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Richard Hawley – Coles Corner (2005)

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Richard Hawley è uno di noi. Una di quelle persone che, malgrado la vita gli abbia riservato qualche spiacevole episodio (tale da fargli crollare addosso sogni e speranze relegandolo per un po’ di tempo in quella zona oscura dell’umana esistenza), continua a confidare in quella eterna conflittualità dell’animo che soltanto un sentimento così indefinibile e straordinario come l’amore può provocare. Una di quelle persone che, terminata l’esperienza come chitarrista nei Longpigs, ha saputo risalire la china dello sconforto e del disagio umano (molto lo si deve anche all’amico Jarvis Cocker dei Pulp) riuscendo a trovare, finalmente, una propria dimensione umana e artistica. Uno spazio a sua immagine e somiglianza in grado di rivelare, fin dall’omonimo EP d’esordio del 2001, la figura di un uomo estremamente fragile e romantico il cui talento (alias fervore artistico) culmina in questo splendido Coles Corner del 2005 dove, non a caso, il titolo dell’album fa riferimento a un angolo di Sheffield dove tutti gli innamorati sono soliti darsi appuntamento (chissà quante volte ci siamo trovati in un Cole’s Corner qualsiasi ad aspettare ansiosi l’arrivo della nostra amata). Le iniziali Coles Corner, Just Like Rain e Hotel Room sono canzoni che fanno immediatamente breccia nel cuore di chiunque, attraverso una combinazione perfetta di testi pregni di passione, suoni di chitarre ovattate e arrangiamenti ricchi e ben equilibrati dove si leva la voce calda e profonda di Richard Hawley. Alla maniera di Roy Orbison, Johnny Cash e Scott Walker, il nostro songwriter, nonostante le sue origini inglesi e un passato britpop, cesella un disco di “ballate americane” davvero impeccabili come Born Under A Bad Sign, Tonight e The Ocean. Un lavoro “rock” di gran classe, intimo e al contempo vibrante, che mescola sapientemente country, pop e swing, e su cui aleggia lo spirito del mai dimenticato Elvis Presley. Quarantasei minuti di brani che sfiorano la raffinatezza di Frank Sinatra, l’armonia di Burt Bacharach e il lirismo di Leonard Cohen. Undici tracce dolci e amare che, lentamente, si stemperano sulle note conclusive dell’unico pezzo strumentale del disco, Last Orders. Prodotto dallo stesso Richard Hawley e da Colin Elliot, Coles Corner è un album per chi nella musica non cerca fragori ma forti emozioni. Magico, malinconico e per nulla alternativo come lo è ogni Natale che viene. (L.D.)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 60 del 15 dicembre 2008



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The Psychedelic Furs – Talk Talk Talk (1981)

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Un lavoro esplosivo, malinconico e smisuratamente romantico che i londinesi Psychedelic Furs realizzarono nel 1981 sbriciolando nel loro mood sonoro Roxy Music, David Bowie e Velvet Underground. Un suono che sembra percorrere certe traiettorie musicali tracciate da Echo and the Bunnymen, Wire e The Sound, con la voce di Richard Butler, sgraziata ma incredibilmente ipnotizzante, a farla da padrone. L’enigmatico Richard palesa, infatti, una timbrica distaccata e tagliente che a tratti potrebbe ricordare tanto il modo di cantare di Shane MacGowan quanto quello di Billy Bragg e Joe Strummer. Prodotto da Steve Lillywhite, l’album (il secondo delle “Pellicce Psichedeliche”) si compone di dieci inossidabili tracce, pungolate dall’inconfondibile sax di Duncan Kilburn, capaci di mostrare il lato meno oscuro della new wave; un connubio sincero di punk, dark, psichedelia e barlumi di folk al limite di un synthpop melodico e commerciale verso cui traghetterà la band negli anni a venire. La rockeggiante Pretty in Pink, la lisergica Mr. Jones, le dissonanze di Dumb Waiters e l’incedere riottoso di Into You Like A Train e It Goes On sono prove tangibili della bellezza di Talk Talk Talk. Per non parlare poi di She’s Mine, una sfavillante ballata che vorresti tenere sempre stretta al petto. Credo che sia arrivato il momento di tornare a rovistare nel vecchio scaffale. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 44 del 24 marzo 2007



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Dani Siciliano – Likes… (2004)

