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AA.VV. – Soulshaker Vol. 2 (2005)

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Non è nostro costume farci circuire dalla magnanimità di talune etichette discografiche, ma questo CD appena recapitatoci dalla Records Kicks di Milano ci ha alquanto sorpresi. Non tanto per l’originalità dei brani contenuti, – in fondo trattasi di episodi soul funk che si cingono di misture sonore boogaloo & rhythm’n’ blues -, quanto per la qualità di ognuna delle tracce selezionate dal bravo e avveduto Nicolò Pozzoli che mette insieme, giustappunto, sessanta minuti di canzoni per l’anima e soprattutto per il corpo. Sono diciassette i brani racchiusi in questo secondo volume di Soulshaker (titolo davvero azzeccato), tutti all’insegna di un sano revival “black” che non smette mai di entusiasmare. Sonorità vivaci e allo stesso tempo vellutate che si diffondono attraverso una miscela di passaggi davvero originali ed elettrizzanti che fanno pensare a Curtis Mayfield, ad Aretha Franklin, a Marvin Gaye, a Ike Turner, ai Parliament, ai Temptations, agli Isley Brothers e a tanti altri ancora. In questa nuovissima compilation c’è un po’ tutta la musica che, più di ogni altra, ci piace ascoltare ma anche ballare, e il merito lo dobbiamo, in particolar modo, a formazioni come Voodoo Trombone Quartet con Your pleasure is our pleasure, vibrante e intenso solco apripista che lancia subito le coordinate latin/blues/twist dell’intero disco, e come Sharon Jones & The Dap Kings che con Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In) sfoggia coiti di natura soul pop. Un album intenso e vibrante che, senza dubbio, rallegrerà le vostre serate estive. Allora, prendete nota: Soulshaker Vol. 2 (… and you’ll feel fine!)

ML – UPDATE N. 12 (2005-06-13)

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Jason Anderson – New England (2004)

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Conosciuto per essere il personaggio che si nasconde dietro lo pseudonimo di Wolf Colonel, progetto intrapreso a Portland nell’autunno del 1996,[1] Jason Anderson decide di uscire allo scoperto realizzando questo stravagante album di cantautorato alternativo, il primo a portare il suo nome. Un lavoro entusiasmante che evidenzia le capacità di autore e d’interprete del giovane musicista americano. Alla stregua di un Will Oldham meno cresciuto e più immediato, Jason dà vita a canzoni intime e popolari discostandosi da quelle prime elaborazioni pop/rock che parevano muoversi tra i Buffalo Tom e i Guided by Voices. New England è, infatti, un’opera dalle atmosfere raffinate (I swear I am), dai passaggi oscuri e malinconici (I Want my summer back) e dalle intense ballate pianistiche (A book laid on its binding). Un disco che si fregia di memorie folk (Thanksgiving), di evoluzioni country/blues (Hold on e Christmas), di riverberi sixties (You fall) e, talvolta, anche di blandi stadi d’allucinazione (So long). Il tutto impreziosito dalle collaborazioni di Mirah e Phil Elvrum. Come un “beautiful loser” che narra le incertezze dell’umana esistenza, Anderson picchia forte sui tasti del pianoforte, accarezza le corde della chitarra e canta di miti che muoiono, di amori che finiscono e di passioni che nascono. Lui è l’amico “immaginario” che scrive di stelle solitarie, di albe raggianti e di tramonti infiniti. Momenti che fanno grande New England e, naturalmente, la vita d’ognuno. (Luca D’Ambrosio)

[1] AllMusic

Recensione pubblicata su ML – n. 11 del 31 maggio 2005




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Stephen Malkmus – Face The Truth (2005)

