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Intervista agli Offlaga Disco Pax

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GIOCO DI SOCIETÀ: INTERVISTA AGLI OFFLAGA DISCO PAX di Luca D’Ambrosio
Senza dubbio con questa difficile terza prova gli Offlaga Disco Pax ci hanno regalato uno dei dischi italiani più belli del 2012. Con “Gioco di società“, infatti, il trio reggiano ha confermato “quella definitiva maturità artistica da tanti agognata” (Alessio Zago) realizzando, per chi scrive, un “piccolo” capolavoro italiano. Ne abbiamo parlato con i diretti responsabili del progetto ODP (Enrico Fontanelli, Daniele Carretti e Max Collini) attraverso una lunga e, speriamo, piacevole e interessante intervista. Buona lettura.
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Eccovi giunti alla terza prova. Soddisfatti del risultato finale?
(Enrico Fontanelli) Dopo almeno un paio di mesi di full immersion tra registrazioni e mix mi sono un poco separato dal disco finito per dedicarmi alla dimensione live, e sì, i pezzi funzionano, per me e per chi viene ad ascoltarci, almeno così pare. È una bella soddisfazione.

(Daniele Carretti) Diversamente che per gli altri album è trascorso molto poco tempo tra scrittura, stesura e registrazione dei brani. Alla fine comunque il risultato finale dell’aver lavorato in tempi così “stretti”, cosa a cui siamo poco abituati, è stato a mio parere ottimo. Sulla distanza direi che il disco funziona.

(Max Collini) Avevo pronto un altro paio di testi che con un poco più di tempo avremmo potuto lavorare per allungare il brodo, ma il piano era “Lato A + Lato B” come in un vinile classico di quarantadue minuti e credo che il disco faccia il suo dovere benissimo così.

Perché “Gioco di Società”?
(Enrico Fontanelli) Da un paio di anni, dopo una visione televisiva notturna in cui appariva fugace, mi ero messo alla ricerca del gioco da tavolo “Corteo”, di cui troverete senz’altro qualche informazione online. Una volta avuto in mano una confezione ho valutato prima di tutto il termine che dà nome al gioco come possibile titolo del disco. Poi dentro qualcosa mi ha detto che “gioco di società” nella sue molteplici chiavi di lettura e popolarità di termine era forse dal punto di vista politico meno forte ed immediato, ma anche più consono al nostro lavoro ed ai suoi contenuti. Mi ė scappato di bocca durante una chiacchierata in sala prove, ho visto Max sobbalzare e ho pensato: “Ok, ciao Corteo, benvenuto Gioco di Società”. L’idea di citare il gioco stesso nelle grafiche è stata conseguente.

(Max Collini) Mi pare un titolo con diversi significati possibili, decisamente coerente col nostro spirito e con i contenuti dell’album e dell’artwork che ne è conseguito. Mi piace molto e quando Enrico lo ha proposto l’ho approvato immantinente.

Ancor prima di registrarlo, qual è stato il momento in cui avete pensato e messo a fuoco “Gioco di Società”?
(Enrico Fontanelli) Messo a fuoco solo verso la fine, con in mano una serie di demo di qualità certo scarsa, ma che ascoltati oggi rendono l’idea per il 70% del risultato finale, abbastanza incredibile se penso che non servivano più di un paio di prove per brano al fine di delinearne gli aspetti.

(Max Collini) Sostanzialmente tutta la scrittura dei brani è stata fatta nel 2011 e questo vale anche per molti dei testi, soltanto un paio infatti hanno origine precedente e anche quelli sono stati poi rivisti in modo significativo durante la lavorazione dei brani. Anche se la distanza temporale tra Bachelite e Gioco di Società è di quattro anni in realtà l’album è nato in un periodo abbastanza breve.

Avete incontrato qualche difficoltà nel realizzarlo e nel farlo suonare così come lo avevate pensato?
(Enrico Fontanelli) No, solo un paio di difficoltà nell’interpretare la mia scrittura in appunti presi mesi prima… Scherzi a parte, ci siamo affidati ad Andrea Rovacchi, di cui conoscevamo il lavoro svolto sui dischi dei Julie’s Haircut. Sia dal punto di vista umano che nel modus operandi ci siamo trovati in ottima sintonia. Il disco è registrato su nastro magnetico, ha pochissima post produzione, e per rendere l’idea, dopo tre missaggi diversi di “Parlo da solo” si è deciso di scegliere il rough mix con cui eravamo tornati a casa la notte del primo giorno di studio. Un “buona la prima” insomma.

(Daniele Carretti) Come per i dischi precedenti abbiamo suonato quello che riusciamo a suonare senza fare troppe sovraincisioni o altro per poterlo rende live più fedele possibile. Alla fine siamo in due a suonare e aggiungere strumenti su strumenti ha poco senso se poi quello che possiamo suonare realmente è quello che ci permettono 4 mani e 4 piedi per i pedalini. Direi che il lavoro di studio ha delineato perfettamente quello che alla fine volevamo ottenere.

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Dai testi alle musiche, c’è stato per caso un tipo di approccio diverso rispetto ai dischi precedenti?
(Enrico Fontanelli) L’approccio è di certo più vicino a quello del nostro esordio, secco e realistico quindi live. Praticamente tutti i brani a parte “A pagare e morire…” sono stati composti alla presenza di tutti e tre in sala. Una volta scelto il set up di strumenti che non subisce grandi variazioni rispetto a quello del tour di Bachelite, ci siamo concentrati su quello che avevamo a disposizione. Di certo rispetto ai predecessori la scrittura è stata parecchio concentrata, circa due periodi da due mesi l’uno. Un brano a settimana, se si esclude l’introduzione dell’album.

(Max Collini) Penso che il mio modo di raccontare sia cambiato nel tempo, ma non saprei dire quanto sia voluto e consapevole e quanto frutto di naturale tendenza. Mi sembra di avere uno stile più dimesso, di cercare meno effetti speciali e aggettivazioni brillanti e di lavorare di più sulla storia in sé. Mi rendo conto che questo può rendere meno accattivante il risultato, forse, ma preferisco non forzare e rendere innaturale il mio modo di scrivere, per cui ne ho semplicemente preso atto senza nemmeno tentare di infarcire un po’ di più la carne al fuoco.