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Per i più avveduti il nome di questa ragazza californiana non sarà certo una novità, dato che Dani Siciliano ha già collaborato con il celebre Matthew Herbert, prestando, sia in studio che dal vivo, la sua magnifica voce dalle delicate sfumature jazz. Stanca però di essere relegata al ruolo di musa ispiratrice e di personaggio subalterno, l’artista si ritaglia uno spazio tutto suo, realizzando un album alquanto interessante. Covato per 4 anni – il tempo di organizzarsi un piccolo studio di registrazione e di apprendere l’uso di sequencer, di campionatori e di supporti vari – Likes… è il risultato di un’intensa e sentita attività musicale che mette insieme elettronica e sentimento, tecnologia e naturalezza attraverso undici frammenti sonori che fondono andature sincopate (Extra Ordinary e Collaboration) e movimenti tropicali (She Say Cliché e Walk The Line). Un connubio di flebili armonie e soffici emotività canore (Remember To Forget 1 e All The Above), di bizzarrie ritmiche (Canes And Trains) e glitch temperati (One String) in cui si adagiano, lentamente e senza infastidire, veri e propri strumenti musicali come il corno francese di Gabriel Olegavich, le fisarmoniche di Doctor Rockit e le chitarre di O. Mugison. Apparentemente noioso e privo di sporgenze, l’album stilla, – repeat dopo repeat – gocce sature di trepidazione, di tensioni post-industriali e di stati d’improvvisa quiete, come se l’intemperanza artistica di Solex venisse filtrata dal romanticismo impalpabile di Björk. Dal vivo la Siciliano è davvero brava, abile nel saper tenere la scena, nel suonare gli strumenti tradizionali (organetto, clarinetto…) e nel districarsi tra le nuove tecnologie, dimostrando che l’esperienza acquisita con Herbert non è stata vana. Gli arrangiamenti sono di Max de Wardner mentre Mr. Oizo produce Walk The Line. L’unica nota stonata è Come As You Are dei Nirvana, una versione irriconoscibile e poco appassionante che, tuttavia, nulla toglie al piacere elargito da questo buon disco d’esordio. (Luca D’Ambrosio)

Recensione pubblicata su ML – Update n. 19 del 10 ottobre 2005



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Marco Parente – Neve (Ridens) – 2005

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Neve (Ridens) è un album estremamente toccante attraverso il quale Marco Parente incita il risveglio delle coscienze. Lo si intuisce immediatamente con Wake Up, un brano che lascia trasparire intense melodie pianistiche, testi allusivi (“Sveglia! Ti stanno rubando la macchina… Ti stanno rubando il sorriso”) e un modo di cantare apparentemente indolente che trova l’espressione più alta in Amore o Governo, una ballata permeata da pigrizie ritmiche, da ammiccamenti pressoché latin/swing e da improvvise storture melodiche. Un misto di decomposizioni sonore, di acredini rock e di cantautorato italiano che raggiunge la giusta proporzione con Il Posto delle Fragole (che sembra mettere insieme Giancarlo Onorato con i Marlene Kuntz) e con Lampi Sul Petto e Io Aeroporto, composizioni taglienti e dalle architetture quasi “maldestre” che stillano altresì modernità acustiche e inezie pop. Ma sono quei sottili tremolii vocali di Un Tempio ciò che più ci colpisce di Marco Parente, che poi non sono altro che i sussulti del cuore che liberano i pensieri dentro un vortice di tintinnii, di tasti, di speranze e di ineffabili anarchie. Assenze di equilibri che ricordano qualcosa di Robert Wyatt come le sfumature metriche di Colpo di Specchio e gli arrangiamenti di Trilogia del Sorriso Animale: III Sorriso che serrano, splendidamente, questa quarta fatica in studio del cantautore napoletano. Un condensato di musica e poesia che rifugge dalle regole e da qualsiasi interpretazione superficiale. (Luca D’Ambrosio)

Recensione pubblicata su ML – Update n. 19 del 10 ottobre 2005



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Franklin Delano – Intervista (2005)

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I Franklin Delano si muovono abilmente tra cantautorato alternativo e sonorità tipicamente “post”. Sono il cuore oscuro del folk americano ma anche l’anima l’irrequieta del noise. La band nasce a Bologna dall’incontro di Paolo Iocca e Marcella Riccardi (ex Massimo Volume). Dopo due album e numerosi concerti in Italia e all’estero, Paolo ci parla dei nuovi progetti della band, all’indomani della fuoriuscita di Vittoria Burattini…

INTERVISTA A PAOLO IOCCA DEI FRANKLIN DELANO

Allora Paolo, chi sono i Franklin Delano? Ci racconti brevemente quando, dove e come è nata la band?
Franklin Delano è un progetto che nasce nel 2002 dall’idea di un dark folk stralunato. All’epoca abitavo in provincia di Modena, in una casa sperduta su un colle. Della prima formazione è ormai rimasta solo Marcella, che fin da subito ha creduto nel progetto e soprattutto nei brani. Dopo aver registrato un paio di demo – di cui uno registrato live – abbiamo cominciato a suonare sempre più spesso dal vivo, andando in tour con Sin Ropas e divindendo il palco con Okkervil River, Ulan Bator e Califone prima di arrivare all’attuale forma della band e al nostro recente disco per Madcap/File13.

