Categorie
Luca D'Ambrosio musica

Bob Dylan – Blood On The Tracks (1975)

Bob-Dylan-.jpg
Ero adolescente e Stefano, se non ricordo male, fece un piccolo sondaggio tra i compagni di scuola per sapere quale fosse la più bella canzone d’amore mai scritta. Prima di me toccò al buon Mauro che disse: «“In Ginocchio da te” di Gianni Morandi.» Poi venne il mio turno e, senza pensarci due volte, risposi: «”You’re a big girl now” di Bob Dylan.» È con questo flashback che mi sono svegliato questa mattina e, sinceramente, non saprei spiegarmi il motivo di questo pensiero mattutino; o forse c’è, in ogni caso non è mia intenzione stare a rovistare nel passato. Resta il fatto però che Blood on The Tracks è uno dei miei dischi preferiti del menestrello di Duluth e non solo per quella abbagliante poesia che prende il titolo di You’re a Big Girl Now, ma per ogni singolo brano di questo lavoro da cui stillano gocce di sangue e di passione. Un disco, il quindicesimo per l’esattezza, che vide la luce in uno dei maggiori momenti di difficoltà, sofferenza e riflessione di Dylan in rotta di collisione con la moglie Sara Lownds, che già in passato aveva ispirato l’artista americano, e da cui nascono brani del calibro di Tangled Up In Blue e Idiot Wind che mescolano dolore, ardore e dolcezza. Un album folk rock ben arrangiato e dai suoni levigati che pur perdendo, almeno in parte, l’istintività di capolavori come The Freewheelin’ Bob Dylan (1963), Highway 61 Revisited (1965) e Blonde on Blonde (1966) – solo per citarne alcuni dei trentacinque dischi realizzati finora in cinquant’anni di carriera – non perde un grammo di profondità e trasporto. E nonostante siano passati molti anni da quel sondaggio fatto a scuola, quella canzone resta sempre una delle più belle dichiarazioni d’amore mai scritte. Con la speranza, ovviamente, che il mio amico Mauro nel frattempo abbia cambiato idea. Io, intanto, ascolterò nuovamente Blood on The Tracks cercando di capire il motivo di questa singolare reminiscenza. E allora via con la prima traccia: “Early one mornin’ the sun was shinin’ / I was layin’ in bed…” (Luca D’Ambrosio)



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento




Categorie
Luca D'Ambrosio

Cat Power – Sun (2012)

sun.jpg
Di Chan Marshall, alias Cat Power, oramai sappiamo tutto. Sia delle sue debolezze psicologiche che delle sue indiscutibili capacità artistiche che, anno dopo anno, a partire da Dear Sir del 1995 ha saputo esprimere splendidamente attraverso una miscela di canzoni oscure e rumorose ma dalle profondità folk e blues. Talento che la cantautrice originaria dello stato americano della Georgia ha poi confermato con il successivo Myra Lee e What Would the Community Think del 1996, fino ad arrivare alla sua opera d’inizio carriera più rappresentativa intitolata Moon Pix del 1998 che rivelava dei toni più riflessivi e caldi rispetto a quell’urgenza dolorosamente ribelle dei dischi precedenti. Ma sono You Are Free del 2003 e The Greatest del 2006 a consacrare l’artista americana sull’olimpo della musica indie rock internazionale. Due lavori che, in maniera diversa e senza mai perdere di tensione emotiva, segnano ancora una volta un punto di rottura con il recente passato. Un cambiamento insito nell’anima della bella e affascinante Charlyn Marie Marshall (così all’anagrafe) che a distanza di sei anni si ripete con Sun: un disco sicuramente dall’ascolto più facile, per via degli arrangiamenti edulcorati e ricoperti di battiti elettronici, ma non per questo inferiore agli altri. Anzi, quest’ultima fatica – prendendo spunto dal titolo e dalla copertina dell’album – mostra tutti i colori dell’arcobaleno con canzoni dalla scrittura impeccabile in grado di unire il passato tempestoso con l’ottimismo per il futuro. Basta ascoltare le prime tre tracce di Sun (Cherokee, Sun e Ruin) per capire immediatamente la natura e la bellezza di questo nuovo episodio firmato da Cat Power, una delle più grandi cantautrici contemporanee sempre in bilico tra forza e fragilità, come, del resto, le sue composizioni. (Luca D’Ambrosio)


Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca un volo o una vacanza conveniente.

468x60 Lente

Prenota online i voli economici eDreams!