Con quest’ultima fatica avete avvertito il peso di una maggiore responsabilità?
(Enrico Fontanelli) Per me responsabilità va a braccetto con onestà, verso se stessi e verso l’esterno. Dunque nessun peso, siamo di nuovo quello che siamo, prendere o lasciare.

(Daniele Carretti) Alla fine siamo quello che siamo senza troppe forzature e responsabilità in quello che facciamo siamo sempre stati onesti e abbiamo sempre fatto quello che ritenevamo di voler fare.

(Max Collini) Avevo più ansia da prestazione per “Bachelite”, la scrittura e la realizzazione di “Gioco di Società” mi sono sembrate più rilassate e positive.

L’urgenza è stata la stessa degli esordi?
(Max Collini) Da “Bachelite” a “Gioco di Società” sono passati quattro anni. Siamo riflessivi e abbastanza lenti, non ci ammazziamo in sala prove per giorni e giorni consecutivi, ognuno di noi tre ha la sua vita fuori dal progetto e i ritmi si sono fatti più umani col tempo. Il disco nuovo è uscito quando eravamo pronti, scriviamo cose nuove quando ne sentiamo l’esigenza, facciamo tutto quasi sempre con la dovuta calma.

(Daniele Carretti) L’urgenza è la stessa del primo disco, per me, nel senso che il suonare e fare musica è prima di tutto una urgenza personale, un bisogno. Impossibile fermarsi, un po’ come per respirare. Poi chiaramente proponendo la propria musica all’esterno, ad altri, un minimo le urgenze si adattano pure ai tempi “commerciali”.

(Enrico Fontanelli) È un’urgenza differente, più consapevole dei propri limiti e dei propri mezzi, uno sguardo diverso sui contenuti, per me personalmente un cessare di trattenere.

Dal punto di vista strumentale e degli arrangiamenti “Gioco di Società” vira verso ambienti sonori sempre più elettronici e sperimentali. È solo una mia impressione oppure in quest’ultimo lavoro c’è una maggiore ricercatezza sonora che tenta, e in questo caso ci riesce alla grande, di realizzare un’estetica sempre più “disturbata” e glitch?
(Enrico Fontanelli) Non so se disturbo e glitch siano termini che farei miei se dovessi esprimermi in merito. Io vedo come una trama, composta da fili di colore e spessore diversi, e solo alla fine di un percorso di tessitura che a volte ha più a che fare col subconscio che con l’evidente posso valutare il risultato. Ho scelto volutamente di abbandonare almeno in scrittura il basso per dedicarmi interamente alle macchine, di cui solo una è nuova in famiglia. L’intento era che le parti suonassero esattamente come escono dagli strumenti, una sorta di “elettrorealismo”. Non che in questo si differisca molto da “Bachelite”, ma l’assenza di arrangiamenti esterni rende il tutto più coeso e univoco.

(Daniele Carretti) Diciamo che l’evolversi nel trovare nuove sonorità è anche un modo per crescere e provare a fare cose nuove senza fossilizzarsi sempre sugli stessi arrangiamenti e suoni. Per esempio sentivo molto meno il bisogno di suonare la chitarra, evitando di cadere sempre nelle solite cose magari già fatte in passato, per concentrarmi di più su piano e basso e fare qualcosa di diverso, almeno per quanto mi riguarda.

Ora, invece, parliamo dei testi. Dentro “Gioco di Società” c’è un altro pezzo di vita vissuta e di ricordi. Brani generazionali che rievocano racconti, situazioni e immagini di un passato non molto lontano – in fondo stiamo parlando degli anni ’80 – ma allo stesso distante anni luce, soprattutto culturalmente. Da dove nasce questa vena “passatista” dai toni così profondamente romantici, nostalgici e, per dirla alla maniera degli ODP, “sobillanti”?
(Max Collini) Io racconto storie, è la cosa che mi piace fare e che probabilmente mi riesce meglio. Parlo quasi sempre di cose che conosco in prima persona o che mi hanno comunque sfiorato lasciandomi qualcosa dentro da dire. Non credo però di essere così ossessivo sul passato, sugli anni ottanta, come certe semplificazioni descrivono. Nel disco nuovo il presente o il recente passato sono ben riconoscibili e più che in altri momenti della nostra vita artistica. Per esempio in “Piccola Storia Ultras” o in “Palazzo Masdoni” e soprattutto in “A pagare e morire…”, che ha un testo che io trovo (a suo modo) molto politico oltre che decisamente autoironico e virato all’attualità. Nessun passatismo di maniera quindi. Il mio tentativo è sempre lo stesso: descrivere quel che era con meno retorica possibile e il presente invece per sottrazione o per confronto. Tentativo, ribadisco.

Quel gioiellino di “Sequoia” racchiude un po’ il senso di quel che cercavo di dire prima, ovvero che nel vostro recente passato (che poi è anche il mio), certe diversità, certe differenze, non erano del tutto sbagliate e pericolose. Come dire? Si era meno omologati e ci si riconosceva facilmente, anche se oggi certe cose sono cambiate in meglio.
(Max Collini) Il presente è molto più confuso e indistinto, ma non credo proprio che siano morte le ideologie, semplicemente una di esse ha trionfato al punto che nemmeno ci accorgiamo più della sua esistenza, nonostante l’attuale fase di conflitto di classe non sia più a così bassa intensità rispetto a qualche anno fa.

