All Harm Ends Here racchiude gran parte delle esperienze musicali maturate in questi anni dagli Early Day Miners.[1] Una sorta di compendio artistico, naturale e proteiforme, che intreccia il torpore di Placer Found (2000), l’impeto passionale di Let Us Garlands Bring (2002) e l’aspetto pressoché cantautorale di Jefferson At Rest (2003), e che trova nella confortevole voce di Daniel Burton e nelle mitezze armoniche di The way we live now e We know in part degli autentici e inconfondibili marchi di fabbrica.
Ma se da un lato si scorgono strutture di un passato arido e abulico (The purest red) e scampoli di elettricità che scorrono sulle guide di uno slowcore sregolato e talvolta prossimo al noise (Errance), dall’altro, invece, si intravedono tracce oscure e caliginose come Precious blood e All harm che sembrano inseguire gli strascichi sonori di formazioni quali Bauhaus ed Echo & The Bunnymen. Elegie dilatate e accenni di violino (sono gli archi di Maggie Polk) che fluttuano sulle onde di un mare profondo, ora fermo, ora agitato.
Nove solchi rispettabilissimi, permeati dal sincronismo di una collaudata sezione ritmica – Matt Griffin alla batteria e Jonathan Richardson al basso – e dalle aperture chitarristiche di Joseph Brumely e Kirk Pratt. Quelle realizzate dal gruppo di Bloomington, Indiana, sono canzoni dalle costruzioni elettriche (Comfort/guilt), dai rimandi post-rock (The union trade) e dai riverberi popolari (Townes) che fanno di questo album il “luogo ideale” in cui condividere questa prima parte di vita e di carriera della formazione americana.[1] Un immaginario sonoro fatto di torbidi richiami neo-tradizionali e di ambienti tenebrosi che a stento riuscirete a scrollarvi di dosso. Scommettiamo? (Luca D’Ambrosio)
[1] Recensione pubblicata su ML – Update n. 4 del 21 marzo 2005