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Pillole quotidiane: Jim Cain di Bill Callahan

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E poi ci sono quelle canzoni di cui non puoi più fare a meno. Come se fossero state scolpite nell’anima, diventando un tuo modo di vedere e di sentire le cose. Canzoni di una bellezza struggente che tornano a farti compagnia ogni qual volta che alzi lo sguardo al cielo e ti accorgi che, nonostante il buio, la morte e le insicurezze della vita, i tuoi desideri sono ancora più grandi di tutto quello che avevi immaginato. Più grandi di tutto ciò che finora hai iniziato o smesso di cercare. (L.D.)



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Intervista ai C+C=Maxigross

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Alla luce del loro primo vero album intitolato “Ruvain”, pubblicato lo scorso aprile dalla Vaggimal Records, i C+C=Maxigross si sono confermati una delle realtà musicali indipendenti più coraggiose in Italia. Non a caso, infatti, il collettivo folk/pop psichedelico della Lessinia (zona geografica delle Prealpi), dopo il pregevole EP d’esordio del 2011, ha continuato a percorrere quelle scie sonore già tracciate da Neil Young, Bob Dylan, The Band, Beach Boys, Grateful Dead e altri ancora, senza però mai smarrire la propria identità e persino una certa attualità (Devendra Banhart su tutti). Insomma, una delle poche band del nostro Bel Paese che una volta tanto, vivaddio, non è caduta nel tipico stereotipo italiano. Una formazione che, oltretutto, in occasione della premiazione del PIMI 2013 a Pistoia, è riuscita addirittura a sorprenderci anche dal vivo, dimostrando carisma e talento. Ragion per cui non abbiamo esitato un solo istante per rivolgere qualche domanda a Tobia, membro e portavoce dei C+C=Maxigross. Buona lettura.

Intervista ai C+C=Maxigross
2013© di Luca D’Ambrosio
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Allora, ragazzi, prima di scendere nello specifico, ve la sentite di dire ai nostri lettori chi sono i C+C=Maxigross?
I C+C=Maxigross nascono prima di tutto come un gruppo di amici, che poi è diventato un gruppo musicale. Formalmente siamo nati nel 2008 circa, scegliendoci un nome totalmente a caso durante una scampagnata sulle colline passata a strimpellare qualche canzone che poi è entrata veramente nel nostro primo repertorio. All’inizio eravamo in tre: Pippo, Ambro e io, Tobia. Amici da quando eravamo teenager. Chitarre acustiche ed elettriche, basso, organetto. Ci serviva un batterista. Perciò dopo un po’ di jam e qualche prima bozza di canzone abbiamo coinvolto Carlotta, che già suonava con me nei Klein Blue, altro progetto folk pop cantautorale (prima pubblicazione Vaggimal Records) dove lei cantava e io suonavo la chitarra. Aveva appena iniziato a suonare la batteria, e la prima cosa che le abbiamo detto è stata: devi fare i passaggi come Ringo. Mica poco. Solo nell’aprile 2011 è uscito il nostro primo EP “Singar”, per Vaggimal Records in collaborazione con 42 Records. E da lì abbiamo iniziato a suonare veramente in giro e a farci conoscere. Nell’ultimo concerto del 2011 a fine dicembre è entrato nella formazione il quinto elemento Trambu, banjista, mandolinista, chitarrista e talvolta batterista. Questa è stata la formazione sino ad ora. Se ripensiamo a quante cose sono successe, come eravamo, come siamo adesso, quanta fatica e quante cose belle sono passate mi gira la testa!

Quanto è importante il legame con la vostra terra d’origine? Voglio dire: l’essere nati in un piccolo paesino di montagna vi ha dato qualche stimolo in più oppure no?
Il legame con la terra d’origine è una cosa molto personale. Ognuno lo sente alla sua maniera. Sicuramente io collego la Lessinia alla mia infanzia e alla sua componente magica, com’è magico per un bambino passare un’estate coi proprio nonni in montagna. Per quanto io sia nato in città tutta la musica che faccio e che sento credo sia connessa fortemente con queste sensazioni, quasi inconsce. Quando ci ritiriamo a Vaggimal, piccolissimo paesino dove abbiamo la nostra casa-studio, il tempo letteralmente si ferma. Lo scorso ottobre abbiamo fatto una pausa dal tour e abbiamo passato quasi un intero mese senza scendere in città perchè stavamo registrando delle altre band. È stato un autunno caldo, luminoso e rigenerante. Certo poi siamo legati alle tradizioni di queste montagne, e stiamo cercando a nostro modo di rivalutarle, almeno dal punto di vista che ci riguarda, quindi musicale e artistico. Quindi di stimoli ne abbiamo avuti molti, perchè è un ambiente speciale. Non sarebbe successo lo stesso se fossimo nati in una grande città. Le dinamiche sarebbero state totalmente diverse.