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Con quest’ultimo lavoro[1] Stephen Malkmus riscatta la magra figura rimediata nel 2003 con Pig Lib superando, seppure di una spanna, il sorprendente e omonimo esordio da solista del 2001. Face The Truth comprende infatti undici splendide tracce dalle essenze pop e dai riverberi colorati che confermano – una volta per tutte – il talento assoluto dell’ex frontman dei Pavement. Lo si capisce immediatamente ascoltando Pencil rot e I’ve hardly been che, tra ninnoli elettronici e lievi astrattezze rumoriste, sembrano saltar fuori dal lato migliore di Think Tank dei Blur. Lo si intuisce tendendo l’orecchio alle radiose armonie di Freeze the saints e Mama e facendo girare canzoni come Baby c’mon, Loud cloud crowd e It kills che sfoggiano altresì tempre seventies, cantilene oblique e arrangiamenti stile anni ’80. Non manca poi quel misto di psichedelica/folk/new-wave assaporabile nelle estensioni di No more shoes (ben 8 minuti di durata!) e nelle fugaci trasfigurazioni lisergiche di Malediction. Con Post-paint boy si respira, invece, l’aria dello slacker scanzonato di Crooked Rain, Crooked Rain (1994) mentre Kinding for the master si avventura in territori disco/funk/blues e stramberie alla Prince. Insomma, un disco essenzialmente melodico ma in grado di toccare un po’ tutti i vertici sonori cari al “rockfilo” più infervorato. Mi verrebbe da dire che quello ascoltato è un lavoro quasi a 360 gradi, tuttavia mi rendo conto che una simile definizione potrebbe stizzire il mondo della critica specializzata, se non addirittura me stesso tra qualche mese. Però una cosa posso affermarla: Face The Truth è una prova “completa” che mette in risalto le straordinarie capacità dell’artista americano. Un’opera immediata, vivace e al tempo stesso intensa che, nel giro di quarantatré minuti, riesce a infilarsi negli anfratti più reconditi dell’anima. Un album stravagante, iridescente e a tratti lievemente accigliato che non deluderà affatto le vostre aspettative. Provate a immaginare uno spensierato e giovane Lou Reed che canta sulle spiagge assolate della California. Fatto? (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione pubblicata su ML – n. 10 del 24 maggio 2005



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Grupo Salvaje – Intervista (2004)

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Gruppo Salvaje – The Band in Black
©2004 – Intervista di Luca D’Ambrosio
Grupo Salvaje, ovvero la dimostrazione di come oggi [1] – a cinquant’anni dalla nascita del rock’n’roll – si possa essere “alternativi” partendo semplicemente da Elvis Presley, tirando dritto per la strada maestra, passando per Leonard Cohen e Bob Dylan, fino a lambire quei territori tanto cari a Kurt Wagner e a Mark Lanegan. Un viaggio vivo e pulsante che inizia a Madrid e che vede coinvolti cinque personaggi abbagliati dall’America dei perdenti, quella cantata da Johnny Cash e raffigurata da Sam Peckinpah. Non a caso due sono i riferimenti della formazione madrilena: il titolo dell’album, “In Black We Trust”, e il nome della band, Grupo Salvaje, tratto dal film The Wild Bunch. Un percorso musicale che si srotola tra le pieghe magiche del country/soul e le tiepide oscurità di un rock classico e moderato; equilibri armonici che mescolano torpore e stralunata malinconia. Una band che si “colora” di nero, simbolo di intimità e di silenzio, di nobiltà e di eleganza, ma che spesso diventa immagine di dolore e di malvagità. Con l’uscita di “In Black We Trust” (2004), abbiamo fatto due chiacchiere con Ernesto González, voce e chitarra della formazione spagnola.

Ernesto, quale disco porti nel cuore?
Nessun disco, ma una canzone, “Ghost Town” degli Specials.

Cosa stai ascoltando ultimamente?
Una cosa passata da un po’, “Cuckooland” di Robert Wyatt.

“In Black We Trust” sembra uscito da quell’America che noi tutti amiamo. Come si arriva a fare un disco così intenso e così autentico?
Non lo sappiamo, suppongo che sia stato l’amore di cui parli. Amiamo la musica americana e la cultura rock’n’roll, ed è molto difficile capire per noi dove finisca l’America che amiamo e dove inizi quella che “odiamo”, anche perché in quella che amiamo c’è comunque molta merda. Prima del Grupo Salvaje avevo un’altra band, The Privata Idaho. “Spain is Pain” è il titolo del loro ultimo album. Quel sentimento è ancora vivo nel Grupo Salvaje.

Pensi che il rock sia ormai una cultura universale e non più strettamente americana o inglese?
Sì, certo!

Una cultura per pochi fortunati o per pochi sfigati?
Per pochi fortunati. Siamo persone fortunate per il fatto che siamo (tu e noi) pronti ad assaporare il rock’n’roll. Gli altri sono sfortunati, non noi, tu sai…

Spassoso il video di “Elvis, Love Us!”. Vi sentite proprio come lui?
No. Ci interessa il suo modo di cantare e di esibirsi. Ci interessa capire come sia diventato un mito… la sua vita, la sua morte, questo ci interessa di lui, nient’altro!