“Sequoia” termina con un periodo degli Ustmamò che suggella alla perfezione una bellissima canzone. Come vi è venuta in mente di inserirlo? Casualità del momento o già vagava nelle vostre menti da diverso tempo?
(Max Collini) La citazione del testo di “Tannomai” degli Ustmamò è venuta fuori mentre scrivevo la prima stesura del racconto. L’idea iniziale era di narrare della cicatrice che ancora porto, anche se ormai poco visibile, sul sopracciglio destro. Poi siccome so da dove partire ma non so mai dove vado a parare la frase finale è uscita da sola, a perfetta sintesi e chiusura della storia. Per inciso ho sempre amato quel pezzo degli Ust e ringrazio Mara Redeghieri per avere acconsentito all’uso di quella frase, che io ho solo adattato venti anni dopo con un “ancora” che non fa presagire certo molto ottimismo per il futuro.

C’è poi “Tulipani” e “Respinti all’uscio”, altri due pezzi di storia contemporanea che nessun libro e nessuna TV si prenderà la briga di raccontarci in maniera così emozionale. Come nascono certe idee?
(Max Collini) Van der Velde scomparso sul Gavia e riapparso semi assiderato quasi un’ora dopo mi trovò davanti al video di casa mia nel 1988 abbastanza preoccupato per lui. Ero convinto avesse tirato dritto in un tornante e fosse finito in un burrone e rimase impresso per sempre nella mia testa. L’ascesa e la caduta nella stessa impresa sono rare e probabilmente mi attraggono questi simbolismi. Sul concerto dei Police a Reggio Emilia nel 1980 permane molta pubblicistica, ma è sempre quella di chi c’è stato. Io non ci sono andato, ahimè, e questo punto di vista mi sembrava più divertente e decisamente più congruo rispetto al nostro immaginario di riferimento. Io ed Enrico ci siamo poi tolti la voglia di vederli dal vivo 28 anni dopo, nel 2008 a Torino. Un concerto molto bello ed emozionante. Per inciso il concerto di Reggio Emilia con i suoi tumulti è rimasto molto impresso anche a Sting, basta andare a leggere sul sito ufficiale dei Police come ne parla!

Nella musica degli ODP c’è un mondo minore e ordinario ma altrettanto importante. E “Piccola storia ultras” è un po’ l’emblema di questo spaccato di società fatto di certezze e dogmi ma anche di interrogativi e contraddizioni. Pensate che la musica, soprattutto se cantata in italiano, sia un vettore fondamentale per far emergere delle verità nascoste, talvolta anche scomode, e tentare di realizzare una collettività migliore e tollerante?
(Enrico Fontanelli) “Piccola Storia Ultras” riposava in forma di testo da anni nelle nostre cartelline. Max ne ha riscritto il finale prima di uno spettacolo che divergeva dai nostri soliti, appena prima di rientrare in sala prove per terminare la stesura dei brani. Ho colto l’occasione per ribadire il mio interesse verso un testo che come dici tu è ben rappresentativo di dove ti possano portare le parole all’interno di un contesto canzone, se tradotte nella propria lingua. E senza ambire a nulla di pedagogico, vale la pena ogni tanto presentare una realtà un filo differente da quella dei soliti organi mediatici.

(Max Collini) Per quanto riguarda gli aspetti narrativi per me è già tantissimo che chi appartiene alle nuove generazioni si incuriosisca ad alcuni argomenti e trovi la voglia di approfondirli da sé, magari perché un nostro brano lo ha coinvolto abbastanza da volerne sapere di più. È noto quanto la contemporaneità sia poco conosciuta dai giovinastri odierni, spesso piallati da una scuola per nulla coinvolgente e da eccessi televisivi assai vaghi e ambigui sul recente passato di questo paese. Mi basterebbe questo, credo sarebbe già un grande risultato.

Con “Gioco di Società” sì può parlare di disco della maturità?
(Enrico Fontanelli) Con un “era ora” tra parentesi a seguire? Penso non sia mai troppo tardi per evolvere e maturare, certo il peso di due dischi alle spalle si sente, e probabilmente in maniera positiva.

(Daniele Carretti) Sicuramente siamo cresciuti e rispetto a dieci anni fa la percezione delle cose e i nostri bisogni sono cambiati. Per quanto mi riguarda ogni disco nuovo che facciamo è più maturo del precedente, ma forse semplicemente perché la mia visione delle cose cresce anagraficamente con me.

(Max Collini) Ho preso la maturità nel 1986, questo per me è il disco della vecchiaia, casomai.

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Visti i risultati ottenuti, la militanza politica di gioventù è stata, sicuramente, una buona scuola. Adesso, però, qual è il vostro rapporto con la politica?
(Max Collini) Seguo con distaccato interesse la politica di oggi, faccio fatica a sentirmi rappresentato e sono uno dei milioni di persone di sinistra annichilito dallo stato di cose esistente. La parola sinistra sembra destinata a una sorta di sopravvivenza sottoculturale, nota anche come “superstizione”. Preoccupante.

(Enrico Fontanelli) Non pervenuto (cit.)

Vi sentite un po’ la coscienza critica della sinistra italiana?
(Max Collini) Trovo che sia già molto difficile avere coscienza critica verso se stessi. Spesso veniamo presi molto sul serio, l’identificazione di una parte del nostro pubblico con quello che facciamo è fortissima e molto gratificante, ma non abbiamo alcuna tentazione pedagogica, non siamo un partito o un movimento politico, né abbiamo soluzioni preconfezionate da proporre. Ammetto però che quando capita di suonare alle feste de l’Unità o quel che ne resta, o in altri luoghi simili e legati alla tradizione della sinistra italiana, fare brani come “Lungimiranza” o “Palazzo Masdoni” dà sempre una certa emozione, ecco.

(Daniele Carretti) I testi di Max a mio parere si rifanno sempre a una politica che non c’è più da anni. Sono un ricordi di tempi in cui la politica e la sinistra erano un’altra cosa, che in entrambi i casi è scomparsa da parecchio tempo. Di politica contemporanea mi pare non ci sia molto… se non nulla. Che poi si voglia trovare in quella politica un punto di ripartenza e coscienza migliore di quella che c’è oggi, beh, in quel caso ognuno avrà una sua visione al riguardo.

(Enrico Fontanelli) Esisteranno di certo realtà più efficaci della nostra che possano passare dalla critica alla pratica della stessa.

