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Pillole quotidiane: Carrie & Lowell di Sufjan Stevens.

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In questi tempi di merda non è per niente facile amare dischi come Carrie & Lowell. Un album pieno di malinconia e di melodie che vanno dritte al cuore. Canzoni leggere come la brezza ma tristi come la perdita di una persona cara. Quando triste, però, vuol dire anche bello e catartico. (L.D.)



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Pillole quotidiane: You are my sun di Sun Kil Moon

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Vivo in una cittadina profondamente cambiata. Nei rapporti umani, nell’urbanistica, nei valori. E tutto questo in peggio. Per fortuna, però, oggi è una bella giornata di sole. (L.D.)



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Pillole quotidiane: Notturno Americano di Emidio Clementi, Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi

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Notturno Americano di Emidio Clementi, Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi è un disco adorabile. Un album che vi farà amare, una volta ancora e per sempre, Emanuel Carnevali. Un grande scrittore del Novecento. Un poeta dimenticato. Un magnifico perdente. Un uomo che porterà un po’ di pace nei vostri cuori. “Il primo dio”, insomma. (L.D.)



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Pillole quotidiane: I love you but you’re dead di Mark Eitzel

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Credo che sia capitato a chiunque di alzarsi al mattino e di avere in testa una canzone ben precisa. A me quest’oggi è andata proprio così.

Ho aperto gli occhi, ho fissato per qualche minuto la grossa finestra con le sue lunghe tende di fronte al mio letto e subito sono partite le prime strofe di I love you but you’re dead.

È stata una reazione immediata, come se ogni angolo e ogni oggetto della casa avessero un suono, un ricordo, una canzone da fare ascoltare. (L.D.)

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Pillole quotidiane: Somedays di Tess Parks

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Sembra che Alan McGee abbia un debole per questa giovane cantautrice canadese cresciuta nel tempio del rock and roll a suon di Dylan, Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin e chissà quanti altri ancora. Lei si chiama Tess Parks e Blood Hot è il titolo del suo album di debutto pubblicato nel 2013. E io questa mattina, tra un ascolto e l’altro, mi sono perso nell’ipnotica e travolgente “Somedays”. Tre minuti scarsi di tensione emotiva. (L.D.)



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Storie d’amore e di Caini: intervista a Cesare Basile.

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Era dai tempi di Storie di Caino (2008) che non facevamo due chiacchiere con Cesare Basile. Da allora sono passati sette anni e nel frattempo il cantautore siciliano ci ha consegnato altri tre meravigliosi lavori: “Sette per tenere il diavolo a bada” (2011), l’omonimo Cesare Basile (2013) e quest’ultima meraviglia dal titolo “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più” (2015) che ci ha dato modo di tornare a parlare delle sue storie e della sua struggente e graffiante poesia. Buona lettura.

Intervista a Cesare Basile di Luca D’Ambrosio
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Allora, Cesare, con “Storia di Caino” iniziava a farsi strada la tua urgenza per il racconto, per le storie o meglio ancora – per citare le tue parole – sentivi il bisogno di parlare con qualcuno e non più con te stesso come invece era accaduto, per esempio, con “Hellequin Song”. Una necessità che a partire da ”Sette pietre per tenere il diavolo a bada” fino ad arrivare a quest’ultima meraviglia dal titolo “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più” (2015) hai voluto convogliare in territori più intimi e circoscritti, inseguendo storie legate alle tue radici, alla tua Sicilia. Quella Sicilia specchio d’Italia, piena di risorse e di bellezze ma eternamente malata. Ecco, ci racconti in breve questi sette anni?
Ho ascoltato le storie dei “Caini” del mondo, tutte quelle esistenze non lineari che attraversano la nostra società e ne costituiscono il tessuto vivo, dolente e fiero allo stesso tempo. Ho scelto la Sicilia come punto d’osservazione, il mio luogo privilegiato. La Sicilia è un buon posto per confrontarsi con le contraddizioni di una società che ha nella democrazia lo strumento primo del dominio e dello sfruttamento, un luogo in cui le disparità, prima di essere economiche, sono gerarchiche. Ne ho riscoperto la lingua, che è quella della mia infanzia, e mi sono confuso ai suoi ribelli che sono stati, sono e saranno sempre tanti, ognuno a suo modo.

Mi rendo conto che per un artista parlare del proprio disco non sia affatto facile, ma ora che sei sul palco o seduto sulla poltrona di casa a riflettere, pensi che il risultato ottenuto con quest’ultimo lavoro sia più o meno quello che immaginavi prima delle registrazioni?
La sorte e l’improvvisazione sono fondamentali nella realizzazione dei miei lavori, sopratutto perché faccio male i conti e i conti non tornano mai. Per me è importante avere le storie da raccontare, trovate quelle servono solo buoni compagni che ti aiutino a raccontarle, altri sguardi che vadano a frugare negli angoli che mi ero perso. Fare un disco è una scoperta, perdersi per stanze che pensavi di conoscere bene.

Cos’è una canzone d’amore per Cesare Basile?
Una canzone che contempla il tradimento ma rifiuta il doppio gioco.

Amore anche come dolore?
Il dolore è l’unico motivo per cui si scrive una canzone. È quello che un tempo si chiamava blues, duende. Il dolore che non ha vergogna di se stesso, che ha voce potente.