Le vostre canzoni parlano di dolore, di amore, di religione e di inquietudine. Cose apparentemente semplici e comuni. Argomenti che, in fin dei conti, appartengono a tutta l’umanità…
Vero. Argomenti che, purtroppo, sembrano comuni a tutti noi. Diciamo purtroppo, perché se la gente pensasse un po’ di più a queste cose non ci sarebbero guerre o religioni. Comunque ciò che vorremmo provocassero i testi delle nostre canzoni sono reazioni politiche e sociali, come fece il rock‘n’roll negli anni ‘60 e ‘70. Oggi il rock non è più in grado di cambiare la società. E la colpa è delle persone coinvolte soltanto nel business.

Il nome del gruppo e il titolo dell’album sono dei chiari riferimenti alla tua formazione culturale. Non vi sentite fuori moda?
Sì, certo. Siamo completamente fuori moda. Solo David Bowie è in grado di seguire la moda e fare cose interessanti quando si parla di rock. Il nome del gruppo, come saprai, è un omaggio a Sam Peckinpah e ai personaggi di “The Wild Bunch” del 1969: Pike Bishop, Angel, Mapache… Probabilmente il western più bello che sia stato mai girato. Un tempo aprivamo le nostre performance con il primo sermone del predicatore, sai quando la banda di Pike arriva al villaggio dove avverrà lo scontro…

Quando si è formata la band?
Si è formata nel 2001, ma non chiedermi la data esatta.

La formazione è sempre stata la stessa?
La formazione è sempre la stessa, anche se al Fib del 2004, il Festival Internacional de Benicassim, con noi c’erano Gonzalo Incàn all’organo e al piano e Abel Hernandez dei Migala alla chitarra e alle tastiere. Non sappiamo però se Gonzalo e Abel entreranno a far parte della band. Tocca a loro decidere.

So che non è facile da spiegare, ma cosa occorre per scrivere una canzone?
Molto difficile da spiegare, già… Beh, servono una chitarra acustica a 12 corde, un pezzo di carta e una parte d’amore. Sì, perché se non abbiamo amore non abbiamo nulla. Credo che l’amore sia la cosa più importante della vita. Possiamo vivere senza genitori, senza soldi, senza casa, ma senza amore non si vive.

Vi vedremo in Italia?
Non sarà facile. Nella primavera del 2003 avevamo in programma tre date nel vostro Paese, ma alla fine non ci è stato possibile venire, perché lavoriamo tutti dal lunedì al venerdì…

Nel vostro cassetto ci sono altre canzoni?
Sì. Penso che il prossimo disco uscirà nel 2005. Inoltre vorremmo registrare un mini album di cover.

[1] Recensione e intervista realizzate nel 2004 ma pubblicate su ML – n. 9 del 18 maggio 2005



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Grupo Salvaje – In Black We Trust (2004)