Il segreto degli ODP, oltre all’impegno e alle qualità di ognuno di voi, va ricercato anche nella vostra amicizia e nel vostro equilibrio di gruppo?
(Max Collini) Ne parlavo con Enrico proprio in questi giorni. Abbiamo un equilibrio abbastanza solido, pur con tutti gli alti e bassi del caso, perché le nostre diversità (che credo siano poi alla base della peculiarità del progetto) hanno sempre trovato una sintesi sia artistica che personale. Siamo insieme da quasi dieci anni, non è lo stesso mondo del 2003 quando siamo nati e probabilmente non siamo le stesse identiche persone di allora. Da fuori siamo percepiti come abbastanza monolitici, ma ovviamente non è proprio esattamente così. A volte le persone ci parlano come se fossimo uni e trini, con le stesse idee, la stessa personalità, gli stessi interessi, le stesse manie. Se fosse vero mi farebbe un po’ paura…

(Enrico Fontanelli) Dopo tanti anni abbiamo imparato a schivare i difetti e godere delle qualità altrui tra di noi, e nell’umano sono forse le differenze che hanno reso possibile portare avanti questo percorso, così per quelle persone che fuoriescono dal trio ma che fanno parte della vita del gruppo.

(Daniele Carretti) Concordo con quanto sopra.

“Gioco di Società” è uscito da diversi mesi e, inoltre, avete alle spalle già tanti concerti. Come ha reagito e sta reagendo il pubblico e la critica in generale a quest’ultimo album?
(Max Collini) In generale il disco è stato accolto benissimo su entrambi i fronti. Abbiamo già superato le quaranta date con risultati lusinghieri sia sul versante delle presenze che su quello critico. Siamo stati per quattro settimane nella classifica ufficiale degli album più venduti in Italia, pur se in posizioni di rincalzo, ovviamente, ma la cosa significa che qualche migliaio di copie del cd è stata acquistata nei canali ufficiali, un dato assai positivo visto che questi canali si stanno assottigliando sempre di più. Molto lusinghiera anche la lunga permanenza nella classifica dei dischi più venduti su Amazon, a un certo punto eravamo terzi (!) dietro a Lucio Dalla e a Bruce Springsteen e possiamo immaginare la faccia di chi imbattendosi in quella classifica trovava noi davanti a Madonna (!) domandandosi chi diavolo fossero questi qui! Riscontri “commerciali” a parte, che però testimoniano quanto il disco fosse atteso da chi ci segue, dal punto di vista artistico credo si tratti del nostro miglior tour di sempre, con dentro alcuni dei nostri live più riusciti che io ricordi sia per il coinvolgimento del pubblico che per la qualità in sé dei concerti.

C’è qualcosa del disco che, suonandolo dal vivo, vi ha particolarmente sorpreso?
(Max Collini) Io ho scoperto il lato emotivo di alcuni pezzi solo sul palco durante il tour, perfino “Parlo da solo”, che ha un testo nato da un dolore sentimentale abbastanza recente, ha perso un po’ di questa doglianza di fondo per diventare qualcosa di più positivo, che non so definire. Non me lo sarei aspettato, o forse ho semplicemente superato il problema che lo ha generato e probabilmente anche la canzone ha avuto un risvolto terapeutico in questo senso.

(Enrico Fontanelli) Di certo è stato sorprendente sentire grida di entusiasmo sulle prime note di “A pagare e morire…” che chiude il concerto di questa parte di tour così come il disco. Non lo trovo esattamente il più facile dei nostri brani, così come invece è particolarmente rinfrancante da suonare alla fine di un live.

(Daniele Carretti) In realtà tutti i brani del nuovo disco, unite a quelle dei vecchi, suonano come dovrebbero. Avevo paura che si potesse percepire uno stacco maggiore tra cose vecchie e nuove, invece direi che tutto il live bene o male, dal mio punto di vista, è abbastanza omogeneo e compatto.

Originale, infine, l’artwork del vinile. Chi ha avuto l’idea?
(Enrico Fontanelli) Idea e realizzazione della stessa sono mie, di pari passi col titolo. L’idea di rappresentare la nostra città (Reggio Emilia) su di un tabellone di gioco va a figurarlo come palcoscenico ideal-reale delle storie narrate nel disco da un lato, dall’altro all’essere letto come un invito.

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Quest’anno per la prima volta avete varcato i confini nazionali andando a suonare all’estero. E il primo concerto in terra straniera siete andati a farlo addirittura a San Paolo del Brasile nell’ambito della “Mostra SESC de Artes 2012″. Mi raccontate qualcosa a tal proposito?
(Max Collini) È stato tutto molto più semplice di quanto si possa pensare. Il direttore artistico della rassegna ci ha scoperti su internet, ha colto il senso del progetto, ha verificato che fossimo una realtà consolidata e rispettata nel nostro paese e poi ha contattato la nostra agenzia di concerti per invitarci ad andare. Una lieta meraviglia anche in questo caso.

Vi hanno persino invitato a suonare sul canale televisivo brasiliano TV Record Internacional. Una bella soddisfazione. Vi siete sentiti in qualche modo ambasciatori della musica indipendente italiana?
(Max Collini) Un po’ presto per sentirsi tali, a San Paolo abbiamo tenuto il nostro primo e finora unico concerto all’estero. Prima di accettare l’incarico aspettiamo di suonare almeno a San Marino, Lugano, Capodistria e in Vaticano, poi se ne riparla.

(Enrico Fontanelli) Non abbiamo proprio le caratteristiche del gruppo medio indie nostrano, non credi?

Avete mai pensato di incidere “Soap Opera” e inserirla ufficialmente in un nuovo album?
(Max Collini) È uno dei nostri primissimi brani, risale alle origini (2003), ma il testo non mi è mai davvero piaciuto. È uno dei nostri pochissimi scarti e ci sarà un perché!

(Enrico Fontanelli) Mai dire Cianciulli.

Bene, ora cosa state pianificando?
(Max Collini) Siamo partiti con il tour autunnale di Gioco di Società, dovrebbe uscire poi un video nuovo ad accompagnare il secondo singolo tratto dall’album e poi si vedrà. Sta per iniziare il nostro terzo piano quinquennale!