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento

Categorie
Luca D'Ambrosio musica the best

The Underground Youth – Delirium (2011)

underground-youth.jpg
Ho un archivio musicale spaventoso e, sinceramente, pur pensando di vivere un centinaio di anni in più non sarei mai in grado di ascoltarlo tutto. Ecco, quindi, che mi tocca spulciarlo qua e là, in modalità più o meno random, per tentare di recuperare qualcosa di buono che a partire già dal primo click valga la pena di ascoltare attentamente, ma soprattutto che valga la pena di recuperare su CD o, meglio ancora, su vinile. Pertanto, armato di passione ma anche di buona pazienza, questa mattina, mentre cercavo di iniziare a stilare la consueta classifica di fine anno, sono incappato in un disco sconosciuto al sottoscritto ma decisamente coinvolgente, specialmente per chi ama perdersi in quelle sonorità tanto psichedeliche e folk quanto garage e new wave. Sì, perché questi sono i riferimenti degli Underground Youth, formazione con base in Inghilterra e con all’attivo già alcuni lavori, l’ultimo dei quali questo ipnotizzante Delirium del 2011 che ci consegna nove canzoni melodiche seppure dalle sonorità oscure e indolenti. Un disco che, manco a dirlo, parte dai Velvet Underground e s’inoltra in quelle atmosfere tipiche dei Joy Division, dei Jesus and The Mary Chain ma anche dei Mazzy Star, degli Echo & the Bunnymen, degli Slowdive e via discorrendo. Strangle Up My Mind, Silhouette e What She Does To Me sono soltanto alcuni dei brani di quel sound inconfondibile al quale alludo e che sono qui a magnificare con quest’ultima scoperta firmata Underground Youth. Interessante formazione indie rock del Regno Unito che con Dystopia (arrangiata solo con voce, chitarra acustica e armonica a bocca) riesce addirittura a strizzare l’occhio al grande Bob Dylan. Insomma, per ora un bel “mi piace” a Delirium ma, se l’eccitazione dovesse continuare a ripetersi nei prossimi ascolti, sicuramente lo vedrete anche nella mia top ten del 2011. (Luca D’Ambrosio)

Discografia
Low Slow Needle EP – 2011
Delirium LP – 2011
Sadovaya LP – 2010
Mademoiselle LP – 2010
Voltage LP – 2009
Morally Barren LP – 2009

Condividi su FB / Share on FB

Categorie
Luca D'Ambrosio musica

The War On Drugs – Slave Ambient (2011)

warondrugs.jpeg
L’ultima fatica dei War on Drugs è qualcosa di estremamente emozionante, soprattutto per chi, nonostante sia cresciuto a suon di Springsteen, Dylan e Petty, non ha mai perso il piacere della scoperta. Ecco quindi che Slave Ambient si rivela il disco giusto nel momento giusto. Il classico album che ti fa fare un salto indietro nella memoria ma anche un salto avanti nel futuro. Adam Granduciel e soci questa volta ci riescono alla grande, mettendo su un lavoro che unisce abilmente il rock mainstream, quello fatto di belle melodie e sentimenti, con quello underground e alternativo di cui ormai non possiamo più fare a meno. Dodici belle canzoni che travolgono, commuovono e riempiono il cuore di suggestioni e di turbamenti e che ci lasciano con il fiato sospeso. Da Best Nights alla conclusiva Blackwater quelli realizzati dai War on Drugs sono brani di una bellezza cristallina che uniscono folk, pop, rock e porzioni ben spalmate di beat e psichedelia. Perle assolute di cantautorato moderno e visioni nostalgiche (Brothers, I Was There e It’s Your Destiny), ma anche passaggi sperimentali come, per esempio, The Animator, Come For It, Original Slave e City Reprise che, più di ogni altra, sembrano drogarsi di atmosfere shoegaze e disturbi noise. Splendide anche Come to the City e Baby Missiles che confermano la qualità di questo nuovo lavoro della formazione americana (Philadelphia, Pennsylvania) che, ascolto dopo ascolto, dà sempre più l’impressione di unire certe cose di Bruce Springsteen, Bob Dylan e Tom Petty con quelle di band quali Ride, Slowdive e My Bloody Valentine. Il risultato è strepitoso e, parafrasando Jon Landau, possiamo tranquillamente affermare che “abbiamo visto il futuro dell’indie rock e il suo nome è The War On Drugs”. Uno dei miei 10 dischi del 2011. (Luca D’Ambrosio)

Condividi su FB / Share on FB

Categorie
Luca D'Ambrosio musica the best

I miei dischi preferiti del 2011 (10+10+5)

top-25-luca-d'ambrosio-luka.jpg
Ecco i miei dischi preferiti del 2011.

I primi dieci

Bon IverS.T.
boniver.jpg

The War On DrugsSlave Ambient
thewarondrugs.jpg

WilcoThe Whole Love
wilco-the-whole-love.jpg

Gruff RhysHotel Shampoo
GruffRhys_HotelShampoo.jpg

J MascisSeveral Shades of Why
J-Mascis_Several-Shades-of-Why.jpg

PJ HarveyLet England Shake
Let-England-Shake.jpg

William FitzsimmonsGold In The Shadow
williamfitzsimmons_goldintheshadow.jpg

The Sand BandAll Through The Night
the-sand-band-cover.jpg

The Underground YouthDelirium
The-Underground-Youth-Delirium.jpg

Sound Of RumBalance
Sound-Of-Rum-Balance.jpg

I secondi dieci

Josh T. PearsonLast of the Country Gentlemen
Josh-T.-Pearson-Last-of-the-Country-Gentlemen.jpg