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Fuori dal tempo, lontano dalle mode e ricolmo di quella stessa passione che anima la mia esistenza, In Black We Trust – album che segna il debutto dei madrileni Grupo Salvaje – lascia trasparire quel “vecchio e caro spirito rock” di cui avevo perso le tracce. Un condensato d’intimità, di eleganza, di mistero e di nobiltà d’animo che riflette il nero della solitudine e del silenzio; una miscela di coscienza e di intuizione che brandisce le capacità primordiali di un autentico gruppo selvaggio (chiaro il riferimento a The Wild Bunch di Sam Peckinpah del 1969). Un’opera che mette insieme Dio ed Elvis e dove confluiscono, con lucidità e sentimento, una gran quantità di sensazioni come l’amore, il dolore e la disperazione. Canzoni semplici, dolci e amare, oscure e sensuali, che si alimentano tanto di Leonard Cohen quanto dei Lambchop e che in alcuni passaggi sembrano celebrare il miglior Bob Dylan (How to make God come). L’elemento che distingue e condiziona gran parte delle composizioni di questo lavoro è la voce di Ernesto González, riflessiva, profonda e piacevolmente mutevole; meno oscura di Mark Lanegan (The survivor), più vigorosa di Kurt Wagner (Watercolour summer) e in certi momenti quasi come quella di Lou Reed(Oh! My dear) . Ad affiancare il cantante spagnolo – che suona altresì chitarra e armonica – ci sono Carlos Perino (batteria, percussioni e cori), Javier Rincón (banjo), Oscar Feito (chitarra elettrica e mandolino) e Pepe Hernández (chitarra elettrica e slide) con il coinvolgimento saltuario di Abel Hernández (piano, organo), validi musicisti e al tempo stesso squisiti compagni di avventura. In Black We Trust è un disco dal taglio classico, anacronistico, ma pieno di frammenti che bucano la pelle, un coacervo di eccitazioni che si estendono attraverso i delicati rimandi country/soul di A christian family e di Watercolour summer, le penombre di Oh! My Dear e il fascino di Sorrynonews e di Elvis, love us! (con espressioni, manco a dirlo, alla Elvis Presley). Un catalogo di emozioni che coniuga la solennità del folk rock (How to make God come) con la dolcezza del pop (Roses & Despair). Un esordio fluido e avvolgente sostenuto dalla malinconia di Desheredada (track strumentale che richiama alla mente i Black Heart Procession) e dalla quiete di The survivor, brano conclusivo dalle aperture narcotiche e cinematografiche. Con l’immagine di Elvis in copertina e con il nome di Joe Strummer trascritto in un angolo del booklet, la formazione spagnola sfoggia conoscenza e personalità tramite nove episodi che si tingono di nero; quello stesso “colore” che Johnny Cash fece proprio come risposta alle ingiustizie che affliggono il mondo. (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione e intervista realizzate nel 2004 ma pubblicate su ML – n. 9 del 18 maggio 2005



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L’Altra – Different Days (2005)

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Le perplessità e le apprensioni suscitate dall’ascolto di Bring On Happiness (EP del 2005) sono purtroppo destinate a prendere il sopravvento con l’uscita di questa terza prova di Lindsay Anderson e Joseph Costa. Different Days – primo lavoro sulla lunga distanza pubblicato per l’Hefty Records di John Hughes (aka Slicker) – è difatti un album che convince a metà, dando l’impressione di ostentare un cambiamento di direzione piuttosto forzato, poco incline alla reale natura della formazione di Chicago. Sensazioni che affiorano ascoltando Sleepless night e There is no, brani permeati da melodie anestetiche, elettroniche capziose e parti cantate (quelle di Lindsay) non sempre all’altezza delle aspettative. Seguono più o meno le stesse parabole la title track e Bring on happiness che abbondano di arrangiamenti glitchosi e pleonastici, frutto di una ricercatezza calcolata e poco personale (in alcuni momenti sembrano una copia dei Portishead meno avvincenti). Spiragli di piacere, tuttavia, possono essere ravvisati nelle destrutturazioni alla Telefon Tel Aviv di A Day between e Morning disaster (non a caso il produttore è proprio Joshua Eustis dei T.T.A.). Suscitano invece particolare entusiasmo le acustiche e i refrain di So surprise, gli ambienti post-progressive di Mail bomb e le arie da camera di It follows me around, gli episodi migliori di un disco che, tutto sommato, piace ma che non buca. E se mi è consentito scegliere, preferisco (i) L’Altra nelle dimensioni incantevoli di Music of a Sinking Occasion (2000) e in quelle sublimi di In The Afternoon (2002). Questi, per Joseph e Lindsay, sono davvero giorni diversi. (Luca D’Ambrosio)

Questa recensione è stata pubblicata su ML – n. 7 del 26 aprile 2005



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Robyn Hitchcock – Spooked (2004)

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Sono lontani i tempi di Black Snake Diamond Role (1981) quando Robyn Hitchcock, lasciatosi alle spalle l’esperienza dei Soft Boys, decise di imboccare la strada che – nel giro di qualche anno – lo avrebbe portato a realizzare un album memorabile come I Often Dream Of Trains (1984), raccogliendo in qualche modo l’eredità di Syd Barrett. Da allora è trascorso quasi un quarto di secolo[1] e l’Hitchcock della maturità, per esser chiari questo di Spooked, somiglia sempre più a un cantautore americano, quasi dylaniano, preso a tirar fuori dalla chitarra acustica splendide canzoni di matrice folk e country. Non a caso i brani che compongono il disco sono stati registrati a Nashville con il contributo di Gillian Welch e David Rawlings. Ecco, quindi, che tra rimandi nostalgici (English girl), ballate stralunate (Everybody needs you, Sometimes a blonde), canti a cappella (Demons and fiends) e sottili allusioni di pop e ironia (Television), si levano su tutte Full moon in my soul e Flanagan’s song, gli episodi migliori di un’opera intensa, brillante e particolarmente ispirata. Uno sfavillante intreccio acustico sospinto, qua e là, da ritmiche contenute in cui trovano spazio la stravagante Welcome to earth (breve interludio vocale), Creeped out (il frammento più ruvido e rockeggiante del disco) e Tryin’ to get to heaven before they close the door di Bob Dylan, lieve come il vento che sfiora il paradiso. È il caso di procurarsene una copia, possibilmente originale. (Luca D’Ambrosio)

