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Pillole quotidiane: Used Cars di Bruce Springsteen

Sono seduto sul sedile posteriore di una vecchia automobile verde scuro e guardo fuori dal finestrino.

La strada.

I ricordi.

Una canzone.

Mi sembra di essere in Nebraska.

Il cielo è grigio.

Mio fratello dorme sulle gambe di mamma, mentre mio padre guida senza dire una parola.

Nel taschino della mia giacca ho un’audiocassetta nuova di zecca.

Casa è ancora lontana. E io non vedo l’ora di arrivare.

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Eels – End Times (2010)

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Il Mark Oliver Everett di End Times è un uomo solo e malinconico che abbandona le fantasie di Hombre Lobo tornando a cantare il disincanto della vita reale. Lo fa, tuttavia, con l’afflato del poeta crepuscolare che racconta consapevolmente la fine di un tempo oramai andato. Un Mark Oliver Everett che si cala quasi nelle stesse tragiche atmosfere di quell’Electro-Shock Blues in cui il nostro songwriter affrontava con estremo turbamento il dolore per la scomparsa dei propri cari (papà, mamma e sorella), anche se poi questo End Times rispetto a quel capolavoro del 1998 riesce a concedere una maggiore sobrietà compositiva e barlumi di speranza ben più diffusi. Quella cantata da Everett è difatti una “fine” segnata dall’angoscia e dall’indifferenza, in cui riaffiorano ricordi familiari e affetti perduti, senza però mai perdere di vista l’amore per quei piccoli gesti quotidiani che illuminano la vita (The Beginning, I Need a Mother e Little Bird). Un condensato di folgorante mestizia che Mr. E confeziona in perfetta solitudine, o quasi. E il risultato di questo suo ottavo album è magnifico, basta ascoltare In My Younger Days, A Line In The Dirt e Nowadays, brani capaci di trafugare un romanticismo disperato alla stregua di Gone Man, Unhinged e Paradise Bluescapace che, oltretutto, riescono a dar vita a dinamiche sonore ben più vigorose. Scritto nello scantinato di casa a Los Angeles e abbellito da un suggestivo disegno di copertina realizzato da Adriane Tomine, End Times è un disco fatto di ballate folk, nenie pop e attacchi rock che mettono a nudo tutto il rassegnato cinismo e la quotidiana follia di un mondo che rasenta sempre di più l’orlo del tracollo. Uno spaccato ben preciso di un’epoca (la nostra) priva di rispetto e decenza, dove, però, potrete scorgere tutta la dignità di un uomo e di un artista che – nonostante Dio, il fato e gli esseri umani – è ancora qui a scrivere delle grandi canzoni. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – Update n. 70 del 31 marzo 2010



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Pillole quotidiane: Don’t Think Twice, It’s Alright di Bob Dylan

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È primavera inoltrata, anche se fuori piove e fa freddo. In TV stanno beatificando due Papi, mentre in Crimea spirano venti di guerra. Per fortuna poi arriva “Don’t Think Twice, It’s Alright” di Bob Dylan e io improvvisamente mi sento meglio, perché la verità è che non abbiamo bisogno di alcuna religione, ma soltanto di buoni sentimenti. Nient’altro. (L.D.)



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Pillole quotidiane: The Jazz Butcher

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She’s on Drugs era la sigla iniziale di una trasmissione che conducevo presso una delle emittenti radiofoniche della mia cittadina. Era il 1990. Ricordo che tornavo a casa stanco morto da Roma. Ciononostante, appena varcata la porta della mia cameretta, racimolavo una decina di ellepi dallo scaffale, li mettevo sottobraccio e con passo spedito mi incamminavo verso gli studi della stazione radio locale. Mi sentivo bene. Lo giuro. Tutto intorno a me sembrava in perfetto equilibrio. E Cult of the Basement dei Jazz Butcher era una delle mie certezze. Uno di quei dischi che ancora oggi mi piace ascoltare quando mi sento mancare la terra sotto i piedi. (Luca D’Ambrosio)



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Pillole quotidiane: Record Store Day 2014

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Evviva la musica solida, soprattutto quella in vinile. Evviva i piccoli negozi di dischi che resistono alle multinazionali e alla grande distribuzione. Insomma: evviva gli ultimi romantici che passano la maggior parte del loro tempo ad ascoltare musica, stilare classifiche e a rovistare tra gli scaffali di un qualsiasi Championship Vinyl. Buon Record Store Day a tutti quelli come noi. (L.D.)