David LoweryThe Palace Guards
David-Lowery-The-Palace-Guards.jpg

The WalkaboutsTravels In The Dustland
TheWalkabouts-Travels-In-The-Dustland.jpg

The DonkeysBorn With Stripes
thedonkeys.jpg

The VaccinesWhat Did You Expect From The Vaccines?
The-Vaccines.jpg

The Felice BrothersCelebration, Florida
Felice_Celebration.jpg

Marianne FaithfullHorses And High Heels
Marianne-Faithfull.jpg

Chad VanGaalenDiaper Island
Chad-VanGaalen-Diaper-Island.jpg

FinkPerfect Darkness
fink.jpg

Comet GainHowl Of The Lonely Crowd
Comet-Gain.jpg

5 for extra time

Washed OutWithin And Without
Washed-Out-Within-And-Without.jpg

Work DrugsAurora Lies
work-drugs.jpg

Sea PinksDead Seas

Middle BrotherS.T.
middle-brother.jpg

2562Fever
2562-Fever.jpg

Condividi su FB / Share on FB

Categorie
Luca D'Ambrosio musica

La mia intervista a Paul Heaton degli Housemartins

Per restare in termini calcistici, quella realizzata dagli Housemartins fu una doppietta bruciante che mandò in visibilio il pubblico e la critica degli anni ’80.

Erano gli anni di Margaret Hilda Thatcher e di “The Power Of Love”, e Paul Heaton decise di dare uno scossone al Sistema mettendo su una delle formazioni più piacevolmente rivoltose della scena pop/rock inglese di quel periodo.

Prima con London 0 Hull 4 (1986) e poi con The People Who Grinned Themselves to Death (1987), gli Housemartins riuscirono, nel giro di appena tre anni, a realizzare una miscela tanto intima quanto esplosiva di musica e ideali. Parlarono infatti di Dio, di politica e di società in maniera ironica e allo stesso tempo profonda e commovente, senza però mai cadere nella banalità. Insomma: un “uno-due” che lasciò senza fiato moltissimi di noi.

Venne poi il 1988, l’anno del premeditato scioglimento, e la formazione di Kingston upon Hull (Inghliterra) chiuse definitivamente con quell’esperienza, lasciando un piccolo vuoto nei nostri cuori.

Un vuoto che, a distanza di tanti anni, abbiamo cercato di colmare attraverso questa intervista a Paul David Heaton che, con la solita acutezza, ci ha raccontato qualcosa di quell’epoca, degli Housemartins e anche di oggi.

Intervista a Paul David Heaton degli Housemartins di Luca D’Ambrosio

Intervista a Paul Heaton degli Housemartins
Erano gli anni di “The Power Of Love” e della Thatcher, la “Lady di Ferro”. Proprio in quel periodo a Hull, in Inghilterra, nacque la vostra band: chi erano gli Housemartins e perché quel nome?
Eravamo un gruppo di agitatori comunisti. Il nome è stato preso da Peter Tinniswood (autore preferito di Paul Heaton, ndr) che tendeva a usare la migrazione di questo uccello (il balestruccio, ndr) per segnare i passaggi delle stagioni.

Prima degli Housemartins cosa facevi e da che tipo di famiglia venivi?
Ho lasciato la scuola senza qualifiche e sono andato dritto a lavorare come impiegato in un ufficio. La storia della mia famiglia ruotava intorno al mio papà, Horace. Lui ha fatto bene per se stesso ma ha rifiutato di tutelare i propri interessi. Questo significa che, anche se abbiamo avuto i soldi, li abbiamo spesi tutti per la casa, le vacanze e il calcio e nulla è stato fatto per l’istruzione, la salute e il guadagno finanziario.

Com’era la vita in Inghilterra negli anni ’80, soprattutto in periferia?
Felice e piena di musica, ma ho vissuto in città a partire dal 1983.

Qual era la vostra visione del mondo? La stessa di oggi?
L’Internazionale Socialista avrà sempre più senso e funzionerà meglio del capitalismo. Ora si sta scoprendo tutto questo in Italia!

Che genere di musica ascoltavi in quel periodo?
Gospel, New Wave, Hip Hop, Detroit House, English Pop, Reggae, Blues, Country, Soul. Tutto tranne Heavy Metal!

Ora, invece, cosa ascolti?
Più di quanto abbia detto prima. Aggiungici la Musica Classica, un po’ di World Music e il Rockabilly.

Chi scoprì gli Housemartins e chi offrì loro un contratto? Ci puoi dire brevemente come accadde?
Un uomo di nome Bruce Craigie venne a vederci in un posto chiamato Hope and Anchor a Londra. A quei tempi lui lavorava alla Chrysalis Records, ma chiamò Andy MacDonald della “Go! Discs” pensando che la sua etichetta sarebbe stata più adatta.

Quali furono le tue emozioni?
Mi fece piacere, ma non come quando ottenemmo il nostro primo passaggio nel programma radiofonico di John Peel!