Com’è venuta fuori questa vostra passione per la musica anglosassone e per le sonorità folk e psichedeliche? Papà, mamma, amici…
Io personalmente ho sempre ascoltato musica anglosassone, sin da piccolino, ed effettivamente mia madre mi ha passato dei dischi di Beatles e CSN&Y che sono sicuramente tra le nostre maggiori influenze. Ma in realtà è stata una cosa molto naturale. Ognuno di noi ha gusti diversi, chi ascolta più psichedelia, chi più pop, chi più musica italiana e chi più robe pesanti. Ma il punto d’incontro per tutti sono sicuramente le atmosfere anni’ 60.

Cantate in inglese, italiano, spagnolo, cimbro (dialetto, di origine germanica, del Veneto e Trentino). È un modo per sentirvi liberi, autentici e non legati a uno specifico stereotipo musicale e culturale?
Assolutamente sì. Hai colto perfettamente. Mi angoscia il pensiero di fare musica per un unico pubblico. Mi spiace ma i gruppi che cantano solo in italiano mi pare che si autolimitino. Rispetto le scelte di ognuno. Ma nel nostro caso sono fermamente convinto che non ci sia motivo di darsi limiti di genere e linguaggio. Alla fine si tratta di comunicare l’atmosfera giusta. Senza pensare a che lingua stai utilizzando. Certo, noi cantiamo prevalentemente in inglese. Ma d’altronde la storia della musica pop rock è stata fatta dagli anglofoni. E cantare in inglese è la migliore maniera per poter essere ascoltati in ogni angolo del globo. Lo fanno i Motorpsycho, norvegesi che amiamo moltissimo, come i Phoenix, gruppo pop di gran classe. Alla fine è un po’ il nostro concetto di psichedelia: fare musica senza limite alcuno. I brasiliani Os Mutantes in questo sono dei veri maestri.

Come nasce il vostro nome? A me sinceramente – e penso di non essere stato l’unico – ha fatto pensare subito a un supermercato, un centro commerciale…
Come dicevo alla prima domanda è stato scelto totalmente a caso per dare un nome a un progetto musicale senza alcuna pianificazione. Stavamo cercando un nome che non fosse collocabile a una lingua specifica. Erano gli anni dei Strokes, White Stripes, Hives e compagnia bella. E d’altronde un nome italianissimo tipo quelle cose lunghe che vanno da un po’ tipo Le Maschere del Teatro Della Centrale Del Dolore Post Ragazzi Morti Sas non lo volevamo. Ricordo ancora che è stato suggerito da Ambro o Pippo mentre eravamo in macchina scendendo da Cavalo, un paese dove Ambro aveva una casa da piccolo. Quando l’hanno proposto io non sapevo neanche che fosse il nome di una catena di Cash & Carry veronese, distribuita in larga parte d’Italia.


Secondo le vostre intenzioni originali, come lo dovremmo pronunciare? In italiano, in inglese…
Noi lo diciamo sempre in italiano, ma è bello anche pronunciarlo in inglese. Soprattutto da quando in America abbiamo scoperto che Maxigross significa Supergrezzo. Cash & Carry = Supergrezzo.

