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Bob Dylan – Blood On The Tracks (1975)

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Ero adolescente e Stefano, se non ricordo male, fece un piccolo sondaggio tra i compagni di scuola per sapere quale fosse la più bella canzone d’amore mai scritta. Prima di me toccò al buon Mauro che disse: «“In Ginocchio da te” di Gianni Morandi.» Poi venne il mio turno e, senza pensarci due volte, risposi: «”You’re a big girl now” di Bob Dylan.» È con questo flashback che mi sono svegliato questa mattina e, sinceramente, non saprei spiegarmi il motivo di questo pensiero mattutino; o forse c’è, in ogni caso non è mia intenzione stare a rovistare nel passato. Resta il fatto però che Blood on The Tracks è uno dei miei dischi preferiti del menestrello di Duluth e non solo per quella abbagliante poesia che prende il titolo di You’re a Big Girl Now, ma per ogni singolo brano di questo lavoro da cui stillano gocce di sangue e di passione. Un disco, il quindicesimo per l’esattezza, che vide la luce in uno dei maggiori momenti di difficoltà, sofferenza e riflessione di Dylan in rotta di collisione con la moglie Sara Lownds, che già in passato aveva ispirato l’artista americano, e da cui nascono brani del calibro di Tangled Up In Blue e Idiot Wind che mescolano dolore, ardore e dolcezza. Un album folk rock ben arrangiato e dai suoni levigati che pur perdendo, almeno in parte, l’istintività di capolavori come The Freewheelin’ Bob Dylan (1963), Highway 61 Revisited (1965) e Blonde on Blonde (1966) – solo per citarne alcuni dei trentacinque dischi realizzati finora in cinquant’anni di carriera – non perde un grammo di profondità e trasporto. E nonostante siano passati molti anni da quel sondaggio fatto a scuola, quella canzone resta sempre una delle più belle dichiarazioni d’amore mai scritte. Con la speranza, ovviamente, che il mio amico Mauro nel frattempo abbia cambiato idea. Io, intanto, ascolterò nuovamente Blood on The Tracks cercando di capire il motivo di questa singolare reminiscenza. E allora via con la prima traccia: “Early one mornin’ the sun was shinin’ / I was layin’ in bed…” (Luca D’Ambrosio)



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Thayer Sarrano – Lift Your Eyes To The Hills (2012)

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Thayer Sarrano è una giovane musicista e cantante americana che arriva da Athens, Georgia. Ed è quasi superfluo sottolineare che il suo stile è molto vicino a quello di Hope Sandoval, anche se a tratti sembrerebbe una via di mezzo tra Beth Gibbons e Cat Power. Tuttavia non c’è paragone che tenga perché Thayer Sarrano ha un’espressività e un’autenticità che la rendono unica nel panorama musicale indie contemporaneo. La conferma della sua bravura ci è data da questo secondo lavoro sulla lunga distanza che giunge a tre anni di distanza dal già sorprendente King del 2009. Lift Your Eyes To The Hills è difatti un disco che sottolinea il talento della cantautrice statunitense e che evidenzia tutto il suo background da cui riecheggiano Velvet Underground, Galaxie 500, Walkabouts, Cowboy Junkies, Slowdive ma soprattutto i Mazzy Star. Un album maturo sospeso tra malinconia e oscurità, tra pop sognante e morbida psichedelia, con canzoni che filano via lisce senza mai perdere d’intensità e tepore. (Luca D’Ambrosio)


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The Black Swans – Occasion for Song (2012)

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I Black Swans non sono certo una novità del panorama musicale indie visto che hanno alle spalle diversi lavori discografici. Tuttavia, ascoltando la loro musica e soprattutto questo quinto album, il primo riferimento che ci viene in mente sono i Tindersticks, non tanto per l’aspetto sonoro di questo Occasion for Song, quantunque oscuro e affannato, quanto invece per l’umore e l’attitudine vocale del cantante e chitarrista Jerry DeCicca molto simile a quella di Stuart A. Staples. Caratteristiche che si riflettono nelle liriche profonde, nelle melodie avvolgenti e nei ritmi lenti di quasi tutte le dodici tracce del disco, a partire già dall’iniziale Basket of Light che ci dà subito il benvenuto con un folk rock malinconico e autunnale fatto di armoniche, banjo, chitarre, hammond e ritmiche indolenti. Elementi distintivi di un sound carico di pathos che rivela un’anima sostanzialmente sadcore e che non fa per nulla rimpiangere il precedente Don’t Blame the Stars del 2011. Emozionante, infine, Portsmouth, Ohio che racconta il giorno della morte in piscina di Noel Sayre, membro della band americana. Quella stessa piscina che poi è raffigurata sulla copertina dell’album. (Luca D’Ambrosio)



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Tindersticks – The Something Rain (2012)