Ti sentivi parte del sistema o una voce fuori dal coro?
Una voce solitaria nel sistema. Ecco come mi sentivo.

Cosa significò per voi “Flag Day”?
La possibilità di mettere un po’ di odio nella schifosa borsa reale.

Mentre ora?
La stessa cosa. Ogni sillaba di quella canzone ci ha dato ragione. La carità è per quella parte della comunità che si sente in colpa per le tasse.

“London 0 Hull 4”, il vostro debutto, cosa significava per gli Housemartins?
Significava fottiti, da nord a sud.

Quindi, cos’era per te quel disco?
La possibilità di dire la mia.

Ti piace ancora giocare a calcio? La passione è la stessa che si percepisce guardando quel simpatico videoclip trovato in rete con sottofondo “We’re Not Deep”?
Ho giocato a calcio per tutta la mia vita dai 4 anni ai 40 anni. Ora sono “allenatore” (parola detta in italiano, ndr).

Com’è cambiato il calcio e com’è cambiata l’Inghilterra?
L’Inghilterra è cambiata nello stesso modo in cui è cambiato il calcio. Se la gente inglese potesse sentire le stesse negatività che sente per Carlos Tevez (attuale attaccante del Manchester City, ndr) e trasferirle ai politici e ai banchieri noi potremmo assistere a una grande rivoluzione in questo paese.

Cosa ti manca e cosa non ti manca del passato?
Non mi manca nulla, a parte le patatine e John Peel.

Invece, cosa ti piace e cosa non ti piace di questo periodo?
Guarderemo a questo periodo come “L’età dell’idiota”. Ci si può sentire rispettati solo perché hai una grande macchina, una “bocca grande” e un paio di pantaloni costosi?

Poi venne “The People Who Grinned Themselves To Death”, un album vivace ma con dei testi più profondi, ironici e romantici del precedente. Mi dici qualcosa su questo secondo e ultimo lavoro in studio?
I testi sono un po’ più complessi così come il tema delle canzoni. Questo secondo album ha più senso dell’umorismo rispetto al primo. Il titolo si basa sulla canzone, che è antimonarchica. Ho sentito che il mondo stava per cambiare.

“Build” è la mia preferita di quel disco. Bello anche il videoclip. Una canzone di “romantica protesta”. La domanda è sempre la stessa: può la musica cambiare, in meglio, il mondo?
La musica può cambiare gli individui, ma non un governo. Il mondo non è altro che una serie di individui malavitosi che affidano ad altri il pacifismo individuale.

Qual è la tua canzone preferita degli Housemartins?
“The Light is Always Green” (vedi il videoclip a fine intervista, ndr). È più vera oggi di allora.

Cosa successe dopo “The People Who grinned Themselves To Death”?
Ci siamo separati.

Ti va di dirmi qualcosa di piacevole o non piacevole circa il vostro scioglimento?
Non c’è niente di bello o di brutto circa lo scioglimento degli Housemartins. Io e Stan Cullimore decidemmo che non appena avremmo raggiunto il 1987 ci saremmo fermati. E così facemmo.

Senza gli Housemartins come ti sei sentito?
Mi sono sentito benissimo. È stato pre-organizzato. Nel 1985 e nel 1986 sapevamo che il 1987 sarebbe stato l’anno dello scioglimento. Fu sorprendente il fatto che avemmo il coraggio di farlo.

Cosa pensi adesso di quell’esperienza?
Penso che sia stata un’esperienza divertente e che abbia portato il sorriso sul volto di molti.

Avete mai pensato di tornare insieme e di riformare gli Housemartins?
Tu hai pensato a questo? No (a voler essere sinceri, un po’ sì, ndr). Io non torno mai indietro. Tu sei solito chiamare la tua ex ragazza per chiederle di uscire di nuovo con te? (Beh, sicuramente ha ragione, ndr) Io sono felice nella mia attuale relazione musicale.

Cosa succede ora in Inghilterra?
Spero che noi siamo arrivati al punto di rottura del governo e dell’illegalità, così presto arriverà la fine dell’Età dell’Idiota.

Adesso, invece, cosa fai nella tua vita privata?
Spendo la mia vita privata con le mie tre figlie. Mi piace fare musica da solo e viaggiare.

Dio salvi la regina?
Al diavolo la regina, la sua cazzo di famiglia e soprattutto tutti quei babbei che le danno sostegno.

Grazie per la disponibilità.
Di niente!