Bene, ora che abbiamo esaudito queste prime curiosità “storiche” e se vogliamo anche “antropologiche” sulla vostra band, parliamo un po’ della vostra musica e soprattutto della vostro ultimo disco. Siete passati dal “cantare” di Singar (2011) al “rumoreggiare” di Ruvain (2013), il vostro primo vero album pubblicato lo scorso aprile. Quanto è stato difficile gestire questo secondo passo alla luce del successo ricevuto con quel primo EP che tanto aveva fatto parlare di voi?
Il passo poi è stato semplice. Volevamo registrare nuove canzoni. Nuove atmosfere. Più mature. Abbiamo contattato Marco Fasolo, ha deciso di lavorare con noi e ci si è aperto un mondo. Presa diretta, strumentazione vintage, poche sovraincisioni, suoni giusti e ricercati. Per noi che venivamo da una media di 52 tracce digitali di sovraincisioni barocche, traccia per traccia ognuno da solo col metronomo, essere limitati a massimo 8 tracce analogiche suonando assieme nella stessa stanza è stata una vera epifania. Le canzoni registrate con lui sono state la base su cui poi abbiamo lavorato alle restanti registrate da soli nel nostro studio a Vaggimal. Ci siamo totalmente immersi nella nostra musica per due settimane tra maggio e giugno 2012, su in montagna, suonando indisturbati tutto il giorno e la notte, finendo a jammare fino alle 5 di mattina mentre il sole sorgeva sulla vallata che si vede dalla vetrata affianco al camino.

“Singar” è un EP immediato, fatto di belle canzoni, su tutte Low-Sir, però “Ruvain”, che vede Marco Fasolo dei Jennifer Gentle in cabina di regia, fa un passo decisamente avanti per la sua compattezza, rivelandosi un album ben arrangiato e completo. Ci raccontate cosa è successo nei due anni che sono intercorsi tra quel primo lavoro discografico fatto rimbalzare in rete e quest’ultimo?
Le lavorazioni di “Singar” (comprendendo registrazioni, mix e pubblicazione) sono durate tantissimo, una cosa come due anni per sole 7 canzoni, dal 2009 al 2011. Semplicemente perchè è nato come un gioco. Un gioco musicale in cui abbiamo approfittato del fatto che Ambro stesse studiando per diventare fonico alla Sae di Milano. Non facevamo concerti, non avevamo tempistiche alcune, nessun obbiettivo se non quello di divertirci per mettere su disco quello che avevamo in testa. Infatti quasi tutti i progetti di Logic delle canzoni erano formate da decine e decine di sovraincisioni. Una cosa folle! Nel mentre però era già partita l’avventura della nostra etichetta Vaggimal Records con due EP (Klein Blue e Spagetti Bolonnaise), e perciò mente eravamo al lavoro su “Singar” ci siamo resi conto che il progetto Vaggimal, nonostante anch’esso nato senza alcuna cognizione di causa e obbiettivo preciso, aveva iniziato ad aprire una piccola strada. Perciò ci siamo accodati e finalmente l’EP è uscito ad aprile 2011, in collaborazione con 42 Records per l’uscita digitale. Avevano già pubblicato in questa forma gli Spagetti Bolonnaise e fu così anche per noi. Poi è tutto partito, pian pianino, ma è andato. Praticamente abbiamo fatto 80 concerti in un anno e mezzo in tutta Italia, più mini tour USA dopo la vittoria ad Arezzo Wave, con quelle 7 canzoni. Che già pochi mesi dall’uscita dell’EP ci stavano strette. Però ci siamo veramente tanto affezionati. Nonostante facciamo un po’ fatica a suonarle ancora live! Ovviamente nel frattempo siamo maturati, cresciuti e cambiati tanto. Sia come singoli che ovviamente come banda. “Ruvain” è una specie di diario interiore e collettivo di questi due anni passati a suonare in giro conoscendo un sacco di persone e musicisti incredibili. Nel video teaser per lanciare il disco abbiamo provato a comunicare questa sensazione: sono 5 minuti in cui passano in ordine cronologico un sacco di riprese diversissime tra loro fatte da 5 anni fa fino a poco prima dell’uscita dell’ultimo disco. Il tutto mentre suona la coda strumentale di “Testi’s Baker/Jung Neil”, il brano che abbiamo registrato in presa diretta alle cinque di mattina che ti dicevo prima.

Avete suonato dal vivo in tantissimi posti, se non ho letto male mi sembra anche al CMJ Music Festival di New York, vero?
Con la festa dell’ultima data del 2013 che faremo a Verona a Santo Stefano, raggiungeremo la quota di 150 concerti in 2 anni e mezzo circa. Si abbiamo suonato al CMJ di NY quando abbiamo vinto Arezzo Wave nel 2012, e abbiamo fatto un mini tour negli USA: 5 date tra NY e Boston. Poi anche un po’ di date in Europa: Croazia, Slovenia, Germania e Austria. Presto andremo in Olanda e arriveranno molte altre sorprese.