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Sono trascorsi diciannove anni da quel sorprendente esordio firmato Tindersticks che mescolava romanticismo e atmosfere cupe e malinconiche con la voce di Stuart A. Staples così incredibilmente calda e profonda. Pop da camera grondante di passione che nel giro di due anni avrebbe condotto la formazione di Nottingham a realizzare un altro degnissimo seguito che, addirittura, riuscì a guadagnarsi un’inaspettata tredicesima posizione nella Uk Chart Album. Vennero poi altre due meraviglie come la colonna sonora Nénette et Boni del 1996 e Curtains del 1997 e, a seguire, una serie di lavori discografici che, tra alti e bassi, riuscirono a mantenere viva l’attenzione degli estimatori attraverso un mix di sonorità ricercate ed eleganti che, all’occorrenza, sapevano rivelarsi oscure e nostalgiche. Come del resto quest’ultimo lavoro intitolato The Something Rain che racchiude brani ipnotici e caliginosi capaci, in diversi passaggi, di mettere in luce melodie raffinate e dalle inclinazioni avanguardistiche. È il caso di Chocolate, lunga nenia iniziale scritta dal tastierista David Boulter, oppure della frenetica e ossessiva Frozen che si agita tra sperimentazione, elettronica e tocchi jazz. C’è poi This Fire Of Autmn, un pezzo a metà strada tra soul e avant-pop, ma sono le sensuali Come inside e soprattutto Show Me Everything i pezzi più riusciti del disco. Due passaggi davvero affascinanti dove l’espressività canora di Stuart A. Staples è degna del miglior Leonard Cohen. (Luca D’Ambrosio)


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Dola J. Chaplin – To The Tremendous Road (2012)

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Ci sono dischi così splendidamente anacronistici come To The Tremendous Road che sembrano usciti da un’altra dimensione temporale, come se improvvisamente fossimo tornati negli anni ‘80. Dischi che viaggiano in reale controtendenza rispetto a ciò che il mercato musicale offre, sia indie che mainstream. Quasi a voler riconsegnare il giusto ruolo alla musica rock. La strada. Quella strada che Dola J. Chaplin ha percorso in America con la propria chitarra alla maniera di un moderno hobo e da cui sono nati questi piccoli racconti di vita. Una strada enorme, polverosa, superba ma altrettanto difficile e insicura dalla quale però sono sbocciate gemme come Sails e Driving South che, come poche oggigiorno, vi sapranno toccare le corde del cuore. Un lavoro forse troppo raffinato negli arrangiamenti ma che tuttavia palesa una scrittura ineccepibile, quella di un giovane “brunch singer” nato in Italia che ha scritto canzoni che parlano del viaggio, della strada e dell’amore. Un album da ascoltare al crepuscolo, quando tutto intorno tace e i sogni sono alla portata di tutti. (Luca D’Ambrosio)


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Recensione: Sharon Van Etten – Tramp (2012)

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Prodotto da Aaron Dessner dei National, Tramp è il terzo album della cantautrice americana originaria del New Jersey che già nel 2009 ci aveva sorpreso con l’esordio intitolato Because I Love You. Di lì a poco Epic del 2010, il secondo lavoro sulla lunga distanza apprezzato, quasi all’unanimità, dalla critica musicale specializzata. E come dare loro torto una volta ascoltate le canzoni di questa giovane americana? Sharon Van Etten è una musicista estremamente sensibile che non ha alcuna difficoltà a trasformare, magnificamente, i propri sentimenti in musica e parole. Lo fa con stile e con amore, ma anche con tutta l’inquietudine che porta dentro di sé. Lo fa con una voce superba, profonda e tagliente (Serpents). Lo fa muovendosi abilmente tra il rock e il folk. E quest’ultima fatica è l’ennesima riprova del suo inequivocabile talento e fervore artistico. Il talento di una giovane autrice indie rock che a soli tre anni dal debutto ha realizzato il suo disco più equilibrato e completo, capace, oltretutto, di racchiudere tre gioiellini come We Are Fine, I’m Wrong e Joke or a Lie. Pubblicato all’inizio del 2012, Tramp, inoltre, vede la partecipazione di Zachary Francis Condon (Beirut), Matt Barrick (The Walkmen), Jenn Wasner (Wye Oak), Julianna Barwick e Thomas Bartlett (Doveman). (Luca D’Ambrosio)


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Teen Daze – All Of Us, Together (2012)