(Foto: thehousemartins.com)

Categorie
Luca D'Ambrosio musica

Hugo Race – Varsavia, 12.05.2011 (CDQ)

HUGO-RACE.JPG
Il tour polacco di Hugo Race tocca quattro città: Zielona Góra, Poznań, Varsavia e Cracovia. Noi, ovviamente, lo aspettiamo al varco presso il CDQ di Varsavia, locale piccolino e non proprio centrale ma abbastanza confortevole. Nell’attesa, come al solito, sorseggiamo dell’ottima birra polacca, complice, tra l’altro, una temperatura davvero mite. Fortunatamente nessun gruppo spalla in apertura, ma solamente musica di sottofondo e chiacchiere all’aperto intervallate da gelidi sorsi di birra. Serata ideale, insomma, e come per incanto Varsavia sembra scrollarsi di dosso il peso dell’inverno e il ritmo affannoso del giorno. Tuttavia il tempo vola, ci accorgiamo infatti che sono da poco passate le nove. Facciamo quindi un balzo dalle comode seggiole e, in meno di un minuto, siamo già all’interno dell’angusto Centralny Dom Qultury che ospita, per l’occasione, un centinaio di persone (numero oltre il quale si rischierebbe il soffocamento). Una breve attesa ed ecco che salgono sul palco Diego Sapignoli (batteria), Antonio Gramentieri (chitarre) e, naturalmente, il cantante e chitarrista di Melbourne, Hugo Race. Il pubblico li accoglie calorosamente, applaudendo e incitandoli già con l’iniziale In The Pines, brano estratto dal bellissimo Fatalists del 2010. Si intuisce immediatamente che la band, in versione power trio, è in splendida forma. Race, poi, è particolarmente ispirato e, nonostante il suo atteggiamento visionario e apparentemente schivo, presenta gran parte delle canzoni della serata. Pezzi di un lirismo unico che si susseguono in un vortice di sonorità ora elettriche e taglienti, ora acustiche e vellutate. Da Slow Fry a Sorcery, passando per Sun City Casino dei Dirtmusic e Too Many Zeroes, tutto è straordinariamente coinvolgente e in perfetto equilibrio. Un succedersi di ritmiche infuocate ma anche di atmosfere ipnotiche che prendono il nome di The Serpent Egg, Nightvision, Coming Over e Will You Wake Up dove la voce dell’ex Bad Seeds è così profonda e intima da rasentare la perfezione, merito, probabilmente, della complicità di due musicisti bravi, appassionati e puntuali come, appunto, Sapignoli e Gramentieri. In definitiva, due ore circa di concerto all’insegna della musica rock, quella fatta di sangue, di sudore e di visioni e che all’occorrenza sa essere anche oscura, malinconica e commovente come Call Her Name che chiude alla grande questa piacevole e insolita notte varsaviese.

ML – UPDATE N. 78 (2011-06-02)

Categorie
film libri Luca D'Ambrosio

Maurizio Blatto – L’ultimo disco dei Mohicani (2010)

blatto.jpg
L’ultimo disco dei Mohicani è uno di quei libri che va letto non tanto per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, quanto invece per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. Una sorta di autopsicoanalisi comparativa che, in parole povere, significa: a chi assomiglio? Al piastrellista in fissa per il funky e le donne di colore o al diabolico e perverso Paragonio che ha “il vizio di accostare qualsiasi artista (che ti piace) a uno (che detesti) lontano anni luce per sensibilità e caratteristiche”? All’audiofilo hardcore o a Mimmo Regghe? A Tony Locomotiva o a Renatino Punk? Ad Autolavaggio o ai gemelli Diufaus? O vi sentite proprio come Maurizio Blatto che passa intere giornate dietro il bancone ad ascoltare i racconti più disparati e bizzarri dei clienti? Insomma, di storie e di personaggi con cui confrontarsi non ne mancano. Perché Backdoor, storico negozio di dischi di Torino, è un piccolo universo fatto di veri e propri cultori musicali, più o meno folli, ma anche di improvvisati frequentatori che, varcando la porta d’ingresso, sono capaci di porre le domande più assurde di questo mondo, del tipo: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?” oppure “Morricone era uno dei Camaleonti?” Quesiti a cui è difficile rispondere ma che ogni tanto trovano una risposta immediata e consona all’esigenza da parte di uno zelante venditore (Maurizio Blatto) che, oltre a essere armato di una santa pazienza, si rivela un attento studioso del genere umano; caratteristiche pressoché sconosciute dall’altra metà della ditta, ovvero l’austero Sig. Franco, abile contabile nonché fondatore dello storico negozio cittadino. In fondo per capire quale sarebbe stato il destino del giovane Blatto basta iniziare a leggere il primo capitolo: “Ero partito più o meno con lo stesso obiettivo: garantire assistenza. Legale, immaginavo, vista la mia laurea in Giurisprudenza. Poi le cose sono andate diversamente e, quando, con la velocità del fulmine, mi sono calato dalla finestra di uno studio specializzato in diritto del lavoro sedotto dai feedback dei Velvet Underground e impaurito dai misteri dell’usucapione, davvero non immaginavo che sarebbe diventata di carattere sanitario. Igiene mentale. Sempre l’assistenza, si intende.” Ecco quindi vedersi trasformare una laurea in legge in una laurea in psicologia e “Il bancone in un lettino psichiatrico” rendendo “Il negozio di dischi come l’Azienda Sanitaria Locale”. Narrazioni e scene estremamente esilaranti ma che, in aggiunta, sanno essere anche commoventi, almeno per chi ancora adesso si ritrova con gli occhi lucidi dopo aver ascoltato un disco o una canzone. Suggestioni, queste ultime, tipiche di uno stato mentale da paziente inguaribile in cui lo stesso Maurizio Blatto a volte sembra ritrovarcisi, se non altro per quella scelta fatta tanti anni fa che lo ha portato a condividere gioie, dolori e inquietudini dei suoi clienti. “Sono un equalizzatore più sociale che Pioneer, una sorta di terapeuta omeopatico. Curo con l’intera discografia dei Pavement (o dei Fall, se serve una punta di elettroshock)”, potrebbe riassumersi così il leitmotiv di tutti quelli che hanno deciso di lavorare in un negozio di dischi. Un lavoro dalle forti connotazioni sociali e culturali descritto magistralmente e con sferzante ironia da L’ultimo disco dei Mohicani. Un’opera prima davvero encomiabile attraverso la quale il quarantaquattrenne scrittore piemontese ha saputo riprodurre fedelmente i suoni, gli umori e gli odori quotidiani di un’amabile comunità di “psicopatici”. Poiché, come recita il sottotitolo, questo libro rivela “Tutto quello che esiste ma che non potete credere che esista nel mondo della musica rock e dei suoi seguaci (più o meno) appassionati”, e noi che l’abbiamo mandato giù quasi tutto di un fiato non possiamo che auspicarne l’acquisto. Soprattutto se siete di quelli che quando entrano in un negozio di cd e di vinili avvertite un improvviso senso di pace e di relax.