Avete ricevuto diversi riconoscimenti, l’ultimo dei quali a Pistoia, dove ho avuto il piacere di premiarvi personalmente consegnandovi il PIMI 2013 per “Ruvain”, che si è aggiudicato la targa come “Miglior autoproduzione dell’anno”. Mi viene subito da chiedervi: cosa vuol dire per voi essere indipendenti e autoprodurvi?
Sicuramente il PIMI è stato il premio più importante preso fino ad ora. Senza nulla togliere ad Arezzo Wave ovviamente! Inaspettati tutti e due ma molto molto emozionanti, se ci ripensiamo un attimo. Autoprodursi per noi è la cosa più naturale di tutte. È il senso primario del nostro progetto. Non saremmo così come siamo ora se da subito non avessimo creato tutto questo da soli. Scegliendo le realtà e le collaborazioni che sentivamo più affini e genuine. Praticamente non abbiamo impiegato alcuna energia e tempo a cercare qualcuno che potesse puntare e investire su di noi perchè da subito abbiamo capito che non c’era nessuno meglio di noi che ci potesse capire e impegnarsi. Abbiamo puntato su noi stessi. E questo è il consiglio che diamo spesso alle nostre bande amiche o che conosciamo in giro. Spaccatevi il culo. Non fermatevi mai. E se vi fermate fatelo per rilassarvi, ripigliarvi per poi ricominciare più forti di prima. Noi sono 3 anni che non ci fermiamo (a parte qualche pausetta obbligata). E ogni mese che passa c’è sempre più roba da fare. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare dei musicisti e dei collaboratori splendidi con cui lavorare, con cui prima di tutto l’intesa è umana, poi professionale. Marco Fasolo come produttore, musicista e grande ispiratore, Gianluca e Damiano di Trovarobato/Sfera Cubica/Modernista, nostri booking agent e manager, ci aiutano a rendere più chiare le nostre visioni e il nostro percorso. È una cosa bellissima. Come conoscere nuove bande, collaborare, fare concerti assieme e magari qualche disco.


Ascoltandovi dal vivo mi ha avete sorpreso. Un bel sound. Un bell’affiatamento. Questa vostra coralità che si fonde perfettamente con sonorità ora acustiche e ora elettriche. Davvero bravi. Quanto tempo passate a suonare insieme e come mettete su una canzone?
Grazie mille, siamo lusingati perchè per noi l’aspetto live è tutto. Molte della bande che amiamo e che ci ispirano erano delle vere macchine da concerto: The Band e The Grateful Dead per dirne due tra le più fondamentali. La cosa divertente è che prima di fare concerti tutte le settimane, quindi fino a metà del 2011, facevamo una prova fissa ogni week end, perché durante la settimana studiavamo in città differenti. Così abbiamo creato una sinergia e una forte sintonia, oltre a comporre un sacco di pezzi. Poi quando i concerti hanno iniziato ad essere sempre di più, riempiendoci quasi tutti i weekend abbiamo praticamente smesso di provare. E da lì abbiamo iniziato a dilatare molto i nostri pezzi. Così siamo arrivati al punto che praticamente ora facciamo qualche prova al mese se va bene, dove impostiamo dei pezzi, che poi consolidiamo live. Lo so, non è il massimo. Ma è l’unico compromesso che abbiamo trovato tra il fare pezzi nuovi e il poter vedersi solo i weekend. O si suona o si prova! Comunque la nostra modalità compositiva è molto corale e variegata: o qualcuno arriva con un’idea di pezzo e la si arrangia tutti assieme, mettendoci abbastanza poco a dargli una struttura definitiva, oppure si improvvisa, anche totalmente a caso, e qualcosa viene fuori. Il nuovo album conterrà molte più atmosfere orientate verso questo mondo, rispetto a “Ruvain” che ne aveva solo pochi sprazzi, quasi totalmente assenti in “Singar”.

Prima di salutarci, vogliamo dire ai nostri lettori cosa state progettando per il prossimo futuro?
Nel 2014 la nostra parola d’ordine sarà “international”. È stato un 2013 bellissimo, ricco di soddisfazioni. Molto italiano però. Siamo lusingati dai riscontri ottenuti in patria. Ma proprio per questo sentiamo il bisogno di iniziare a concentrarci seriamente sul mondo là fuori. Registreremo il nuovo album (abbiamo già svariati pezzi nuovi) e faremo delle collaborazioni, appunto estere, che non vediamo l’ora di poter comunicare. Insomma, al lavoro come al solito!