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Dietro lo pseudonimo di Teen Daze si nasconde un certo Jamison, giovane canadese di Vancouver di cui però, nonostante le assidue ricerche sul web, non ci è dato di sapere altro. Tuttavia, per ora, ci accontentiamo di essere venuti a conoscenza di questa sua prima fatica discografica sulla lunga distanza pubblicata dalla Lefse Records. Un album meraviglioso che arriva dopo un serie di singoli, remix ed EP quali, per esempio, A Silent Planet del 2011. All Of Us, Together non è altro che un disco di musica elettronica che si muove abilmente tra ambient, chillwave, dance e synth pop. Un lavoro, tanto da ascoltare quanto da ballare, che ci ha conquistato fin dal primo ascolto in un crescendo di emozioni spazio-temporali. Potere della tecnologia e del laptop. Provare per credere. (Luca D’Ambrosio)


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Chromatics – Kill For Love (2012)

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Uscito lo scorso marzo per la Italians Do It Better, piccola etichetta indipendente dell’italo-americano Mike Simonetti, “Kill For Love” è l’ultima produzione dei Chromatics, formazione originaria di Portland (Oregon) composta da Ruth Radelet, Adam Miller, Nat Walker e Johnny Jewel. Nato nel 2003 all’insegna del noise e del post-punk revival, dopo diversi cambi di formazione, il gruppo americano giunge al disco della maturità – il quarto per la precisione – con un sound differente dagli esordi. “Kill For Love” è difatti un album a metà strada tra l’italo disco, la chillwave e il synth pop anni ’80 che, a distanza di cinque anni, sviluppa e migliora quanto già realizzato con il precedente “Night Drive” del 2007, raggiungendo l’apice della maturità artistica. Quelle realizzate dalla indie pop band statunitense sono sedici tracce da ascoltare tutte di un fiato, a partire dalla splendida cover iniziale di “Hey Hey, My My (Into the Black)” di Neil Young il cui videoclip ufficiale vede, oltretutto, la mano di un altro italiano, stiamo parlando del videomaker Alberto Rossini. Piacevole e accattivante quanto basta, quest’ultimo lavoro dei Chromatics è un long playing da ascoltare lontano dai frastuoni cittadini e in totale relax. Segnaliamo infine anche la versione “Drumless” di “Kill For Love”, ovvero senza percussioni. (Luca D’Ambrosio)


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Offlaga Disco Pax – Gioco di Società (2012)

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Se c’è un disco di un gruppo italiano indipendente che quest’anno ha dimostrato di osare qualcosa in più rispetto agli altri, sia a livello di sonorità che di testi, in un ambito musicale stereotipato o quasi come quello nostrano, questo è senza dubbio “Gioco di Società” dei reggiani Offlaga Disco Pax. Che fosse una formazione talentuosa lo avevamo già capito con il sorprendente esordio del 2005, lavoro in cui il cantante/narratore Max Collini e i musicisti Enrico Fontanelli e Daniele Carretti, pur seguendo le scie di formazioni come CCCP – Fedeli alla Linea, Massimo Volume e Diaframma, davano uno scossone all’indie italiano con un album fuori dall’ordinario. Venne poi Bachelite nel 2008, disco altrettanto notevole che rafforzava la credibilità e l’autenticità degli Offlaga che, dopo un’assenza durata quattro anni, giungono alla realizzazione di questa terza fatica. Il disco della svolta. Un lavoro in cui la band cerca di mettere in risalto, quanto più possibile, un suono elettronico più decisamente glitch. Un’elettronica “emozionale” corredata, come al solito, da testi originali e trascinanti che danno vita a vere e proprie perle come “Palazzo Masdoni”, “Respinti all’uscio”, “Piccola Storia Ultras” e “Tulipani”. Pezzi generazionali che gli ODP hanno saputo raccontare in maniera impeccabile inserendoli all’interno di un intrigante e meraviglioso “gioco di società”, ovvero un “piccolo” capolavoro italiano. (Luca D’Ambrosio)


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Beach House – Bloom (2012)

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Il duo dream pop più ammaliante ed eccitante di questi ultimi anni è sicuramente quello formato da Victoria Legrand (voce e tastiere) e Alex Scally (chitarra). Originari di Baltimora, Maryland, i Beach House giungono al loro quarto e acclamatissimo disco con “Bloom”, un lavoro che perfeziona quel sound sognante e ipnotico che la formazione americana aveva dato vita fin dall’iniziale e omonimo esordio del 2003 e che già con Teen Dream del 2010 ci aveva fatto gridare al miracolo.

Con quest’ultimo lavoro invece tutto viene perfezionato al dettaglio: dalle melodie agli arrangiamenti, dal mood alle liriche. Canzoni che in qualche sembrano edulcorarsi ma che tuttavia non perdono mai di efficacia espressiva. Un disco dalle atmosfere magiche ed eteree che, finalmente, riesce a sdoganare il suono cosiddetto indie senza mai scadere nel commerciale. Se andavate pazzi per i Mazzy Star e i Galaxie 500 è il caso di buttarci un orecchio, anzi, due. (Luca D’Ambrosio)




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