversale, l’America con l’Inghilterra, il folk con la new wave. E la conferma di questa nostra sensazione la si ha immediatamente in questa fresca serata di fine giugno presso un’affollata Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, dove la band statunitense si esibisce al gran completo e persino con una sezione fiati. La gente è impaziente e non vede l’ora di ascoltarli dal vivo. Ad attenderli ci sono anche quelli come noi che così giovani, almeno esteriormente, non lo sono più. In ogni caso, l’attesa è breve: si parte subito con Squalor Victoria ed è subito ovazione. Seguono I Should Live In Salt, Don’t Swallow The Cap fino ad arrivare a Sea Of Love, momento in cui Berninger si avvicina al sottopalco richiamando l’attenzione dei sostenitori più infervorati e facendo saltare l’ordine delle prime file. Non c’è dubbio: è delirio. Ecco quindi che l’esibizione prende anima e calore mentre sullo sfondo del palco vengono trasmesse delle splendide “video installazioni”. È la volta poi di I Need My Girl e Sorrow che sono così belle da straziarti il cuore, a differenza di Abel e Graceless che riescono, invece, a infiammare gli animi dei presenti, con il frontman dei National che di lì a poco scenderà a cantare giù in platea con non poche difficoltà per i tecnici. È uno spettacolo entusiasmante, con i due chitarristi, Bryce e Aaron Dessner, quest’ultimo alle prese anche con le tastiere, che incitano e coinvolgono i partecipanti, mentre Scott e Bryan Devendorf, rispettivamente basso e batteria, non perdono un solo colpo. Fake Empire, infine, chiude la prima parte dell’esibizione, ma saranno Heavenfaced, Humiliation, Mr. November, Terrible Love e una versione acustica di Vanderlyle Crybaby Geeks, cantata all’unisono con il pubblico, a spegnere le luci di questa indimenticabile domenica d’estate. Due ore di musica rock. E scusateci se questa volta abbiamo deciso di togliere di mezzo l’aggettivo “indie”.



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Pillole quotidiane: Isis di Bob Dylan

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Mi alzo, prendo il solito caffè, faccio il solito giro e infine entro nel solito negozio d’antiquariato. Raggiungo il solito reparto e scopro una vecchia copia in vinile di Desire. L’afferro e la guardo attentamente: è in ottime condizioni. Non esito un istante e mi dirigo immediatamente verso la solita cassa. “Sono 4 euro”, dice il commesso. “Ecco a lei”, rispondo. Poi torno a casa ed esprimo il solito desiderio. Chissà cosa avrebbe detto Isis. (Luca D’Ambrosio)


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Pillole quotidiane: La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.

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La grande bellezza è un ambiente mondano e pieno di contraddizioni dove ipocrisia, esibizionismo, decadenza e superficialità regnano sovrani assieme allo splendore dell’arte e dell’architettura. La grande bellezza è il luogo della cultura ostentata in cui sacro e profano si mescolano grottescamente in quell’angosciante e quotidiano stillicidio che è la ricerca della verità e di se stessi. La grande bellezza è un’opera barocca e dalle tinte caravaggesche che, oltre a svelare il fascino della notte, mostra l’unica certezza della vita: la morte. La grande bellezza non è altro che un’illusione d’amore o, forse, soltanto un’altra conseguenza dell’amore. (Luca D’Ambrosio)




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Pillole quotidiane: Concrete Sky di Beth Orton

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Sono circa due mesi che piove. Quasi ogni maledetto giorno: dal mattino alla sera. E sembra che dio si sia quasi dimenticato della bella stagione, del profumo dei fiori, del canto degli uccelli e di questo inizio di Primavera. Sopra la mia testa c’è soltanto un cielo grigio, così denso e compatto che sembra una lastra di cemento. Mi sento attonito, smarrito e non faccio altro che ascoltare Concrete Sky di Beth Orton, l’unico modo per salvare, anche quest’oggi, la mia fottuta anima. Smetterà di piovere? (Luca D’Ambrosio)


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Pillole quotidiane: Time To Run di Lord Huron

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Oggi mentre ero in fila dal medico sono incappato, sfortunatamente, in una discussione tra due giovani rampanti informatori farmaceutici filo berlusconiani. Non ce l’ho fatta. A un certo punto, dopo un breve scambio di battute, sono dovuto scappare. Erano estremamente insopportabili. Banali e scontati, allo stesso modo di quelli che parlano di socialismo e rivoluzione il sabato sera mentre bevono una birra e fumano una sigaretta. Lo giuro: da grande farò il bandito. (Luca D’Ambrosio)

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Pillole quotidiane: There is a Valley di Bill Fay

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Il 27 gennaio è la giornata della memoria. Il giorno in cui le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento ubicato nella piccola cittadina polacca di Oświęcim (Auschwitz in lingua tedesca), luogo simbolo della follia nazista nonché della malvagità umana. Era il 27 gennaio del 1945 quando l’Armata Rossa entrò nel campo di sterminio tedesco ponendo fine a quell’assurda carneficina di ebrei perpetrata dalla Germania nazista di Hitler. Furono tra i 5-6 milioni le vittime di quell’abominevole genocidio. Fu l’Olocausto, la Shoah, una delle pagine più brutte della storia dell’umanità. Ed è per questo che anch’io, oggi, mi sento in dovere di commemorare la Giornata della Memoria. Però lo faccio a modo mio, ovvero con la “musica che amo” e in particolar modo attraverso una delle canzoni che più di ogni altra adoro, vale a dire “There is a Valley” di Bill Fay. Un brano contro la guerra, contro il razzismo e contro ogni forma di prevaricazione e violenza. Una canzone per non dimenticare non solo l’Olocausto ma tutti quei crimini e quei soprusi commessi contro l’umanità in Cambogia, in Ruanda, in Bosnia… (Luca D’Ambrosio)



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Pillole quotidiane: Cherry dei Chromatics

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Passo intere giornate a spremermi le meningi per cercare di trovare una soluzione a questo o quell’altro problema. Mi fermo, penso e ripenso, rischiando di mandare in fumo il cervello, o quel poco che rimane, mentre il tempo trascorre inesorabilmente. Poi, per una strana coincidenza, mi capita di ascoltare Cherry dei Chromatics e mi rendo conto che una soluzione c’è sempre, perché in fondo, come diceva Jacques Prévert, “la vita è una ciliegia”. (Luca D’Ambrosio)



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Pillole quotidiane: Some Things Last A Long Time di Daniel Johnston

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Ci sono cose che ti porti dentro e che mai e poi mai nessuno riuscirà a vedere, e tantomeno a giudicare. Cose che durano tutta la vita, insomma, come “Some Things Last A Long Time” di Daniel Johnston che dedico a tutte quelle persone che si sentono “indie” così come sono, anche senza farsi il risvoltino ai jeans, per esempio. (Luca D’Ambrosio)

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Pillole quotidiane: Either Way dei Wilco

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Mi sveglio e mi accorgo di essermi spostato soltanto di un centimetro. Quel poco, però, per scorgere dalla finestra che anche oggi il sole splende alto. Come al solito a darmi manforte ci sono i miei dischi, i miei libri e la mia scrivania, benché i miei ricordi siano ancora lì, immobili e imperterriti, posti a sentinella del mio letto. Poi chiudo gli occhi, per un istante, e ripenso alle parole di “Either Way” dei Wilco e tutto, improvvisamente, diventa così normale e rassicurante. (Luca D’Ambrosio)

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