[1] Questa recensione è stata pubblicata su ML – n. 8 del 9 maggio 2005



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Miss Derringer – Recensione King James, Crown Royal and a Colt 45 + Intervista (2005)

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Vengono da Los Angeles e si presentano al grande pubblico con King James, Crown Royal and a Colt 45, piacevole esordio a base di sonorità tradizionali americane e ambienti dark, genere che potremmo definire tranquillamente “American Gothic”. Una prima fatica che, pur percorrendo gli stilemi di una classicità sonora già acquisita e metabolizzata (il rockabilly di Lordy e il blues di Corpus Christi), non lascia alcun dubbio sulle qualità artistiche del sestetto statunitense. Folk, new wave e smalti prettamente rock, sono queste le caratteristiche principali della musica dei Miss Derringer. Un mix avvincente di Old time music e passaggi sonori oscuri, abile tuttavia a toccare le corde del cuore (difficilmente riuscirete a togliervi dalla mente la mitezza di Dear Johnny). Prodotto da Derek O’Brien dei Social Distortion e pubblicato nel 2004 dalla Sympathy for the Records Industry di Long John Gone (la stessa etichetta dei White Stripes per intenderci), il debutto della formazione a stelle e strisce è un lavoro che guarda particolarmente al passato ma che riesce a bagnarsi di una sana e sobria modernità. Artefici del progetto sono la cantante/scultrice Elizabeth McGrath e il chitarrista/fotografo Morgane Slade ai quali abbiamo rivolto alcune domande. (Luca D’Ambrosio)

Questo articolo è stato pubblicato su ML – n. 6 del 18 aprile 2005

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Intervista a Morgan Slade e Elizabeth McGrath
©2005 di Luca D’Ambrosio

Chi è Miss Derringer?

(Elizabeth) – Miss Derringer è una donna distrutta dall’amore nato in un’anonima cittadina nei sobborghi del nulla, talmente disperata da essere disposta a fare qualsiasi cosa per andarsene via da lì!

(Morgan) – Miss Derringer è il nome di una piccola pistola che le donne erano solite usare durante l’epoca vittoriana. Era piccola e non molto potente. Lo stereotipo vuole che le donne nascondessero queste pistole nelle loro giarrettiere o nei loro reggiseni. Il personaggio di Miss Derringer è una sorta di donna fuorilegge, e il suo nome è correlato a quello di questa pistola.

Com’è nata la band?

(Morgan) – Il nostro gruppo musicale è nato quando Liz (Elizabeth, nda) ha sentito una canzone che io avevo scritto molto tempo fa. Le piacque molto e quindi decidemmo di lavorare su altre canzoni simili. E così, mentre lavoravamo sui pezzi, saltò fuori la storia di una donna sfortunata e fuorilegge. Un personaggio alla Clyde, per intenderci (N.d.A. “Bonnie e Clyde”).

Elizabeth, preferisci essere identificata come la cantante dei Miss Derringer o come artista della cosiddetta “Lowbrow Art”?

(Elizabeth) – Qualsiasi cosa mi va bene!

Leggo che la “Lowbrow Art” è un movimento artistico che parte dal basso, popolare e “senza pretese intellettuali”, con rappresentazioni surreali, fumettistiche, bizzarre e alquanto provocatorie. Elizabeth, puoi dirci qualcosa in più?