ML – UPDATE N. 75 (2011-02-07)

Categorie
Luca D'Ambrosio musica

Sam Amidon – I See The Sign (2010)

-Sam-Amidon-.jpg
Sam Amidon (qualche volta anche Samamidon tutto attaccato) prosegue la sua riscoperta dei brani tradizionali come già era accaduto con il precedente All is Well che così tanto ci aveva entusiasmato così tanto giusto qualche anno fa. Un album, quello del 2008, che il folksinger americano aveva interpretato e suonato magnificamente grazie anche al supporto di un gruppo di amici/musicisti davvero eccezionali tra cui Ben Frost e Nico Muhly a cui oggi, però, bisogna aggiungere il talentuoso multistrumentista Shahzad Ismaily (che vanta collaborazioni con Lou Reed, Laurie Anderson, Tom Waits, Bonnie “Prince” Billy e Jolie Holland) e la ben più famosa – nonché brava – Beth Orton che per l’occasione duetta con Sam Amidon in ben quattro brani di I See The Sign. Un lavoro, quest’ultimo, che mette in luce la sensibilità di un personaggio che continua a scavare nel passato portando in superficie storie e ricordi dell’infanzia, ma anche amori travagliati e umane rassegnazioni attraverso un sottile equilibrio esistenziale fatto di canzoni come Way Go, Willy, You Better Mind, Johanna The Row-di e Rain and Snow. Un altro disco insomma che, eccezion fatta per Relief di Robert Sylvester Kelly, ricompone e riattualizza superbamente un folklore ormai dimenticato da cui vengono fuori passaggi di una bellezza cristallina quali Pretty Fair Damsel, Kedron e Climbing High Mountains da cui si leva ancora una volta la voce toccante, elegante e soave del nostro cantastorie. Un songwriter che si muove abilmente tra folk e dream pop, tra memoria e presente, tra angoscia e lievità, capace oltretutto di osare qualcosa in più; e quel qualcosa in più non sono altro che le lievi incursioni sperimentali inserite nell’iniziale How Come That Blood e nella conclusiva (e personale) Red che spingono un po’ più in là i confini di quest’ultima meraviglia registrata in Islanda al Greenhouse Studios. Gli arrangiamenti orchestrali di archi, ottoni e fiati sono affidati come al solito all’impareggiabile Nico Muhly mentre la produzione è, per la seconda volta consecutiva, di Valgeir Sigurðsson che pubblica con la sua Bedroom Community questa nuova fatica di Sam Amidon.[1] Un altro capolavoro di grazia e leggerezza da non farsi sfuggire assolutamente. Merce sempre più rara di questi tempi. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 70 del 31.03.2010



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento




Categorie
Luca D'Ambrosio musica

Moltheni – Intervista (2007)

Moltheni - Intervista (2007)
Dopo due lavori prettamente rock come “Natura In Replay” (1999) e “Fiducia Nel Nulla Migliore” (2001), realizzati per la Cyclope Records del grande Francesco Virlinzi, e una partecipazione al Festival di Sanremo nel 2000 con il brano “Nutriente”, la carriera di Umberto Giardini (alias Moltheni) è segnata improvvisamente dalla scomparsa dell’amico Francesco che decreterà anche la fine dell’etichetta catanese Cyclope Records. Così, dopo un lungo periodo di riflessione durato quattro anni, con in mezzo un album mai pubblicato (”Forma Mentis”), nel 2005 il cantautore, nato a Sant’ Elpidio a Mare, si rimette in gioco con “Splendore Terrore”, un disco indipendente che sancisce la sua maturità artistica attraverso composizioni intense ma allo stesso tempo scheletriche. L’anno successivo è la volta di “Toilette Memoria” (2006) che, invece, lascia trapelare una latente vivacità che nel 2007 si assottiglia notevolmente attraverso le note di “Io Non Sono Come Te”, mini fatica dai toni bucolici che mette in risalto il carattere di un compositore schivo, intimista e decisamente fuori dal coro…