In bocca al lupo e grazie per la disponibilità!
Grazie a te Luca, è sempre un piacere, soprattutto ora che ci siamo finalmente conosciuti di persona e non siamo più solo due indirizzi mail che comunicano tra loro!

Ascolta in full streaming “Ruvain” (Vaggimal Records, 2013)




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Pillole quotidiane: That Petrol Emotion

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Quando l’amicizia non era né una richiesta né una concessione, ma semplicemente uno stato di fatto. Quando l’unico modo per condividere la musica era quello di registrare un’audiocassetta, per poi consegnarla direttamente nella mani del proprio amico e dirgli: “Niente, volevo farti ascoltare questo gruppo, credo che sia irlandese. Si chiama That Petrol Emotion e la mia preferita è Can’t Stop.” (Luca D’Ambrosio)




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Pillole quotidiane: Working Class Hero di John Lennon

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Oggi sono andato a un colloquio di lavoro per venditori. Sono entrato nella stanza destinata alle “risorse umane”, ho salutato e subito dopo mi sono seduto. Avevo di fronte a me una ragazza molto giovane e visibilmente avida, probabilmente alla sua prima esperienza lavorativa. Era rigida, altezzosa, parlava come un automa e faceva delle domande a mio avviso stupide. Insomma, aveva la tipica espressione della maestrina di stocazzo. E così, per non apparire come una persona scortese, le ho risposto da bravo scolaretto. Terminata la pantomima, uguale dal primo all’ultimo aspirante “suicida”, mi sono alzato, le ho dato la mano e, guardandola negli occhi, le ho detto: “In bocca al lupo!” (Luca D’Ambrosio)



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Fabrizio De André – La Buona Novella (1970)