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Jonathan Wilson all’Auditorium Parco della Musica di Roma

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È la prima volta a Roma di Jonathan Wilson, cantautore e produttore americano che, dopo l’acclamato Gentle Spirit del 2011, giunge all’Auditorium Parco della Musica per presentare il suo ultimo lavoro in studio intitolato Fanfare (2013). Ad accoglierlo c’è una sala Sinopoli gremita ma soprattutto un pubblico attento e partecipe, come accade spesso da queste parti. E Wilson sembra avvertirlo fin dalle prime battute, lasciando subito spazio alla musica e concedendo ben poco al dialogo, forse anche per una timidezza di fondo. Così, tra il solito e ripetuto ringraziamento a fine canzone e un sincero apprezzamento sull’acustica e l’estetica del luogo, a farla da padrone è la sua ultima fatica discografica che il musicista statunitense riesce a eseguire ottimamente anche dal vivo, grazie alla complicità e alla bravura di una band impeccabile (su tutti il batterista Richard Gowen). E, tranne qualche picco di volume fuori controllo, quel che viene fuori è un concerto appassionante che in un vortice di psichedelia, folk e progressive ci trasporta in un immaginario musicale che unisce i Pink Floyd a Neil Young & Crazy Horse. Insomma, Jonathan Wilson realizza un viaggio sonoro negli anni ’70, tra l’Inghilterra e la west coast americana, che passa in rassegna l’intero arco costituzionale della popular music dimostrando, oltretutto, di essere non solo un autore di talento ma anche un bravissimo chitarrista. E questa sera le persone accorse ad ascoltarlo ne sono consapevoli una volta per tutte, a tal punto da richiedere a gran voce una canzone fuori scaletta. È Love to love, e il buon Jonathan non vuole affatto deluderle. La esegue in maniera coinvolgente portando a termine, nel giro di qualche altro pezzo, una serata che difficilmente dimenticheremo. (L.D. / Roma, 12 aprile 2014)



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Damien Jurado al Lanificio 159 di Roma

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È la prima volta a Roma di Damien Jurado, cantautore indie folk di Seattle (Washington) che arriva al Lanificio 159 per presentare il suo undicesimo album intitolato Brothers and Sisters of the Eternal Son: disco acclamato dal pubblico e dalla critica – e anche da chi scrive – come una delle migliori uscite discografiche dell’anno nonché della sua carriera. Però, a vederlo appoggiato al muro dietro il banchetto del suo merchandising, mentre ascolta intento la giovane Courtney Marie Andrews che apre il suo show, dà quasi l’impressione di essere un personaggio abbastanza schivo e distaccato, e persino diffidente nel momento in cui ci avviciniamo a scambiare due chiacchiere e ad acquistare un vinile. Ma le nostre sono soltanto supposizioni che vengono smentite quando Jurado, munito soltanto di voce e chitarra, dopo qualche “vecchia” canzone estratta dal suo lungo repertorio (in fondo stiamo parlando di un musicista che è in giro dalla metà degli anni novanta), riesce a incantare e coinvolgere giovani e meno giovani prima con Metallic Cloud e subito dopo con Silver Timothy, brano che preferisce ripetere, chiedendo alle persone presenti in sala di avvicinarsi a lui, perché solo così, dice, gli viene meglio. È come se si sentisse a casa, prosegue, e per questo motivo prima di eseguirlo nuovamente si toglie addirittura le scarpe. Da quell’istante in poi sembra di vedere un altro Damien Jurado: scherzoso, simpatico, loquace e naturalmente profondo. Buona parte degli spettatori lo accerchiano accovacciati sul palco o nelle immediate vicinanze, noi compresi. Tutti, però, anche quelli più distanti, partecipano all’esibizione cantando, applaudendo e portando il ritmo con le mani. E lui, tra il serio e il faceto, non perde occasione per interagire con il pubblico. È una bella serata, insomma, con il nostro songwriter che canta canzoni di una bellezza non comune dove fragilità, quiete e disperazione sembrano cementarsi in unico afflato. Brani che ci fanno pensare a Nick Drake, Neil Young, Bob Dylan ed Elliott Smith, tuttavia capaci di rivelare un’emotività autentica che si nutre della vita degli altri e di tutto ciò che lo circonda. E noi questa sera ne siamo stati consapevoli per un’ora e mezza circa di concerto che è filato via con piacere ed entusiasmo, con il folk singer americano in splendida forma che, in una dimensione intima e familiare, ha carpito ogni sguardo e ogni minimo sussurro. Un uomo di indiscutibile talento che questa sera, scalzo e bevendo Fanta, non solo è riuscito a rapirci il cuore ma anche a regalarci un sorriso. Lo ha fatto dando risalto, com’è giusto che sia, al suo ultimo gioiellino discografico, non prima però di averci fatto dono a metà esibizione di Everything Trying, traccia presente nella colonna sonora del film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. Quando la musica e certe canzoni riescono a sorprendenti anche dal vivo. Grazie, Damien. (L.D. / Redazione Musicletter.it / Roma, 27 febbraio 2014)