(Elizabeth) – Penso che la Lowbrow Art sia una forma d’arte “bassa” solo nel concetto, per il resto invece è molto illustrativa, figurativa, decorativa. In questo momento sta facendo tremare il mondo dell’arte e i grandi critici d’arte sono furibondi, non sopportano che i collezionisti stiano pagando grandi somme per pezzi d’arte che loro giudicano non collezionabili. C’è da dire comunque che un sacco di artisti odiano la definizione “Lowbrow” perché ti intrappola, alcune gallerie addirittura non ti organizzano delle mostre se sei “Lowbrow”, mentre nessuna galleria ti nega una mostra se sei “Highbrow”. Sono convinta che quanto prima la Lowbrow Art sarà riconosciuta nella storia dell’arte, e speriamo con un nome diverso!

Parliamo di musica adesso: “King James, Crown Royal and a Colt 45” è un concept album incentrato su una storia d’amore, giusto?

(Morgan) – Miss Derringer è una donna che si innamora dell’uomo sbagliato: rapinatori di banche, criminali… La sua storia è il risultato delle proprie scelte errate. Lei è una sorta di simbolo di tutta quella gente che prende delle decisioni basandosi sulle proprie esperienze, sulle proprie idee e convinzioni, anche se certe volte non si è in grado di capire qual è la cosa migliore da fare.

Quanto c’è di personale in questa storia, o meglio, in questo album?

(Elizabeth) – Morgan è il principale songwriter, lui è molto misterioso, quindi se c’è qualcosa di veramente personale io non lo saprò mai!

(Morgan) – Gli sforzi che Miss Derringer attraversa dal punto di vista emozionale sono universali, e spero che, anche se appaiono con l’aspetto di un fumetto, siano facili da capire. Sono molto ispirato dalla vita di Liz (Elizabeth) quando scrivo le canzoni. Ovviamente le cose che succedono al personaggio di Miss Derringer non succedono realmente alla vita di Liz, mi riferisco piuttosto alle sue esperienze, al modo in cui lei prende le decisioni e vede il mondo (o perlomeno, alla mia interpretazione di queste cose). Elizabeth ispira gran parte di quello che faccio, musicalmente e non.

La vostra musica è un mix di sonorità tradizionali americane e ambienti oscuri. Potremmo in maniera azzardata definirla “American Gothic”?

(Morgan) – Mi piace la complicata semplicità che formano le parole American e Gothic. Mi fa pensare a polverose città fantasma, praterie isolate, vampiri, cowboys, addestratori pentecostali di serpenti, cieli blu, chiaro di luna e crimine. È una musica che viaggia.

Vi confesso che le atmosfere di Dear Johnny mi hanno letteralmente inchiodato alla poltrona! E poi la voce di Elizabeth è meravigliosa, malinconica e allo stesso tempo vigorosa.

(Elizabeth) – Grazie!

Molte delle vostre canzoni sembrano uscite da un film di Quentin Tarantino. Come dire? Un po’ “pulp”!

(Morgan) – Certo! Il nostro album dovrebbe essere visto come un fumetto o come uno “spaghetti western”. I temi trattati sono seri, ma la storia è intesa come “pulp” (come un film ambientato negli anni ‘20, ma girato negli anni ‘70)

“King James, Crown Royal and a Colt 45” sembra che non abbia nulla, o quasi, di elettronico. È un modo per prenderne le distanze?

(Elizabeth) – Abbiamo usato in background un loop con grilli e cavallette che friniscono, e il fischio lontano di un treno. Non è proprio musica elettronica… o forse è solo un inizio?

(Morgan) – Non ci opponiamo alla musica elettronica, anche se nessuno di noi l’ascolta molto. Sinceramente però il personaggio di Miss Derringer e il tipo di storia racchiusa nel nostro album non avrebbero avuto alcun senso se fossero stati correlati alla musica elettronica. Miss Derringer è molto più povera, americana, religiosa e vintage. Il country, il blues e il roots rock in questa storia si relazionano meglio dell’elettronica. Miss Derringer è più un progetto che una vera e propria band. È un disco costruito attorno a un tema. La musica, l’immagine, la performance sono fatti per riflettere quanto contenuto in questo lavoro.

Cosa ne pensate di questa specie di globalizzazione della musica rock che vede alcuni gruppi americani, tipo i newyorkesi Interpol, suonare quasi come gruppi inglesi?

(Elizabeth) – Puoi incolpare o ringraziare Internet!

(Morgan) – Alcuni di questi gruppi mi piacciono. Tutta la musica deriva dalle proprie influenze, sono convinto però che i gruppi più sinceri si distinguano dagli altri.