Perché questo nome?
Suonava bene. Nessun riferimento politico. Semmai un’immagine di un pezzo di cultura americana “strappato” dal suo contesto. Come il nome (peraltro più diffuso di quel che sembri, anche oggi) di un presidente, ma che non ha più il riferimento a un cognome preciso. Senza cognome, cioè senza radici.

Come siete arrivati a registrare “All My Senses Are Senseless Today”?
“All My Senses Are Senseless Today” è in realtà nato come demo. Era un notebook da sistemare prima di una successiva registrazione (nelle nostre menti, una registrazione vera e propria). Poi è finita che la Zahr, a budget ridotto, ce lo pubblicasse così com’era, a Luca in fondo piaceva già così.

Poi c’è stato “Like A Smoking Gun In Front Of Me”, un album fortemente cercato, voluto…
“Like A Smoking Gun In Front Of Me” è stato in effetti un album che ci ha costretti tutti a fare dei salti mortali molto rischiosi, visto che era la prima volta che ci approcciavamo al mercato americano, e non ci sono moltissimi precedenti nelle band italiane. File 13 ci aveva offerto la distribuzione americana, ma non si sarebbe assunta rischi. L’accordo non era equo dal punto di vista di Zahr, ma noi non volevamo rinunciare a questa possibilità. Con sommo dispiacere abbiamo declinato l’offerta di Luca di una seconda uscita in Italia etc. e ci siamo messi in cerca di un’etichetta che credesse nel progetto. Alla fine i ragazzi di Madcap hanno voluto cogliere l’occasione e tentare l’azzardo, cosa che si è tradotta in un gran lavoro di squadra e una grande crescita per tutti. Poi c’era la sfida di andare a registrare a Chicago, parzialmente vinta (siamo riusciti solo a mixare con Brian Deck, ma intanto siamo riusciti a coinvolgere i nostri amici Califone). Una serie di problemi logistici da risolvere in modo creativo, vista la mancanza di fondi. Mi ritengo soddisfatto del modo in cui siamo riusciti a piegare la situazione.

I Franklin si muovono abilmente tra cantautorato alternativo e sonorità tipicamente “post”. L’America post rurale come legame più sentito?
Finora i riferimenti più grandi del nostro songwriting stavano nel “nuovo” folk americano, quello alternativo. Chiaro che l’influenza della grande America ha iniziato a farsi sentire, e pian piano i riferimenti si sono ampliati e spostati indietro nel tempo. Se prima si guardava nel passato prossimo, ora si inizia a scavare più indietro.

Quali sono i vostri riferimenti principali?
I riferimenti principali di “Like A Smoking Gun In Front Of Me” vanno cercati in certi Califone e Red Red Meat di sicuro, ma anche in certi progetti più sperimentali, tipicamente canadesi direi, come Polmo Polpo ad esempio; certe atmosfere ricordano forse la scena post slintiana (The For Carnation in particolare). È chiaro che poi ci sono richiami di cui non siamo consci. Qualcuno ha parlato di Wilco, ed è buffo perché nessuno di noi conosceva davvero Wilco quando l’album è uscito. Ora – solo ora – sono diventato un fan di Tweedy & Co., ma all’epoca nessuno di noi aveva idea della loro proposta. Chiaro che paragonare quel disco agli ultimi Wilco è eccessivo e ovviamente ci penalizza inutilmente, visto che non avevamo nulla a che vedere con loro.

Recentemente siete stati in tour negli States. Come ha reagito il pubblico americano?
Direi molto bene. C’è stata curiosità ed attesa, e le reazioni sono state sorprese e sorprendenti. È strano verificare che in realtà eravamo molto poco americani secondo i loro standard di giudizio, così come pare risultiamo così americani in Italia. Siamo in una terra di nessuno, almeno musicalmente parlando.