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La lunga estate solitaria di Barzin (intervista)

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Il 3 marzo 2014 sarà pubblicato in Italia, su etichetta Ghost Records, il quarto album di Barzin, cantautore canadese di origine iraniana che già ci aveva sorpresi con il precedente Notes to an Absent Lover del 2009. Da allora sono passati cinque anni e Barzin Hossein non ha perso un minino di ispirazione e sensibilità, tornando sulla scena musicale con un’altra meraviglia dai toni intimi e raffinati che prende il titolo di To Live Alone In That Long Summer. Dieci canzoni che si appiccicano al cuore e che rivelano definitivamente il talento di un musicista autentico e sincero, sempre in bilico tra romanticismo ed esistenzialismo. Buona lettura.

Intervista – La lunga estate solitaria di Barzin
2014© di Luca D’Ambrosio
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Allora Barzin, ci eravamo lasciati con “Notes To An Absent Lover” e adesso, a distanza di cinque anni, ci ritroviamo con un’altra meraviglia di disco intitolato “To Live Alone In That Long Summer”. Dieci canzoni folk raffinate, intime, poetiche e dalle melodie sempre più cristalline. Possiamo considerare questo nuovo lavoro discografico come una naturale evoluzione, sentimentale e musicale, del lavoro precedente?
Sì, appare come un’evoluzione naturale dell’album precedente. Dal punto di vista sonoro i due lavori sono simili, e i temi di quest’ultimo sono ancora legati a quelli di “Notes Of The The Absent Lover”.

Una voce avvolgente, arpeggi di chitarra e ritmi di batteria mai sopra le righe. La miscela sembra essere la stessa di “Notes To An Absent Lover”, tuttavia “To Live Alone In That Long Summer” pare custodire un’alchimia, o forse meglio un segreto, che fa sì che le canzoni ti entrino subito nella pelle. In alcuni momenti sembra addirittura di averle sentite chissà quante volte. E poi si avverte un’aria decisamente rilassata. Mi viene quasi da pensare che questo potrebbe essere il disco della tua maturità artistica.
Sono contento che la pensi così. In questo disco sento davvero di aver raggiunto un certo grado di maturità. Questo è il mio quarto album, quindi ho imparato molto dagli errori commessi con i lavori precedenti e ho cercato di non ripeterli. Inoltre in questo album sono stato aiutato da tante persone di grande talento, più che in passato. Il contributo di queste persone ha portato nuovi elementi nel disco, cosa che non avrei potuto ottenere se avessi provato a fare tutto da solo.

L’ultima volta che ci siamo sentiti mi dicesti che tu sei sempre stato una di quelle persone che riesce a scrivere e suonare proprio quando tutto sembra andare in pezzi. È andata così anche questa volta?
Be’, penso che solo alla fine dei giochi realizzo che la mia fonte di ispirazione nasca proprio quando le cose intorno a me cadono a pezzi. È come se la mia mente e il mio corpo possano gestire le crisi solo attraverso l’arte. Vorrei poter trarre ispirazione da diverse fonti o periodi della mia vita, ma ora non sembra essere il momento giusto.

Ecco, parafrasando il titolo del disco, cos’è accaduto in quella lunga estate solitaria?
Trascorrevo un sacco di tempo da solo. Mi piaceva svegliarmi e andare in giro per la città. Prendere brevi appunti. Leggere libri. Bere caffè in varie caffettiere. Tornare a casa e lavorare sulla musica. Vivevo in diversi posti. Ogni volta che qualcuno che conoscevo stava partendo per andare fuori città, andavo a stare a casa sua. Ero alla ricerca di modi diversi di vedere le cose. Quindi, stare a casa di altri è stato davvero il miglior modo per farlo. Mi ha fatto sperimentare cosa vuol dire svegliarsi in un letto diverso. Ho visto come gli altri vivevano la loro vita, le cose che le persone tengono nelle loro case, le loro scelte nell’arredamento e ho provato la sensazione di vivere in un quartiere diverso. Mi sentivo come se stessi vedendo attraverso gli occhi delle persone che vivevano nelle case in cui mi trovavo. In qualche modo mi sentivo di vivere la vita di qualcun altro. Hai mai letto il racconto di Raymond Carver, “Neighbors”? Ecco, era più o meno così…