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A proposito del grande Fabrizio De André (cantautore nato a Genova nel 1940 e scomparso a Milano nel 1999) molti dicevano che fosse il Bob Dylan italiano, ma c’era anche chi – come la mai dimenticata Fernanda Pivano – sosteneva pure il contrario, ovvero che Bob Dylan fosse il Fabrizio De André americano. Un’affermazione decisamente audace, ma non per questo infondata se consideriamo il talento ma soprattutto la complessità umana dei due personaggi che, sovente, nel corso delle loro rispettive carriere, hanno dato vita a capolavori unici e irripetibili della storia della popular music. Gemme che hanno saputo sorprendere una società molto spesso stereotipata e poco attenta al particolare, alla diversità, al senso “altro” delle cose e della vita. È il caso, per esempio, de La Buona Novella di De André, un concept album incentrato sulla cristianità che, prendendo spunto dai vangeli apocrifi, celebra e commemora rispettivamente la nascita e la morte di Gesù di Nazareth attraverso una vivida allegoria composta da dieci tracce (cinque per lato, qualora aveste la possibilità di ascoltarlo su vinile) della durata complessiva di poco più di trentacinque minuti. Una miscela ben equilibrata di musica sinfonica, canti liturgici e cantautorato folk italiano che non perde mai di tensione e intensità, grazie alla voce inconfondibile di Faber (così soprannominato dall’amico e attore Paolo Villaggio) e a una scrittura lirica e musicale che, quantunque erudita e complessa, riesce a coinvolgere l’ascoltatore fin dalle prime battute. Ne è la prima lampante dimostrazione la brevissima ode al Signore, “Laudate Dominum”, che introduce “L’infanzia di Maria”, brano che ti scoppia subito nel cuore e da cui viene fuori la figura di una Maria nata – secondo il protovangelo di Giacomo – per grazia dello spirito divino e per questo motivo sacrificata al Tempio del Signore e costretta a vivere un’infanzia difficile:“Forse fu all’ora terza, forse alla nona, cucito qualche giglio sul vestitino alla buona, forse fu per bisogno o peggio, per buon esempio, presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio […] E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio avevi dodici anni e nessuna colpa addosso: ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso.” Ma sarà la traccia successiva,“Il Ritorno di Giuseppe” (“Ai tuoi occhi, il deserto, una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura. […] E lei volò fra le tue braccia come una rondine, e le sue dita come lacrime, dal tuo ciglio alla gola, suggerivano al viso, una volta ignorato, la tenerezza d’un sorriso, un affetto quasi implorato”), a rendere giustizia al sacrificio e alla sofferenza della Vergine e alla fatica di un povero Giuseppe, appena tornato dal lavoro, pronto a sostenere “Il Sogno di Maria” (“Lo chiameranno figlio di Dio: parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno, ma impresse nel ventre”), canzone catartica e di una bellezza struggente che si conclude con il verso “E tu, piano, posasti le dita all’orlo della sua fronte: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte” e che schiude le porte a una “Ave Maria” che inneggia alla donna in quanto madre: “Ave Maria, adesso che sei donna, ave alle donne come te, Maria, femmine un giorno per un nuovo amore povero o ricco, umile o Messia. Femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente”, ed è esattamente in questo modo che si chiude la prima parte del disco. Da questo momento in poi si sprofonderà, sempre di più, in un vortice di emozioni che – a partire da “Maria nella bottega di un falegname” (una conversazione tra Maria, il falegname e la “gente”) alle conclusive “Il testamento di Tito” (il buon ladrone pentito e crocefisso accanto a Gesù) e “Laudate hominem” (che elogia l’uomo poiché fratello e figlio di un altro uomo) – esalterà la Passione di Cristo e il dolore degli ultimi e dei dimenticati: basta ascoltare le parole di “Via della Croce” (“Ma gli occhi dei poveri piangono altrove, non sono venuti a esibire un dolore che alla via della croce ha proibito l’ingresso a chi ti ama come se stesso”) oppure di “Tre madri” (”Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l’immagine d’un’agonia: sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno: lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte“) per rendersene conto immediatamente e per scoprire, oltretutto, la sensibilità di un cantautore e di un poeta come pochi in Italia (e forse anche nel mondo) ce ne sono stati. Un personaggio colto, umile e mai banale: sicuramente una delle figure più importanti della cultura italiana del Novecento. Un cantastorie – consentitemi l’uso di questo appellativo, nonostante possa sembrare riduttivo – che nel 1969, in piena contestazione studentesca, decise di immergersi nella scrittura di un album basato sulla nascita di Gesù e del cristianesimo, sottolineando, tuttavia, l’aspetto più umano e meno spirituale di questo avvenimento religioso. E a chi gli chiese perché proprio quella scelta in quel periodo storico così agitato e rivoltoso, il libertario Fabrizio De Andrè rispose dicendo che, secondo lui, Gesù di Nazareth è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, un signore che molto tempo prima aveva combattuto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. Prodotto da Roberto Dané e arrangiato da Gian Piero Reverberi (anche se nel booklet originale troverete scritto Giampiero Reverberi), La Buona Novella vedrà la luce nel 1970 e con il passare degli anni si confermerà – malgrado quel titolo apparentemente reazionario – uno dei lavori discografici più anarchici, rivoluzionari e appassionanti della carriera del musicista e cantante genovese ma anche della musica d’autore italiana. Insomma, un disco natalizio, ma non solo. Con buona pace di credenti e non credenti. (Luca D’Ambrosio)

Articolo pubblicato sul numero di Natale 2013 del periodico polacco La Rivista.



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Vi presento Charlie Parr

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È domenica mattina. Il cielo è quasi completamente grigio, la città è ferma e i pensieri sembrano essere svaniti con l’ultimo sorso di caffè. Chissà, forse è proprio questa l’occasione giusta per presentarvi Charlie Parr.



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Jonathan Wilson – Fanfare – 2013 (full album stream)

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Dentro Fanfare ci sono un sacco di cose che amo: dal folk alla psichedelia, passando addirittura per il progressive rock, genere che, a voler essere sincero, non ho mai digerito con tanta facilità e che, invece, in questo terzo album di Jonathan Wilson risulta decisamente gradevole e ammaliante. Dicevo: dentro Fanfare ci sono un sacco di cose che amo. C’è l’Inghilterra di Bill Fay, come pure il ricordo di John Martyn e George Harrison, ma soprattutto c’è l’America del Rock, quella cantata e sognata da Neil Young e dai Byrds, giusto per fare qualche nome, le cui ombre si allungano un po’ ovunque in questo nuovo lavoro del cantautore di Forest City (North Carolina). Un meraviglioso caleidoscopio di emozioni dove, in alcuni passaggi, mi è sembrato di ascoltare persino il fantasma di un altro Wilson, quello del bellissimo Pacific Ocean Blue. Collaborano al disco Jackson Browne, David Crosby, Mike Campbell, Graham Nash, Josh Tillman e molti altri ancora. E io mi sento a casa. (Luca D’Ambrosio)