Abbiamo letto che c’è stato un cambio di formazione: l’ingresso di Marcello Petruzzi (ex Caboto) al basso e di Zeus Ferrari (ex Juniper Band) che sostituisce alla batteria Vittoria Burattini, ex Massimo Volume e ora anche ex Franklin. Puoi dirci qualcosa a proposito?
L’uscita di Vittoria è stata decisa di comune accordo, c’erano un po’ di differenze che tutti reputavamo “importanti” tra come io e Marcella vedevamo le cose e come invece le viveva Vittoria stessa. Questa separazione è arrivata al momento giusto, prima che queste differenze creassero più scompensi che arricchimenti nella band, rischiando magari di minare i nostri rapporti di amicizia. In un caso del genere non si dovrebbe mai mettere a repentaglio l’amicizia. Una band non è un matrimonio, è un progetto bello e bisogna portarlo avanti con persone che sono sulla tua stessa lunghezza d’onda. Sennò diventa una sofferenza e una forzatura per tutti. La decisione dell’inserimento di qualcuno al basso era già nell’aria da tempo, e da parecchio pensavo a coinvolgere Marcello, essendo io stesso un fan dei Caboto. Mi sono deciso a contattarlo quando eravamo alla ricerca anche del possibile sostituto di Vittoria. Zeus è un suo grande amico e da tempo loro due volevano iniziare un progetto musicale comune. Insomma i Franklin questa volta hanno preso due piccioni con una fava.

Ci sarà un cambiamento di rotta?
Il loro ingresso in band si colloca in un contesto di evoluzione stilistica (che si concretizzerà nella registrazione del nostro terzo album), che ha come fulcro l’idea e l’esigenza di diventare più rock, più muscolari e immediati. Al momento penso di essere stato fortunato a ritrovarmi questi due pazzi davanti al momento giusto…

Quando farete uscire il nuovo disco?
Penso non prima di settembre 2006. Lo registreremo a Febbraio/Marzo e penso che anticiperemo l’uscita dell’album con un singolo o un mini ad Aprile-Maggio

Puoi anticiparci qualcosa?
Come dicevo, i brani saranno più tradizionalmente rock e folk, con puntate nel suono anni ’50 o nel soul degli anni ’60. I brani saranno più concisi e diretti. La scrittura sarà più semplice mentre ci concentreremo molto su un arrangiamento più “orchestrato”. Di più non posso proprio dire.

In questi giorni cosa stai ascoltando di particolarmente interessante?
Nancy Sinatra con Lee Hazlewood, li adoro. Poi le Ronettes prodotte da Phil Spector, i Beach Boys, Flying Burrito Brothers…

Cosa ne pensi dell’ultimo lavoro degli Eels (”Blinking Lights And Other Revelations”)?
Non l’ho ancora ascoltato, ma di sicuro mi piacerà; visto che mi sto riavvicinando sempre più a un suono più diretto, non può che farmi bene un po’ di sano rock alla Eels.

ML – UPDATE N. 17 (2005-09-23)

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Dead Meadow – Feathers (2005)

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Quarta fatica per i Dead Meadow, formazione di Washington, D.C., che torna a farsi sentire con un album estremamente intenso che, finalmente, premia il talento di Jason Simon & soci. Un lavoro pieno zeppo di chitarre psichedeliche e di ritmiche vigorose che, in alcuni momenti, dà l’impressione di ripercorrere certe traiettorie neopsichedeliche degli Stone Roses (ascoltate per esempio Such Hawks Such Hounds e diteci se non sembra uscita da quel capolavoro del 1989). Una mistura ben proporzionata di sonorità lisergiche e corroboranti che li fa apparire come i Kyuss a braccetto con i Pink Floyd (Let’s jump in) o come gli Ozric Tentacles e i Porcupine Tree che tendono la mano agli Spiritualized e ai Black Sabbath (Through The Gates Of The Sleepy Silver Door e Untitled). Un disco che sa essere tanto energico quanto ovattato e che trova il suo episodio migliore nell’estasiante Stacy’s song, un brano carico di pathos che sottolinea tutta la bellezza di Feathers. Un’altra piacevole sorpresa del 2005.[1] (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 16 del 10 settembre 2005



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Nikki Sudden – Treasure Island (2004)