Umberto, te la senti di riassumere in poche righe i momenti più significativi, belli e brutti che siano, della tua evoluzione artistica?
Il momento più bello è stato quando al mio esordio cercai il mio CD nei negozi e di fatto lo vidi… Ero felicissimo. Il momento più brutto invece è stato di sicuro quando è scomparso Francesco Virlinzi. Il vuoto lasciato da Francesco è rimasto incolmabile un po’ per tutti, anche per la discografia italiana in genere.

Quando nel 1991 comprai l’esordio dei Flor De Mal, uscito appunto per la Cyclope Records di Catania, mi resi subito conto che Francesco Virlinzi stavo osando qualcosa in più. Tu che l’hai conosciuto molto bene, cosa ha perso il nostro ambiente musicale con la sua scomparsa?
La realtà musicale italiana ha perso moltissimo con la scomparsa di Francesco Virlinzi, non solo per un discorso diplomatico che lo vedeva comunicare con le Major in maniera umana, riuscendo a farle ragionare, ma anche per quel grande buon gusto che dava la possibilità ai nuovi progetti di esprimersi come volevano, uscire cioè discograficamente solo ed esclusivamente per le proprie qualità.

Credo che non sia stato affatto facile ripartire da zero dopo la partecipazione al Festival di Sanremo nel 2000, un album (“Fiducia Nel Nulla Migliore”) registrato negli Stati Uniti e prodotto dall’ex produttore dei R.E.M. Jefferson Holte e, soprattutto, dopo la chiusura della Cyclope Records la cui distribuzione era curata dalla Sony BMG…
Sì è stato molto difficile, difficilissimo, ma superato l’ostacolo di liberarmi della BMG è stato tutto molto più semplice.

Successivamente ci fu anche la delusione di un tuo album (“Forma Mentis”) “snobbato”…
Sì, anche se delusione è un termine un po’ esagerato per descrivere il mio stato d’animo di quel periodo. Sapevo che le persone con cui stavo avendo un approccio di lavoro erano inaffidabili, pertanto la delusione è stata molto relativa.

Prima di parlare del tuo ultimo lavoro, “Io Non Sono Come Te”, recensito proprio su queste pagine nel numero precedente, vorrei parlare di “Splendore Terrore”, lavoro del 2005 che ha decretato innanzitutto il sodalizio tra La Tempesta dei Tre Allegri Ragazzi Morti e Moltheni. Come è avvenuto l’incontro con Davide Toffolo & Co. e quali sono state le prime cose che vi siete detti all’inizio della collaborazione?
L’approccio iniziale in realtà è stato con Enrico Molteni, durante un live dei Tortoise a Ferrara. È stato tutto molto genuino; ci siamo parlati e stretti la mano. Fu come una parola d’onore tra due persone serie e decise di lavorare insieme, tutto qua… Poche settimane dopo, si era già a buon punto, fino alla registrazione dell’album qualche mese dopo.

Ho letto da qualche parte che “Splendore Terrore” è stato pensato e realizzato in poco tempo. Sono convinto però che per fare un album così intenso, al di là dell’ispirazione, bisogna avere le idee ben chiare…
Può darsi, io le ho sempre molto chiare le cose in testa che debbo poi realizzare. È anche vero, però, che la grossa ispirazione che avevo in quei giorni ha fatto da buona consigliera, fu registrato tutto in brevissimo tempo.

Con “Splendore Terrore” esce fuori un Moltheni che si muove tranquillamente tra composizioni strumentali e canzoni evocative, piene di pathos e capaci di sintetizzare splendidamente le amarezze della vita…
Non lo so. A me appare tutto molto semplicemente naturale… È Moltheni

Poi “Splendore Terrore” è anche l’album che segna la tua maturità artistica e che toglie ogni dubbio a tutti coloro che ti hanno sempre paragonato a Manuel Agnelli…
Probabile, con “Splendore Terrore” mi sono sentito veramente io. Mi sono guardato allo specchio e mi sono finalmente riconosciuto. Per ciò che riguarda i paragoni, lasciano sempre il tempo che trovano, è anche vero che senza i paragoni molti giornalisti o addetti alla musica sarebbero persi e senza più riferimenti, quindi, tanto vale leggerli e riderci su.

Ascoltando “Toilette Memoria” ho avvertito invece una misurata e latente vivacità sia nelle ritmiche che nei testi. È solo la mia impressione?
No, è di fatto un album più luminoso; è anche vero però che nelle mie composizioni la luce e la giocosità di alcuni episodi, va vista e interpretata in un’ottica diversa rispetto ad album qualsiasi o a progetti pop. È la melanconia l’ingrediente che, in un modo o nell’altro, stende sempre un velo sottilissimo sopra le mie produzioni. È come una ragnatela invisibile che quando ci si avvicina, ci tocca, e qualcosa cambia.