Invece a Los Angeles cosa sta succedendo?

(Elizabeth) – Io non esco molto, ma ho notato un sacco di ragazzi magrolini col gel sui capelli che indossano la sciarpa in estate!

(Morgan) – Nulla! (sorride, NdR). Ci sono delle buone band qui, anche se in questo periodo non sto ascoltando molta musica. Siamo influenzati da un sacco di gruppi, però non ci sentiamo molto legati alla scena di Los Angeles.

Come siete entrati in contatto con la Sympathy For The Records Industry e con Derek O’Brien dei Social Distortion?

(Elizabeth) – John (Long John Gone, proprietario della Simpathy for the Records Industry, nda) oltre a essere un amico è soprattutto un grande “patrono” della scena artistica underground americana. Lui aveva comprato alcuni dei miei quadri e quando gli parlai del progetto a cui stavo lavorando con Morgan lui si mostrò subito interessato, e dopo averci sentito ci portò subito in studio. Derek invece è capitato all’ultimo momento, inizialmente dovevamo registrare il disco con qualcun’altro. Così, visto che eravamo in tanti nella band e non era facile organizzarci, abbiamo trovato posto nello studio di Derek, per poi scoprire che alcuni del gruppo già lo conoscevano. È davvero piccolo il mondo!

Facciamo un salto nel passato. Elizabeth, so che hai conosciuto i nostri Raw Power. Cosa ricordi di loro?

(Elizabeth) – I Raw Power erano come il loro nome: forza bruta! Per quanto riguarda la musica punk, succede spesso di vedere gruppi che si spaccano le bottiglie sulla testa per poi sanguinare in mezzo al pubblico, ma che non sanno suonare. I Raw Power non erano così! Quei ragazzi sapevano suonare davvero! Il pubblico non si perdeva una nota. Erano tecnicamente molto bravi e visivamente aggressivi. Una combinazione veramente rara per la musica punk rock. Sono stata molto triste quando ho saputo di Giuseppe Era il ragazzo più divertente della band. (Giuseppe Codeluppi, morto il 6 ottobre 2002, N.d.A.).

Avete da poco suonato in Italia, come vi sembra la piazza italiana e il pubblico italiano?

(Elizabeth) – Amo il pubblico italiano! L’Italia è la mia nazione preferita! Quando abbiamo suonato erano tutti così di supporto! Siamo stati molto fortunati a poter suonare in Italia, credo che nessuno di noi scorderà i bei momenti passati lì! E non sto parlando solo del tour. Sono rimasta colpita anche da come tutti siano così vicini alle proprie famiglie e quanto sia bello il territorio italiano. Il mio desiderio è quello di trasferirmi in Europa. Forse proprio a Reggio Emilia!

(Morgan) – Non penso di aver percepito bene come sia la scena italiana perché non abbiamo suonato con molti altri gruppi. Ma il pubblico italiano è il migliore! Erano tutti molto interessati alla nostra musica.In Italia abbiamo fatto alcuni dei nostri migliori concerti in assoluto. E poi i Draft (www.draft-band.com) sono grandiosi!

Siete una formazione numerosa, quindi non è facile organizzarsi…

(Elizabeth) – Già è davvero difficile organizzarsi! Spesso ci rincorriamo al telefono. È un ostacolo però che stiamo cercando di superare…

(Morgan) – È la cosa più difficile nella nostra band. Ognuno è così bravo e talentuoso che non può essere sostituito e quindi abbiamo bisogno di tutti i componenti per poter provare o suonare dal vivo. Suonare è la parte più semplice, organizzarsi è una cosa da pazzi!

Consigliatemi un disco nuovo o vecchio che sia.

(Elizabeth) – Adoro “Getz/Gilberto” di Stan Getz e João Gilberto, questo per il vecchio, per il nuovo invece… Uhm, mentre lavoro ascolto principalmente degli audio books, probabilmente non è quello che ti aspettavi, ma uno potrebbe essere “Lullaby”, un romanzo di Chuck Palahniuk.

(Elizabeth) – Attualmente i miei album preferiti vecchi e nuovi sono le riedizioni rimasterizzate dei Gun Club che la Sympathy for the Records Industry ha appena fatto uscire. Un grande gruppo di Los Angeles punk/gothic country. Gli album si chiamano “Death Party” e “The Las Vegas Story”. Ascoltali!

Infine, cosa bolle in pentola?