(Enrico Fontanelli) Se fosse che, non si dice…

E invece costa state ascoltando?
(Enrico Fontanelli) Progetti vari su etichetta Ghost Box, Beach House, Hanne Hukkelberg, Battisti, Raymond Scott, colonne sonore varie.

(Daniele Carretti) Io ho un periodo di ritorno ad alcune cose dei Fleetwood Mac, è uscito un interessante tributo ad opera di gruppi indipendenti americani che mi ha fatto ritirare fuori i loro vecchi vinili. Nel contemporaneo Purity Ring e Wild Nothing su tutti. Di recente ho scoperto i Raein, interessante gruppo screamo italiano.

(Max Collini) Adoro i Be Forest di Pesaro, “tre ragazzi immaginari” davvero interessanti. Sono appena stati in tour per l’Europa con i Japandroids, tra l’altro. Raro in Italia trovare dei ventenni (!!!) con le idee così chiare sul suono e sulla scrittura dei pezzi.

Grazie della disponibilità e speriamo di vederci presto.
(Enrico Fontanelli) A te della cavalcata, a presto!

(Daniele Carretti) Grazie a te.

(Max Collini) Un saluto anche ai lettori di Musicletter, sempre che abbiano avuto la pazienza di arrivare fino alla fine di tutto ‘sto papiro!

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Intervista a Umberto Maria Giardini

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L’AMORE E L’APOCALISSE DELL’IMPERATRICE: INTERVISTA A UMBERTO MARIA GIARDINI di Luca D’Ambrosio
Concluso il progetto Moltheni, Umberto Maria Giardini torna sulla scena musicale indipendente con un nuovo lavoro discografico che porta il suo vero nome. Un album diverso dal solito, elettrico e psichedelico, che tuttavia non perde un solo grammo di stile, di poesia e di amore. Quello realizzato da U.M.G. è un “viaggio interiore” che abbiamo cercato di decodificare attraverso l’intervista che segue. Buona lettura.
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Umberto, iniziamo dalla fine, ovvero dalla conclusione del progetto Moltheni. Da dove è scaturita questa decisione?
Dalla necessità di resettarmi, di scrollarmi di dosso alcuni malumori legati alle persone di cui mi ero circondato nell’ultimo periodo. Tutti avvoltoi in cerca di guadagno, e basta. Inoltre credo che il progetto fosse giunto al termine naturale. Tutto nasce, tutto muore.

Lo pseudonimo Moltheni è oramai alle spalle e, al di là del successo e delle soddisfazioni che hai avuto in oltre dieci anni di carriera, c’è qualcosa del passato che conservi ancora e che hai messo dentro anche in questa nuova vita artistica?
Credo sia l’amore per la musica e per le cose fatte in una certa maniera, all’antica. Mi piace da morire tenere e osservare vecchi criteri legati a certe dinamiche passate. L’amicizia tra i miei collaboratori, le tempistiche, la minuziosità con la quale scrivo, arrangio, definisco, concludo, interpreto.

E, invece, c’è qualcosa che non vorresti affatto ripercorrere?
Un rapporto di lavoro con una Major. Mai più!

Tra Moltheni e U.M.G. c’è stato però un altro progetto: i Pineda. Dobbiamo considerarlo un episodio a se stante o un momento di riflessione e quindi il preludio di questa nuova esperienza?
Non lo so, è stato un progetto pensato, voluto e realizzato. Un disco meraviglioso, assieme alla “Dieta dell’imperatrice”, di sicuro la più bella cosa fatta in vita mia. Abbiamo impiegato svariati mesi nello scriverlo, ma il risultato è stato talmente appagante che lo rifarei senza alcun ombra di dubbio domani, sopra ogni aspettativa.

Ecco, adesso parliamo della Dieta dell’Imperatrice, il tuo nuovo lavoro discografico che hai voluto pubblicare con il tuo vero nome, Umberto Maria Giardini. Allora: quando hai iniziato a pensare a questo album?
Ho iniziato a pensare di scrivere un nuovo lavoro e in una certa maniera, quando, dopo aver visto in tour sette volte Anna Calvi, ho capito molte cose che prima non avevo lontanamente considerato, soprattutto da un punto di vista prettamente tecnico, e compositivo. Il tutto risale a poco più di un anno fa, poi il tempo è volato, veloce, implacabile. Ho impiegato circa otto mesi nello scrivere “La dieta dell’Imperatrice”, ma è andata benissimo. Confido di tornare in studio a febbraio per registrare un nuovo EP “Ognuno di noi è un po’ anticristo”.

Mi pare di aver letto che il motivo per cui sei tornato sulla scena musicale è dovuto al tuo bisogno fisico di suonare dal vivo. Vero?
Sì, anche, perché fortissimo. Non tanto per il pubblico, che mi trasmette sempre grande affetto, ma quanto per i volumi. Adoro gli alti volumi.

Qualche tempo fa, quando eri in procinto di registrare questo disco, mi dicesti che sarebbe stato un lavoro “lento ed elettrico” e con canzoni “legate al viaggio interiore dell’uomo e della donna, nonché all’apocalisse”. Beh, ascoltandolo mi pare che tu non abbia affatto torto, tranne qualche episodio come per esempio la strumentale “Il desiderio preso per la coda” e “Il sentimento del tempo” dove le ritmiche si infervorano scrollandosi di dosso una certa lentezza. Mi spieghi meglio però da dove nasce questo “viaggio interiore”?
Nasce dalla mia personale consapevolezza della sempre più marcata incomunicabilità tra gli essere umani. Oramai non ci capiamo più tra di noi, siamo destinati a distruggerci e credo che questo accadrà considerevolmente presto. L’unico sollievo che l’uomo può succhiare direttamente dalla sua volgare esistenza è dato dalla natura e dal silenzio. Ovunque c’è natura, ovunque c’è silenzio, c’è speranza.