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Billy Bragg – Tooth & Nail, 2013 (full album stream)

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Il “ragazzo col ciuffo” è tornato ed è sempre un piacere ascoltarlo, soprattutto quando realizza dischi di una bellezza cristallina come Tooth & Nail. Dodici ballate da far venire i brividi lungo la schiena (“Goodbye, Goodbye” su tutte). Dodici canzoni che vanno dritte al cuore, compresa una cover di Woody Guthrie (“I Ain’t Got No Home”). In cabina di regia c’è Joe Henry, mentre Billy Bragg suona e canta come se fosse un musicista country rock. Lo fa alla grande e con trasporto. Quanto basta per annoverare quest’ultima fatica del menestrello inglese nella lista dei miei dischi preferiti del 2013. Con buona pace dell’hipster postmoderno. (Luca D’Ambrosio)



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Kacey Johansing – Grand Ghosts (2013)

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Dopo aver debuttato nel 2010 con Many Seasons, Kacey Johansing torna con un altro delizioso album intitolato Grand Ghosts. Pubblicato lo scorso 26 febbraio, il nuovo lavoro discografico della cantautrice americana – originaria del Colorado ma residente a San Francisco (California) – si rivela, fin dal primo ascolto, estremamente piacevole. Un folk pop elegante, raffinato, ben arrangiato e mai sopra le righe, con la voce di Kacey a farla da padrone: eterea, carezzevole e a tratti persino graffiante. Grand Ghosts è un disco senza fronzoli che si lascia ascoltare tranquillamente dalla prima all’ultima traccia. Ed è proprio per questo motivo che vi consiglio di ascoltarlo in streaming integrale via SoundCloud. Buon ascolto e mi raccomando, fate attenzione a non innamoravi… (Luca D’Ambrosio)


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I Blur a Roma (29.07.2013)

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Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree si presentano sul palco di Rock in Roma con evidente ritardo: sono infatti passate da poco le dieci e ancora nessuna traccia dei magnifici quattro. Il pubblico dell’Ippodromo delle Capannelle – affollato come non si era mai visto in questi giorni di festival – è visibilmente impaziente, complice anche un’afa davvero insopportabile. E proprio quando l’agitazione sembra che stia travalicando il limite, ecco che i Blur fanno il loro ingresso con Girl & Boys che fa esplodere in un boato assordante spalti e platee, e tutti, improvvisamente, si scrollano di dosso il peso della calura e delle lunghe ore di attesa. Albarn è in uno stato di forma eccellente: canta, saltella e rinfresca le prime file gettando loro l’acqua contenuta nelle bottigliette messe a disposizione del gruppo inglese. Di lì a poco è l’inizio dell’estasi: una vera bolgia di piacere fatta di cori e suoni al fulmicotone che, subito dopo, prosegue con Popscene fino a raggiungere l’apice con Parklife. C’è feeling. C’è follia. C’è voglia di divertimento. C’è un grande pubblico composto da giovani e meno giovani, ma soprattutto c’è una grande band questa sera a Roma. Senz’ombra di dubbio una delle migliori formazioni della storia del pop inglese. Quattro personaggi che dal vivo hanno saputo mettere in evidenza un’attitudine punk figlia di quell’Inghilterra audace, ribelle, stravagante e trasgressiva che ben conosciamo. Ecco perché sono i Blur i migliori eredi della scena pop rock britannica di questi ultimi vent’anni. Lo hanno dimostrato con un’ora e mezza abbondante di concerto in cui non hanno mai abbassato la tensione. Lo hanno fatto divertendosi e facendoci divertire, fino a far deflagrare l’Ippodromo delle Capannelle con Song 2, canzone nota anche ai profani che chiude meravigliosamente e in maniera pirotecnica, almeno per chi scrive, questa edizione di Rock in Roma 2013. God save the Blur.

Qui l’intera setlist del concerto del 29.07 a Rock in Roma 2013.

Qui, invece, le foto.



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