Con questo quarto album sei uscito definitivamente allo scoperto, mettendo in mostra le tue eccelse qualità di cantautore attraverso brani dagli arrangiamenti sempre più eleganti e curati.
È interessante come questo album sia venuto fuori. Quando ho finito il mio ultimo disco e sono tonato dal tour, mi sono detto che avrei fatto un ultimo album. Volevo fare un disco semplice: solo voce e chitarra, o forse pianoforte. E quindi ho iniziato a lavorare sulle canzoni e lentamente, in qualche modo, cominciavano ad aggiungersi altri strumenti. E così il disco è diventato sempre più “grande” (più complesso, più ricco, ndr), coinvolgendo sempre più persone. E ora che l’album è finito, e che l’osservo a distanza per quello che è, mi accorgo che è stato il disco più difficile e complicato che abbia mai fatto.

A proposito di eleganza, le atmosfere di “In The Dark You Can Love This Place” sembrano addirittura “jazzy”…
Io amo il jazz. Lo ascolto da quando ero adolescente. Quando suonavo la batteria a un certo punto ho considerato la possibilità di diventare un batterista jazz. Ma non sono mai stato in grado di mettere del jazz nella mia musica in maniera che potesse sembrare soddisfacente. Quindi, forse, quegli elementi jazz stanno lentamente iniziando a mostrarsi nelle mie canzoni e negli arrangiamenti.

Prima dicevi che era tua intenzione fare un disco semplice, solo voce e chitarra, e invece poi non è andata proprio così. Infatti, ascoltando questo nuovo lavoro, si ha quasi l’impressione che ogni cosa sia stata studiata nel minimo dettaglio, come se tutto fosse stato ben chiaro nella tua mente ancor prima di entrare in studio di registrazione
Be’, ho cominciato a registrare questo album a casa diversi anni fa. Volevo vedere quali strumenti avrei potuto utilizzare con queste canzoni. Fatto questo, le ho portate in un altro studio di registrazione (quello di Nick Zubeck, che ha prodotto l’album con me). E così abbiamo iniziato a registrarle daccapo, per vedere come avremmo potuto arrangiarle. Dopo di che ho trascorso un po’ di tempo con la band al completo e con due produttori diversi (Sandro Perri e Les Cooper) per cercare di sviluppare gli arrangiamenti che erano venuti fuori a me e Nick. In seguito sono andato in un bellissimo studio (Revolution Recording) che un mio amico ha aperto a Toronto dove abbiamo iniziato a registrare le canzoni. Insomma, siamo arrivati alla registrazione definitiva dopo aver lavorato tanto sugli arrangiamenti.

Al disco hanno partecipato molti musicisti come, per esempio, Sandro Perri, Tony Dekker, Daniela Gesundhet, Tamara Lindeman… Come sono nate queste collaborazioni?
Conosco Sandro da molti anni, è un musicista di grande talento e volevo collaborare davvero con lui su questo album. Così, quando è arrivato il momento di lavorare sugli arrangiamenti, è venuto e ha trascorso diversi giorni con me e la band offrendo le sue idee. Anche Tony Dekker lo conosco da molti anni, ma lui non ha mai partecipato a nessuno dei miei album. Così, questa volta mi sono detto che glielo avrei chiesto. E quando l’ho fatto, ha accettato volentieri. Daniela Gesundhet e Tamara Lindeman sono due cantautrici fantastiche di Toronto. Non solo amo le loro canzoni, ma anche le loro voci. Così ho voluto che facessero parte di questo album. Penso che tutti dovrebbero ascoltare la loro musica. È meravigliosa.