A proposito del “viaggio interiore”, lo hai firmato con il tuo vero nome proprio perché lo senti molto più vicino a te come uomo e non solo come artista?
Non lo so, l’ho firmato così perché mi sembrava giusto, forse ovvio. Non ci sono ragioni così profonde.

Davvero emozionante “Genesi e mail” il cui testo però è anche un bel colpo allo stomaco con frasi tipo: “L’uomo è vigliacco, dice sempre no, a meno che non gli conviene”, “Femmina è la fame, maschio letame” oppure ancora “Femmina è l’amore, maschio il dolore”. Ma è proprio così? Pensi che bisognerebbe tornare alla natura?
Che tu ci creda o no, io non penso. Non so cosa si dovrebbe fare. So quello che si fa e quello che l’uomo ha distrutto e che distrugge ogni giorno, anche gettando semplicemente un pezzo di carta in terra, o lasciando una luce accesa in corridoio. Oltre a essere fuori moda e sciocchi, ecco, gli esseri umani sono diventati ai miei occhi noiosi estremamente prevedibili. Tutto quello che fanno è sbagliato e soprattutto lo si sa già prima che lo fanno.

Comunque è un disco psichedelico. Era proprio quello che cercavi?
Assolutamente sì, detesto il concetto di rock applicato alla musica. Il termine psichedelico rappresenta nel mio immaginario molte più cose, molto più reale. L’aspetto che sempre mi ha di più contraddistinto penso sia una spiccata predizione alla visionarietà. Chi è visionario, secondo me, è legittimato a non sbagliare.

C’è stato anche un cambiamento di immagine. È stato un caso?
Tu dici? Non ho più la barba, tutto qua, ma non ha alcun significato.

Rispetto al passato, c’è stato per caso un tipo di approccio diverso nel registrare questo nuovo disco?
Di diverso c’è stata la consapevolezza di fare le cose come si vogliono e, quindi, la sorpresa che tutto fili liscio quando il produttore del disco ti chiede qualcosa o quando si preme il tasto “Play”. Antonio Cooper Cupertino ha realizzato un vestito cucito a mano a quello che avevo scritto. La modella – L’imperatrice – sfila da perfetta signora.

Perché “La Dieta dell’Imperatrice”?
Perché a mio avviso la musica italiana è un Imperatrice. Lo era quando è nata nel rinascimento, poi divenne signora solenne nell’800 con i maestri della musica classica mentre negli anni ’40, ’50 e ‘60 si truccava per uscire, bellissima. Oggi è stanca perché è messa a dieta, da tutti coloro che credono di occuparsene. Gli addetti ai lavori, gli ascoltatori, i musicisti stessi. Zero cibo, zero acqua, solo schiaffi e mortificazioni.

Come sono le prime reazioni del pubblico e della critica specializzata?
Molto buone, numerose persone si sono accorte di quale raro gioiello sia questo nuovo lavoro, e io ne sono felice. Me ne accorgo di come viene recensito ma soprattutto dal linguaggio dei giornalisti, stranamente elegante. Tremavo all’idea di essere considerato l’autore di dischi come quelli degli Afterhours, per esempio, dove tutto è bello perché è “After”. Rabbrividisco solo all’idea. Felice di essere criticato, vuol dire che ho azzeccato tutto, con i miei limiti di uomo e musicista, non di manager della musica alternativa italiana.

A proposito di Anna Calvi, so che l’anno scorso uno dei tuoi dischi preferiti è stato proprio il suo esordio. Cosa ti affascina del debutto di questa giovane e bella musicista inglese?
La preparazione, il suo gusto retrò, l’eleganza… Al mondo non esistono solo Bandabardò e dei Modena City Ramblers. (Ndr, sorride)

Avresti anche dovuto aprire il suo concerto di Roma, poi saltò tutto…
Già, vero, ma non per colpa mia…

Cos’altro stai ascoltando in questi giorni?
Come sempre ascolto molto jazz, ma anche St. Vincent, PJ Harvey, Other Lives, House of Wolves, Nina Simone, Umberto Bindi… Nell’ultimo mese e mezzo ho ascoltato soprattutto questa roba, una cornice perfetta per l’arrivo dell’autunno, tanto desiderato.

Hai avuto modo di testare il nuovo disco dal vivo?
No, non ancora, ma le prove pre-produzione live che stiamo facendo a Bologna a porte chiuse mi rassicurano.

Come e da chi sarà composta dal vivo la tua band?
Saremo in quattro. Marco Marzo Maracas alle chitarre e pedali, prof. Giovanni Parmeggiani al piano Rhodes e organo, Cristian Franchi alla batteria. Pochi, ma buoni.

C’è anche un nuovo sito, visto che quello di Moltheni ormai non esiste più?
Certamente, è andato on-line proprio qualche giorno fa. È www.umg-music.com,un sito molto minimale e scarno, e mi piace cosi. Ci abbiamo lavorato io e Nicola Santoro, e siamo contenti del risultato ottenuto.

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Moon Duo al Muzak di Roma (01.11.2012)

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Un’ora abbondante di suoni psichedelici ed elettronici quelli messi in scena dai californiani Moon Duo nel piccolo e angusto Muzak di Roma, poco più di una cantina riempita all’inverosimile di bella gente e amplificatori. L’attesa è abbastanza lunga e per questo abbiamo il tempo di mandare giù qualche long drink disquisendo di neopsichedelia e krautrock, Suicide e Spacemen 3, My Bloody Valentine e Warlocks. Intanto, tra una chiacchiera e l’altra, ci accorgiamo che mancano pochi minuti alle 23 e 30. Alziamo lo sguardo e vediamo farsi spazio tra la folla, assiepata giusto a qualche centimetro dal palco e dalla strumentazione, Erik “Ripley” Johnson e Sanae Yamada. Una veloce regolazione alle apparecchiature e si parte subito con Sleepwalker, brano d’apertura del loro ultimo lavoro in studio che coinvolge immediatamente il pubblico in una sorta di danza ipnotica e allucinogena. Di lì a breve sarà un muro sonoro fatto di chitarre distorte, battiti elettronici e voci riverberate. Eseguono gran parte dei brani dell’ultimo disco, Circles, come è ovvio che sia, con la gente che non smette di agitarsi e che sembra essere caduta in una specie di trance. Si arriva a fine concerto con un senso di catarsi. Allora ci dirigiamo verso Ripley e Sanae e chiediamo loro se sono contenti della serata romana. Rispondono, quasi all’unisono e con i volti estasiati, “Yeah”. E così, il tempo di fare qualche foto e di acquistare un paio di vinili, ripartiamo in preda agli ultimi rantoli psichedelici. Questa sera Roma ci sembra San Francisco. (L.D.)