(Elizabeth) – Abbiamo da poco un nuovo chitarrista, Jimmy Wilsey, che era il chitarrista di Chris Isaak e il bassista della punk band The Avengers. Sono molto felice perché il suo stile musicale era esattamente quello di cui avevamo bisogno. E poi sua moglie Winter è una delle mie migliori amiche, così possiamo incontrarci più spesso. Sto lavorando a un libro sulla mia produzione artistica con la Last Gasp Publishing (www.lastgasp.com) e la Luz De Jesus Gallery (www.laluzdejesus.com). Il prossimo dicembre ci sarà la mia mostra personale presso la Billy Shire Gallery. Nello stesso periodo la Necessary Toy Foundation (www.necessariestoyfoundation.com) metterà in produzione alcune delle mie bambole, così adesso i Draft sanno già cosa riceveranno per Natale! Oh, probabilmente la cosa migliore che bolle in pentola è che io e Morgan ci siamo fidanzati e che presto ci sposeremo!

(Morgan) – Ci stiamo ancora riprendendo dalla grappa! Stiamo suonando un po’ in giro (abbiamo partecipato al festival di beneficenza “Virgin’s Tsunami Relief”). Stiamo lavorando al nuovo disco, probabilmente entreremo in studio ad aprile. E infine stiamo girando un videoclip diretto da Rikki Rockett dei Poison. E poi speriamo di tornare presto in Italia!



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Giancarlo Onorato – Falene (2004)

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Sono brani lievi e avvolgenti quelli contenuti nel terzo album da solista di Giancarlo Onorato. Frammenti divelti dalle tenebre e sospinti lentamente verso il tepore di un mare notturno, rischiarato da un canto fremente e preso d’amore. Parole di fulgida poesia che scivolano via come Le Bisce d’acqua, confondendo repentinamente il presente e il passato, il Bene e il Nulla. Passaggi di misurato vigore e inconfutabile romanticismo in grado di allietare queste nostre Cronache di primavera macchiate sempre più di Pace di guerra. Un impasto ben amalgamato di rock, folk e pop d’autore che a tratti sembra racchiudere quella stessa partecipazione emotiva tipica di Julian Cope, Robyn Hitchcock e persino di Nick Drake. Con l’apporto del cantautore Paolo Benvegnù, della poetessa Anna Lamberti Bocconi e soprattutto del produttore/autore Mario Congiu, l’ex Underground Life ci consegna un disco appassionante e senza tempo, capace di mettere insieme il fervore poetico di Fabrizio De André (Canzone dell’oscurità, Ballata dell’estate sfinita) con il genio oscuro e piacevolmente incosciente di Amerigo Verardi (già Allison Run). E così, dopo Il Velluto Interiore del 1996 e Io Sono L’Angelo del 1998, Falene si rivela un’opera ammaliante, malinconica e straordinariamente profonda, come lo sguardo rapito della sua copertina che, tra stupore e timore, pare immergersi in un Morbido silenzio. (Luca D’Ambrosio)

Questa recensione è stata pubblicata su ML – n. 6 del 18 aprile 2005



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musica

Music A.M. – My City Glittered Like A Breaking Wave, EP (2005)

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Dopo il mirabolante esordio del 2004 con A Heart & Two Stars, ecco a voi un altro splendido bozzetto di elettronica & pop disegnato dal cantante/chitarrista Luke Sutherland (ex collaboratore dei Mogwai, membro dei Bows e dei Long Fin Killie) e due celebri personaggi della scena tedesca: Stefan Schneider dei To Rococo Rot e Volker Bertelmann. Cinque frammenti dalle architetture sintetizzate e dalle solerzie elettroacustiche che ripercorrono le traiettorie siderali tracciate dal disco precedente. Canzoni disturbate e dalle urgenze post-digitali, lambite dal canto suadente e pieno di pathos di Sutherland che a tratti ricorda Nick Drake. Venti minuti di evoluzioni sonore che riportano alla mente la sperimentazione degli Aphex Twin e il tepore tecnologico dei Tarwater. Con My City Glittered Like A Breaking Wave prosegue il viaggio dei Music A.M. in quel microcosmo fatto di alterazioni ritmiche e magnetismi crepuscolari. Un EP più che raccomandabile! (Luca D’Ambrosio)

Questa recensione è stata pubblicata su ML – n. 5 del 5 aprile 2005



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