Sono tanti gli amici che hanno collaborato nel tuo nuovo disco; penso, per esempio, a I Caminanti che ti accompagneranno nel nuovo tour. Ecco, mi sembra di intuire che oramai da qualche anno a questa parte attorno a te ci sia una vera famiglia di artisti, che condivide non solo una certa idea di fare cultura ma anche un certo spirito di indignazione. È così?
Una famiglia decisamente allargata. A Lavorare con me non si raccolgono né soldi né onori, si accettano scommesse e si balla sull’imprevisto. Impariamo insieme il valore della complicità. Caminanti è un fascio di nervi, un’avventura emozionale che in altri tempi si sarebbe svolta alla macchia.

E John Parish lo senti ancora?
John mi ha insegnato tante cose e mai nessun trucco, fra le altre il valore della sottrazione nella produzione di un disco. Mi ha insegnato l’eleganza dell’umiltà, il pudore nell’affrontare un palco, la furia di ogni singola nota, come fai a liberarti di uno così?

Robert Fisher, invece?
Robert mi ha insegnato a percepire il mistero nascosto dietro la pronuncia di ogni singola parola. Stiamo parlando di un fuoriclasse.

Alla luce delle recenti polemiche per via delle tue sacrosante e coraggiose “battaglie” a favore della cultura, possiamo affermare che quello di oggi è un Cesare Basile decisamente meno indulgente verso i ciarlatani e i cattivi maestri che si ergono, a chiacchiere e non nei fatti, a difesa della legalità e del sapere?
Non credo di essere mai stato indulgente nei confronti dei ciarlatani, a meno che non fossi io stesso il ciarlatano in questione. La legalità, come la democrazia, è la maschera ipocrita di un sistema di potere e di sfruttamento che considera ogni singolo essere umano alla stregua di un suddito, ma i sudditi sanno anche trasformarsi in regicidi alle volte.

Non aver depositato questi nuovi brani alla SIAE ti ha comportato qualche difficoltà di ordine pratico?
Direi di no. Anzi.

Soddisfatto e sempre più convinto di questa scelta?
Ne sono assolutamente convinto e sono ancor più convinto della necessità di ridiscutere il sistema stesso della proprietà intellettuale. Credo che ogni artista debba, oggi, smettere di rimestare fra due lire di privilegio e affrontare una questione importante come il diritto d’autore, chiedersi se è davvero un diritto o un arbitrio funzionale a un sistema di spartimento dei profitti. La conoscenza è frutto di una concatenazione di scoperte ed esperienze che ognuno di noi si ritrova a utilizzare a sua volta, chi può davvero rivendicarne la paternità?

“After The Gold Rush” di Neil Young resta sempre uno dei tuoi dischi preferiti di sempre?
Assolutamente sì.

C’è invece un disco che hai scoperto in questi ultimi anni e che ti ha colpito in modo particolare?
“Black Sabbath” dei Black Sabbath. Trovato per caso su una bancarella di vinili usati e comprato a dispetto di un’ingiustificata ritrosia nei confronti del genere. È decisamente uno dei dischi più importanti nella storia della musica rock, un forziere di semi che negli anni ha dato frutti diversissimi e trasversali.

L’ultima domanda è sempre la stessa, come quella di sette anni fa. Abbiamo ancora una speranza?
Non ricordo cosa sperassi sette anni fa e non ricordo cosa ti ho risposto. Oggi credo che la speranza passi dalle tue proprie mani e si costruisca giorno dopo giorno usandole senza lavorare per un padrone. (Ndr, leggi qui)

Ascolta in streaming integrale “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più”



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Pillole quotidiane: This Must Be The Place (Naive Melody) dei Talking Heads

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Certo che quel vizio di spendere soldi a cazzo in dischi, libri e film non mi è mai mancato. Forse da ragazzo avrei dovuto investire il mio tempo e quei pochi spiccioli a disposizione in cose più utili e decisamente più redditizie.

In quel modo i miei genitori mi avrebbero preso come una persona normale. Come quello della porta accanto, insomma, che ha una bella casa, una bella macchina, una bella famiglia. Ma si sa, la vita è fatta di scelte. E io, malgrado tutto, ho scelto di vivere in uno scaffale. (L.D.)



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Pillole quotidiane: Bloom dei Beach House

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Questa notte ho fatto un sogno. Il cielo era azzurro, il mare era piatto e tutto intorno sembrava deserto. E io ero lì, nella mia casa sulla spiaggia, felice e immobile come una lucertola ubriaca di sole. (L.D.)



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Pillole quotidiane: Survive it di Ghostpoet

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Quando incontro qualche vecchio appassionato di musica, che naturalmente si è stancato di essere “giovane e alternativo”, e gli chiedo “Cosa stai ascoltando ultimamente?”, generalmente le risposte sono tre: (la prima) “Genesis, Pink Floyd, Doors… Sai, non c’è più la musica di una volta.”; (la seconda) “Ora ascolto soltanto il jazz.”; (la terza) “Be’, adesso mi piace solo la musica classica!“. Tre risposte di una tristezza infinita. (L.D.)

P.S.
Subito dopo aver scritto questo pensiero mi è venuto in mente questo brano del 2011 del produttore e cantante londinese Obaro Ejimiwe (aka Ghostpoet).



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Pillole quotidiane: Go Out dei Blur

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Oggi ho ascoltato Go out, il primo singolo estratto dal nuovo album dei Blur intitolato The Magic Whip e in uscita il 27 aprile 2015. Il brano lascia ben sperare, anche se il video in questione e la copertina del disco fanno leggermente cagare. Giusto un po’. Quel poco però che li rende, come al solito, geniali e fuori di testa. (L.D.)



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