C’è un canzone di questo album alla quale sei particolarmente legato?
Sono davvero contento di come la maggior parte di queste canzoni siano venute, ma ce ne sono alcune di cui sono particolarmente fiero. Una di queste è “Stealing Beauty”. Ho dedicato molto tempo a questa canzone, lavorando sul testo per diversi mesi, senza però riuscire a trovare la voce giusta per cantarlo. Così l’ho buttato via e ho iniziato a scriverne uno nuovo. È stato molto difficile trovare l’intonazione giusta per quella canzone. Devo l’arrangiamento di questo pezzo a Nick Zubeck. L’altro brano di cui sono molto orgoglioso è “In The Dark You can Love This Place”, e una delle ragioni per cui sono così affezionato a questa canzone è il ritmo di batteria. L’abbiamo elaborata più volte. Nessuno degli arrangiamenti venuti fuori per quel pezzo ci sembrava giusto. E poi ricordo che il mio batterista, Marshall Bureau, ha iniziato a suonare questo nuovo ritmo che ha immediatamente attirato la mia attenzione. E non appena ha cominciato a suonarlo tutto si è composto rapidamente. Quindi devo molto a Marshall per come quella canzone è venuta fuori.

So che oltre ad ascoltare tanta buona musica sei anche un divoratore di libri. Mi dici cosa hai letto ultimamente?
Sì, adoro i libri. Ho appena finito di leggere un grande libro di una scrittrice di Toronto, Sheila Heti, intitolato “How a Person Should Be”. È stato meraviglioso. Sto anche rileggendo “Lolita” di Vladimir Nabokov. E parecchi libri sulla musica: “How Music Works” di David Byrne, “Tune Smith” di Jimmy Webb e ” Songwriters on Songwriting ” di Paul Zollo

Ci vedremo presto in Italia?
Sì, sicuramente. Ho in programma alcuni live in Italia come parte del prossimo tour. Per questo album sto lavorando con un’etichetta italiana (Ghost Records). Quindi passerò più tempo possibile nel vostro meraviglioso Paese.

A voler essere sincero, anche questa volta non è stato difficile innamorarmi del tuo disco, perché è andato dritto al cuore. Quindi, grazie per la disponibilità ma soprattutto per la musica che fai. Buona fortuna, Barzin!
Tu sei troppo gentile, Luca. Sono lieto di sapere che l’album ti sia piaciuto. E grazie per aver dedicato il tuo tempo a parlare con me delle mie canzoni. In questi anni mi sei stato di grande supporto, quindi ti ringrazio.

Il nuovo album è in full streaming sul sito del New York Times



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Teho Teardo e Blixa Bargeld a Roma: emozioni tra cielo e terra.

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Le emozioni hanno un peso. E mai come questa sera sembra essere così evidente. L’occasione ci è data da due rocker d’avanguardia come Teho Teardo e Blixa Bargeld che, nella suggestiva cornice della Chiesa Evangelica Metodista di Roma, chiudono egregiamente l’ultima serata di Chorde 2014 – Suoni tra cielo e terra: rassegna di musica contemporanea, giunta alla sua terza edizione, messa in piedi dal Lanificio 159. Un’ora e mezza di sonorità elettroniche, dark e noise che si muovono magistralmente tra sperimentazione e stilemi di musica colta, dove la voce e la teatralità di Bargeld sembrano essere decisamente a proprio agio; tutto questo grazie al solito inappuntabile comando di Teardo che, ancora una volta, dimostra di essere uno dei migliori compositori d’inizio secolo (il ventunesimo). Il pubblico è quello delle grandi circostanze, a tal punto da essere stipato quasi in ogni ordine e posto; ciononostante però ascolta – e qui è il caso di dirlo – in religioso silenzio, per poi esplodere in applausi scroscianti alla conclusione di ogni brano, soprattutto dopo essere stato rapito da canzoni come Still smiling, Come up and see me, Alone with the moon, Defenestrazioni e la ben più nota A Quite Life, composizione scritta da Teho e Blixa per il film “Una vita tranquilla” che ha sancito, vivaddio, la loro amicizia e il loro sodalizio artistico. Un legame rafforzato dall’ormai onnipresente e brava violoncellista Martina Bertoni che, assieme al supporto di un giovane quartetto d’archi fatto salire sul palco quasi a fine esibizione, ha reso ineccepibile questo inconsueto concerto romano. Un concerto dove le emozioni hanno un peso e che, in serate come queste, sembrano restare sospese tra cielo e terra. (Luca D’Ambrosio)



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Pillole quotidiane: Loser di Beck

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Ragazza con occhiali da sole che guida, fuma, parla al telefono, si guarda allo specchietto retrovisore interno e infine getta il mozzicone di sigaretta dal finestrino del SUV. Ho detto tutto. Il futuro è già stato scritto. “I’m a loser baby, so why don’t you kill me?” (L.D.)



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