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Nikki Sudden è una vera e propria leggenda della storia del rock.[1] A metà degli anni Settanta, insieme al fratello Kevin Paul Godfrey, diede origine agli Swell Maps, band inglese dai connubi punk/experimental/glam e dalle sonorità lo-fi in grado di influenzare, udite udite, formazioni come Sonic Youth, Pussy Galore, R.E.M., Pavement e Lemonheads. Dopo aver registrato A Trip To Marineville (1979) e Jane From Occupied Europe (1980), nel 1982 Nikki inaugura la sua carriera da solista con Waiting On Egypt (1982), che metterà in luce tutto il talento di un rocker spregiudicato e senza frontiere. Il percorso sarà intervallato da un’altra significativa collaborazione, quella con il cantante/chitarrista Dave Kusworth; dall’unione dei due – o se vogliamo dei tre, visto che alla batteria c’è sempre il fratello Kevin Paul “Epic Soundtracks” Godfrey – nascono nel 1984 gli Jacobites, assertori di un power pop/blues sobrio e primigenio. Nel frattempo Nikki Sudden riprende la carriera da solista prima con The Bible Belt (1983) e poi con Texas (1986), un album rigoroso e severo che vede tra l’altro la partecipazione di Rowland Howard (Birthday Party e Crime And The City Solution). Tuttavia, Texas segna anche un periodo di crisi artistica; fase negativa che l’artista inglese riuscirà a superare brillantemente grazie alla propria testardaggine che lo porterà ad alternare episodi collettivi, tra i quali Fortune Of Fame (1988), Howling Good Times (1994), Old Scarlett (1995) e via discorrendo, a lavori personali come Groove del 1989, The Jewel Thief del 1991 (prodotto con Peter Buck dei R.E.M.) e Red Brocade del 1999 realizzato con l’apporto di Jeff Tweedy dei Wilco. Arriva poi il 2004 e Nikki il pirata, navigando nelle stesse acque che lo hanno visto per trent’anni vagabondo romantico e incorreggibile, si erge a paladino del buon vecchio e caro rock’n’roll con Treasure Island. Un’opera scrosciante e compatta in cui si fanno largo la malinconia di Russian river, Kitchen blues e Highway girl, l’isterismo di Fall any further, l’energia di Looking for a friend e di Treasure Island e la maturità di canzoni quali When the Lord e Sanctified. Un lavoro che richiama alla mente Bob Dylan, Neil Young e i Rolling Stones, anche se poi le canzoni di Nikki non sono mai riferimenti assoluti ma semplici segni di appartenenza. Passaggi di una stessa rotta insomma, dai canovacci blues di High and Lonesome ai retrogusti country di Break up, solcando le intemperanze elettriche di Wooden floor e di House of cards. Ad accompagnarlo in questo incantevole viaggio ci pensano Mick Taylor, Ian McLagan (Small Faces e Faces) e Anthony Thistlethwaite dei mitici Waterboys. Un tripudio di chitarre e di sano intimismo che rendono omaggio al principe dei banditi. Un uomo che disse di no ai Nirvana e che, per amore di una splendida ucraina, mandò all’aria un disco con Alex Chilton dei Big Star. Un loser, ma un grandissimo loser. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 15 del 25 agosto 2005



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Kaada – Thank You For Giving Me Your Valuable Time (2001/2003)

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Immaginate di sorseggiare un gradevolissimo long drink distesi su una sdraio sistemata lungo i bordi di una piscina. Supponete poi che la vostra donna, con atteggiamenti da showgirl d’altri tempi, si dimeni divertita davanti ai vostri occhi di maschio impaziente e senza scrupoli, liberando inevitabilmente le vostre fantasie più recondite. Fatto? Bene, sono queste le immagini che vengono in mente mentre si ascolta Thank You For Giving Me Your Valuable Time del norvegese John Erik Kaada (visioni effimere e prive di profondità che, indubbiamente, poco si addicono alla cultura di un perdente, ma necessarie per chi vuole ricomporre cuore e cervello). Un album che fonde atmosfere jazz, soul e rhythm and blues attraverso parti strumentali ben suonate e arrangiamenti che sembrano permeati da un’elettronica vintage. Una sorta di celebrazione (o di rivisitazione?) di più periodi musicali (’50, ‘60 e persino qualcosa dei ‘70) rappresi in un’accattivante miscela sonora che si consuma, appassionatamente, in “soli” 43 minuti. Un lavoro in grado di mostrare tutta l’eccentricità del giovane compositore nordeuropeo che con Mainframe e Wolkswagen riesce, oltremodo, a sfiorare l’eclettismo di Moby e di Beck. Insomma, un disco fuori dagli schemi ma che si lascia ascoltare molto volentieri, soprattutto se: (uno) state stramazzando per il caldo afoso; (due) siete stanchi del rock flemmatico e introspettivo; (tre) sentite il bisogno di rallegrarvi con qualcosa che non sia il solito pop o la solita dance. (Luca D’Ambrosio)