Nell’album c’è anche un brano cantato da Franco Battiato. Come è nata la collaborazione e l’amicizia con l’artista siciliano?
L’amicizia con Franco è nata precedentemente alle registrazioni di “Toilette Memoria”, esisteva già. La collaborazione è nata dall’idea di far cantare il brano a una voce fortemente evocativa. Il brano era perfetto per lui. Franco ha accettato subito. È bastata una telefonata.

Cosa ci puoi raccontare a proposito della tuo ultimo lavoro “Io Non Sono Come Te”? Come è nato il disco, dove è stato registrato?
Non ho nulla da raccontare; sono una manciata di dolci canzoni che rilassano e, come spesso accade, fanno pensare alla vita. È stato registrato da Giacomo Fiorenza a Bologna e due brani da Gigi Galmozzi a Milano, il tutto poi mixato in Svezia da Kalle Gustafsson.

Con questo EP si scorge un Moltheni dai toni decisamente più bucolici. Credi che il prossimo seguirà questa strada oppure è arrivato il momento di tirare fuori dal cassetto “Forma Mentis”, casomai riveduto e corretto?
Che dire, non mi faccio mai molte domande sulla strada da percorrere per il futuro. So di certo che questa è la mia strada e non la lascerò per vendere più dischi o per una visibilità maggiore che snaturi Moltheni. “Forma Mentis” è un album mai pubblicato e tale rimarrà. Ogni cosa è figlia del suo tempo, e il tempo di questo lavoro è passato. Non si può morire e rinascere, purtroppo o per fortuna, non si può.

Oramai i tuoi arrangiamenti sono un marchio di fabbrica e la tua voce è riconoscibilissima…
Può darsi, il tempo a volte aiuta anche in questo…

Raggiungere una propria identità artistica non è così facile…
No, non lo è affatto. Bisogna essere se stessi nel tempo, ed essere convinti di quello che si fa. Forse bisogna anche un po’ piacersi…

Se “Toilette Memoria” e “Splendore Terrore” erano titoli abbastanza criptici “Io Non Sono Come Te” è, al contrario, una intestazione decisamente lapalissiana. Da cosa sono scaturiti i titoli di questi tre album?
Non lo so bene. I titoli che attribuisco ai miei lavori rispecchiano i miei stati d’animo, è come un nome che dai a un figlio/a, in quel momento fai quella scelta, spesso solamente estetica. Dubito che dietro i titoli degli album ci siano pensieri profondi.

Tu che hai avuto l’occasione di vivere e vedere da vicino sia il mondo delle multinazionali che quello delle etichette indipendenti, pensi che tutto sommato sia meglio stare dalla parte delle piccole label e accontentarsi di andare in giro a fare concerti in piccoli club?
Decisamente quello che ci si guadagna è tantissimo. È pur vero che però dipende da come è fatto ognuno di noi. Da un punto di vista etico, credo che uscire per un etichetta indipendente sia molto più gratificante, ma credo anche che ci siano alcune Major che possano comportarsi onestamente e professionalmente, il problema è trovarle e instaurare un buon rapporto di lavoro con loro. Questo è molto difficile, almeno qui nell’estremo sud del continente.

Sta cambiando qualcosa nell’industria discografica oppure siamo al collasso in quanto la situazione è oramai irreversibile?
Non me lo sono mai chiesto, di sicuro la discografia riflette la società. Quindi siamo vicini al capolinea.

Sei anche tu dalla parte di coloro che pensano, come i Radiohead, che a questo punto sia meglio mettere i propri i lavori in rete gratis o al massimo dietro sottoscrizione o libera offerta?
Sì.

Sappiamo benissimo che sei un grande esperto di musica rock. Quali dischi di questi ultimi anni non dovrebbero mancare nella nostra discografia?
Sono tantissimi i dischi che non dovrebbero mancare ad alcuni di noi. Dico alcuni di noi, poiché non tutti i dischi che considero fondamentali, vanno bene nel lettore di molti. Di certo ne posso citare 3:
– Stars of The Lid – “The Ballasted Orchestra”
– Elliott Smith – “XO”
– Tortoise – “Millions Now Living Will Never Die”

Ci mettiamo anche un album di Moltheni, almeno per quanto riguarda la sezione riservata alla musica italiana?
No, non mi interessa proprio.

C’è qualcosa che davvero non sopporti del genere umano e di questo mondo? Cosa invece salveresti di quest’epoca?
Salverei gli animali e la natura, non sopporto più la gente. lo ammetto.

Sei molto legato alle tue origini? Quanto hanno influito sulla tua crescita culturale e professionale?
No non hanno influito per niente, poiché non sono legato affatto alle mie origini.

Un’ultima curiosità: la farmacia da cui prendesti il nome esiste ancora?
No, chiuse circa 4 anni fa… Non esiste più.

ML – UPDATE N. 50 (2007-10 -30)

foto by Simone Cecchetti

Voci chiassose