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Luca D'Ambrosio

Advance Base – A Shut-In’s Prayer (2012)

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Advance Base è il nuovo progetto del californiano Owen Ashworth, musicista attualmente con dimora a Chicago, Illinois, meglio conosciuto sotto la sigla CFTPA (Casiotone for the Painfully Alone) con cui ha dato vita a cinque delicatissimi album indie pop a bassa fedeltà e dalle strutture elettroniche. Più o meno la stessa strada intrapresa con questo nuovo percorso artistico che lo vede impegnato in un cantautorato lo-fi ricoperto di quisquilie sonore ed effetti vintage. A Shut-In’s Prayer è infatti un album registrato sia in casa che in sala prove con il suo vecchio piano rhodes 54. Dieci canzoni dal sapore nostalgico e malinconico che raccontano amori perduti, ricordi d’infanzia e amare illusioni. Dieci splendidi tasselli di vita vissuta che scorrono leggeri su melodie accattivanti e su semplici ritmi di drum machine, come il valzer sognante di The Sister You Never Had che commuove e conquista il cuore più di ogni altra traccia del disco, anche se Summer Music riesce a trasmettere una sana inquietudine di fine estate. (Luca D’Ambrosio)



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The xx – Coexist (2012)

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Non erano passati di certo inosservati gli inglesi xx che, nel 2009, avevano dato alle stampe il loro omonimo esordio sulla scia di una vituperata new wave di stampo “revivalistico” già abbondantemente in voga negli anni ‘00. Ciò nonostante la giovane formazione londinese era riuscita a guadagnarsi l’attenzione e la stima non solo da parte dei “grandi nomi” della critica specializzata, ma anche dalla maggior parte di quelle piccole webzine orbitanti nel prolifico universo della musica indipendente e alternativa. Il merito di tutto questo lo si deve a un sound decisamente accattivante e magnetico che, sebbene risulti “già sentito”, riesce a essere autentico grazie a una combinazione ben proporzionata di elettronica, new wave e perfino soul quando a cantare è Romy Madley Croft e non Oliver Sim. Ora, però, alla luce di questo secondo disco e dopo diversi ascolti non è facile dirvi se questa nuova fatica degli xx avrà lo stesso successo del precedente, tuttavia quel che posso assicuravi è che Coexist vira verso territori più sperimentali ed elettronici (IDM in primis), con brani dai nuclei destrutturati tenuti insieme dall’alchimia di Jamie Smith che miscela, straordinariamente, tutti i suoni e le parole del nuovo album. E poi, sarà che Baria Qureshi non fa più parte della band, sarà il mood autunnale di questi giorni, sarà, infine, che non riesco a fare a meno di due chicche come The Angels e Swept Away, chi scrive preferisce, anche se di un pizzico, la complessità oscura e catchy di questa seconda difficile prova. (Luca D’Ambrosio)



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Lambchop – Mr. M (2012)

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Quello dei Lambchop è un mondo magico e caliginoso fatto soprattutto di note soffuse e versi quasi sussurrati. Liriche che lo stesso Kurt Wagner – anima e cuore pulsante della formazione di Nashville, Tennessee – canta con tono intimo, biascicato, bisbigliante e mai sopra le righe. Un universo soffice e al contempo dolente permeato da violini, chitarre, piano, giri di basso avvolgenti, ritmi abulici… E il risultato è un sound essenzialmente pigro e orchestrato che unisce, però, le intemperanze del country con le mitezze del soul e da cui nascono capolavori come How I Quit Smoking, What Another Man Spills, Nixon, Is a Woman e Oh (Ohio). Atmosfere fumose e melodie eleganti che tornano a fare capolino in Mr. M, un lavoro arrangiato nei minimi particolari che si libera di qualsiasi asperità sonora quasi alla maniera di Is a Woman, inseguendo una forma canzone fragile e raffinata dove traspare tutta la gentilezza, la classe e la sofferenza di Kurt Wagner, compreso il dolore per l’amico scomparso Vic Chesnutt al quale è stata dedicata quest’ultima produzione. Basteranno infatti le note iniziali di If Not I’ll Just Die per essere rapiti della voce e dalla poesia di questo grandissimo uomo e artista che, ancora una volta, è riuscito a essere romantico, profondo e alternativo come pochi altri. Lunga vita ai Lambchop. (Luca D’Ambrosio)



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M. Ward – A Wasteland Companion (2012)

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Ok, devo ammetterlo: M. Ward è uno di quei moderni cantautori alt-country o indie folk rock, che dir si voglia, che amo a prescindere. Vuoi per quel fulminante debutto intitolato Duet for Guitars #2 del 1999, ripubblicato diversi anni dopo, e vuoi anche per quel “micidiale” uno-due servito agli inizi degli anni zero (sto parlando di End of Amnesia del 2001 e Transfiguration of Vincent del 2003). Poi venne Transistor Radio, nel 2005, e l’innamoramento fu totale, con il musicista proveniente dalla scena indipendente di Portland, Oregon, che suonava quasi alla maniera di John Fahey e che sembrava muoversi sull’asse Will OldhmanKurt WagnerBurt Bacharach. Il resto, invece, è storia di questi ultimi anni: Post-War (2006), Hold Time (2009) ma soprattutto il progetto artistico di natura country pop con l’attrice e cantante Zooey Deschanel a firma She & Him. Una collaborazione che sembra abbia influenzato, almeno in parte, quest’ultimo lavoro discografico di Ward il quale palesa una personale e sospirata felicità basata sull’amore e sulle cose semplici della vita, dando vita a canzoni folk pop dal piglio romantico e cristallino (Primitive Girl e Sweetheart su tutte) che all’occorrenza, però, riescono a scendere nelle cavità più profonde del cuore e dell’anima (Pure Joy, Wild Goose e Crawl After You). Insomma, ascoltando A Wasteland Companion si ha la sensazione che Ward stia cercando di individuare una nuova cifra stilistica pur mantenendo un piede ben saldo nel passato. E se queste, amici miei, sono le premesse, prenoto fin da ora il prossimo disco solista del mio caro e adorato cantautore americano. (Luca D’Ambrosio)