Recensione pubblicata su ML – n. 14 del 13 luglio 2005



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Ivan Segreto – Porta Vagnu (2004)

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Porta Vagnu è l’esordio discografico di Ivan Segreto, valente musicista cresciuto nel profondo sud d’Italia. Porta Vagnu è il nome di una delle cinque porte d’accesso a Sciacca, cittadina che ha dato i natali al ventinovenne pianista siciliano. Porta Vagnu non ha niente a che vedere con il rock. Porta Vagnu è un disco che suona tra il jazz e la musica leggera italiana. Porta Vagnu è un lavoro intimo e personale che si colora di accenti popolari e di delicate ritmicità tropicali. Porta Vagnu sa essere colto e raffinato senza mai uscire dai limiti. Porta Vagnu è levigato ma sufficientemente inebriante, penetrante quanto superficiale. Porta Vagnu è il caldo che arriva, il sole che tramonta, il cuore che palpita. Porta Vagnu è l’amore per l’arte. Porta Vagnu è il coraggio delle idee. Porta Vagnu è un lungo viaggio che conduce a Milano, dove Ivan perfeziona gli studi di pianoforte, di contrabbasso e di tromba. Porta Vagnu è il sogno che diventa realtà. Porta Vagnu è un sorriso sulla strada del ritorno. Porta Vagnu è gioia e malinconia. Porta Vagnu è il respiro affannoso dell’estate che brucia. Porta Vagnu è un canto libero e suadente. Porta Vagnu è la passione per Miles Davis, Herbie Hancock, Paolo Conte, Vinicio Capossela e Antonio Carlos Jobim. Porta Vagnu è l’inizio. Porta Vagnu è una splendida canzone dialettale scritta dallo zio Nino. Porta Vagnu è il ricordo che c’è. “Porta Vagnu, la porta di lu munnu.” (Luca D’Ambrosio)

Recensione pubblicata su ML – n. 14 del 13 luglio 2005



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Stan Ridgway – Snakebite (Blacktop Ballads & Fugitive Songs) – 2004

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Stan Ridgway è tornato portandosi dietro uno dei dischi più belli del 2004: il suo.[1] Un’opera ispirata e brillante che restituisce al cinquantenne stregone californiano quella sospirata creatività di cui sentivamo la mancanza fin dai tempi di The Big Heat (1986), una vera e propria pietra miliare dell’american music e della storia del rock. Ovviamente non siamo a quei livelli ma possiamo assicurarvi che Snakebite (Blacktop Ballads & Fugitive Songs) con le sue fluide ballate country/blues, stralunate e in leggero chiaroscuro, si candida a diventare uno dei lavori più azzeccati e interessanti della sua carriera da solista. Sostanzialmente immediato e dalle fogge tradizionali, l’album si spiega all’interno di splendide armonie punteggiate di sonorità new wave e umori suburbani, spogliandosi di quelle misurate artificiosità che tanto hanno dato allo sciamano del deserto di Barstow. Un pugno di canzoni (beh, si fa per dire, considerate le 16 tracce e i quasi 70 minuti di durata) in cui si stemperano i frammenti western di Wake Up Sally e di Your Rockin’ Chair (che ricordano qualcosa dei Blasters e di Ry Cooder), le armoniche folk/blues di Afghan/Forklift e i sentimentalismi alla Springsteen di God sleeps in a caboose. Melodie vivaci (Running with the carnival), familiari (My Rose Marie), malinconiche (Our Manhattan moment) e lievemente sbarazzine (That big 5-0), dove trovano spazio le atmosfere minacciose di Monsters Of The Id e le eloquenze di Talkin’ Wall Of Voodoo blues pt. 1 che rievocano le immagini di un passato senza tempo. Restano immutati invece, come se si trattassero di eterni marchi di fabbrica, lo spleen acustico di molte composizioni e quella sua inconfondibile voce metallica, cava e piena di pathos, che in King for a day risuona quasi come quella di Lou Reed. Zigzagante come l’incedere di un serpente e dirompente come un colpo di pistola, Snakebite (Blacktop Ballads & Fugitive Songs) realizzerà la felicità di molti ascoltatori, soprattutto di quelli che hanno saputo attendere alla finestra questo gradito e meraviglioso ritorno. (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione pubblicata su ML – n. 13 del 25 giugno 2005



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