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The Clash – London Calling (1979)

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Se c’è un disco da isola deserta per antonomasia questo è, senza alcun dubbio, London Calling dei Clash. Difficile, infatti, non riuscire a tirare fuori dallo scaffale questo capolavoro della band inglese in vista di un ipotetico, quanto definitivo, viaggio di piacere. Un lavoro completo che tocca tutto, o quasi tutto, l’arco costituzionale della popular music: il punk rock della title track, il rockabilly bruciante di Brand New Cadillac, le attitudini pop di Lost in the Supermarket, le smorfie swing di Jimmy Jazz, le posture reggae di The Guns Of Brixton e Revolution Rock, il miscuglio ska e rhythm and blues di Wrong ‘Em Boyo e molto altro ancora. Un doppio vinile pieno di commistioni musicali dove trova spazio anche il combat rock di Spanish Bombs, canzone ispirata alla guerra civile spagnola combattuta tra nazionalisti e repubblicani dal 1936 al 1939. Con questa terza prova discografica Joe Strummer e Mick Jones (che scrivono la maggior parte dei brani) realizzano, con il supporto della sezione ritmica formata da Paul Simonon e Topper Headon e sotto la produzione di Guy Stevens, una e vera e propria miliare della storia del rock. Diciannove tracce dall’inconfondibile spirito ribelle custodite all’interno di una ormai celebre copertina che, oltre a ricalcare la grafica del primo album di Elvis Presley, ritrae Simonon mentre spacca il basso sul palco. Credo che sia arrivato il momento di andare in vacanza. (Luca D’Ambrosio)




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Recensione: R.E.M. – Lifes Rich Pageant (1986)

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Lifes Rich Pageant è un disco che mi ha fatto cambiare il punto di vista sulla vita, sul mondo e sulla musica. È stato il vinile della mia personale svolta, diventando con il passare degli anni uno dei capisaldi inamovibili della mia educazione musicale e culturale. Un punto fermo del mio essere “alternativo”, così come sono alternative, e forse lo erano ancor di più quando uscirono, tutte le canzoni di questa meraviglia firmata da Berry, Buck, Mills e Stipe. Un lavoro che mette insieme il pop rock di Fall on Me, le inclinazioni punk and roll di Just a Touch, le strutture folk di Swan Swan H, l’attacco country di I Believe e persino gli smalti sixties di Superman (una reinterpretazione di un brano dei Clique che vede come lead vocal il bassista Mike Mills). Quelle della formazione americana sono canzoni che ti entrano subito nelle vene e che ti sconvolgono fin dal primo ascolto (These Days, Cuyahoga e Hyena su tutte), raggiungendo l’apice del piacere con la magnifica The Flowers of Guatemala. Prodotto da Don Gehman, Lifes Rich Pageant è il disco che, oltre a decretare l’impegno politico ed ecologista di Stipe e soci, inizierà a estendere i confini del sound dei R.E.M. che, nel giro di qualche anno, esattamente nel 1988 con Green, saranno scritturati dalla Warner Bros. Records; un passaggio, quello dalla I.R.S. alla multinazionale discografica, che non scalfirà di un solo millimetro la qualità, l’originalità e il carattere indipendente della band di Athens, Georgia. Un gruppo seminale del rock alternativo degli anni ’80 e ’90 che ha cambiato la mia visione del mondo proprio con questa quarta fatica in studio. Un album indispensabile, fondamentale, necessario, vitale, soprattutto ora che i R.E.M. si sono sciolti. (Luca D’Ambrosio)



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Recensione: Wilco – Yankee Hotel Foxtrot (2002)

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Yankee Hotel Foxtrot è il disco della svolta dei Wilco, ma anche il punto di rottura con i dirigenti della Warner/Reprise che, per una questione di budget limitato, decisero di licenziare la formazione di Chicago lasciandola senza contratto. L’album, che era già stato completato nel 2001, venne quindi messo in streaming sul sito della band americana, ma la condivisione gratuita durò ben poco perché, visto il passaparola del web, il disco ottenne le attenzioni della Nonesuch Records che decise di pubblicarlo il 23 aprile 2002 (etichetta che, manco a dirlo, qualche anno dopo entrò a far parte del gruppo Warner).

Il risultato fu decisamente sorprendente considerato che, a oggi, resta uno dei lavori più venduti del gruppo guidato dal chitarrista e cantante Jeff Tweedy. E riascoltandolo, per l’ennesima volta, non posso che biasimare quelle “teste pensanti” che, allora, ritennero questo disco un lavoro approssimativo e soprattutto poco vendibile. La prova lampante e tangibile che nella musica, così come in qualsiasi altra attività, c’è bisogno non solo di competenza ma anche di tantissima passione. Quella passione e quella sensibilità che non possono farti passare sopra a un capolavoro di simile intensità e bellezza, con canzoni come Ashes Of American Flags e Jesus, Etc. che toglierebbero il respiro anche al più algido e distratto degli ascoltatori.

Insomma, per dirla tutta, Yankee Hotel Foxtrot è l’album che ha decretato la popolarità dei Wilco, riuscendo a mettere d’accordo tutti i cultori del rock alternativo e indipendente. Giovani, meno giovani e vecchi. Uno dei dischi fondamentali degli anni zero. Anzi, della popular music. ([Luca D’Ambrosio)



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