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Alla fine ho deciso di farla. Ecco la lista dei miei 10 album preferiti del 2018.

Alla fine ho deciso di farla. Ecco la lista dei miei 10 album preferiti del 2018
Inizialmente ero indeciso se farla o non farla. Alla fine però l’ho fatta. La lista dei miei dischi preferiti del 2018, intendo.

Sono dieci, un po’ per scelta (non mi andava di fare un listone) e un po’ per convenzione (la classica “top ten”).

Li metto in ordine alfabetico di nome, perché potrebbero scambiarsi di posizione da un momento all’altro.

Ecco, allora, l’elenco dei miei dieci album preferiti del 2018.

Se non li avete mai ascoltati, fatelo attraverso le tante piattaforme online per farvi un’idea.

Se poi vi piacciono e avete la possibilità, acquistateli materialmente, meglio se in un “vecchio” e classico negozio di dischi.

E, naturalmente, buon ascolto. (L.D.)

DIECI DISCHI DEL 2018 (in ordine alfabetico)

DAVID BYRNE. American Utopia (Nonesuch)
Best of 2018

MARIANNE FAITHFULL. Negative Capability (BMG)
MARIANNE FAITHFULL. Negative Capability

AMEN DUNES. Freedom (Sacred Bones)
Best of 2018

LOW. Double Negative (Sub Pop)
Best of 2018

RICCARDO SINIGALLIA. Ciao Cuore (Sugar Music)
Best of 2018

SONS OF KEMET. Your Queen is a Reptile (Impulse!)
Best of 2018

EMMA TRICCA. St. Peter (Dell’Orso)
Best of 2018

UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA. IC-01 Hanoi (Jagjaguwar)
Best of 2018

KURT VILE. Bottle It In (Matador)
Best of 2018

YOUNG FATHERS. Cocoa Sugar (Ninja Tune)
Best of 2018

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Pillole quotidiane: 10 dischi italiani e 10 dischi non italiani del 2015

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Il gioco è sempre lo stesso: scegliere 20 dischi dell’anno che ho ascoltato con maggiore piacere e attenzione. Per comodità personale ho preferito dividerli in “10 dischi italiani” e “10 dischi non italiani”. È inutile dire, infine, che il 30-40% di ciascuna lista (in ordine alfabetico secondo il nome dell’artista o del gruppo) potrebbe cambiare da un momento all’altro. Buon 2016 a tutti.

TOP TEN 2015 – DISCHI NON ITALIANI
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BadBadNotGood & Ghostface Killah – Sour Soul (Lex Records)
Beach House – Thank Your Lucky Stars (Bella Union)
Destroyer – Poison Season (Dead Oceans)
Dirty Fences – Full Tramp (Slovenly Recordings)
Jamie xx – In Colour (Young Turks)
Joanna Newsom – Divers (Drag City)
Kurt Vile – B’lieve I’m Goin Down… (Matador)
Panda Bear – Panda Bear Meets The Grim Reaper (Rough Trade)
Sufjan Stevens – Carrie & Lowell (Asthmatic Kitty)
Teeth of the Sea – Highly Deadly Black Tarantula (Rocket Recordings)

TOP TEN 2015 – DISCHI ITALIANI
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Bombay – S.T. (Autoprodotto)
Calcutta – Mainstream (Bomba Dischi)
C+C=Maxigross – Fluttarn (Trovarobato/ Vaggimal Records)
Cesare Basile – Tu prenditi tutto l’amore che vuoi e non chiederlo più (Urtovox/The Prisoner)
Dellera – Stare bene è pericoloso (Martelabel)
Flying Vaginas – Beware Of Long Delayed Youth (Mia Cameretta)
Iacampo – Flores (Urtovox/ The Prisoner)
Iosonouncane – Die (Trovarobato)
Paolo Spaccamonti – Rumors (Santeria)
Umberto Maria Giardini – Protestantesima (La Tempesta Dischi)



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(Top 10) – I miei dieci dischi preferiti del 2012

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Ecco i miei dieci dischi preferiti del 2012, ovvero quelli che ho ascoltato di più. Ovviamente, la lista è in rigoroso ordine alfabetico…

Beach HouseBloom

Dirty ProjectorsSwing Lo Magellan

Dirty ThreeToward the Low Sun

Bill FayLife is People

LambchopMr. M

M. WardA Wasteland Companion

Mark Lanegand BandBlues Funeral

Moon DuoCircles

TindersticksThe Something Rain

The xxCoexist

Ho ascoltato molto volentieri anche gli ultimi lavori di Scott Walker, Kendrick Lamar, The Tallest Man On Earth, The Eastern Sea, Royal Baths, Lotus Plaza, Family Band, Giant Giant Sand, Kitchen Noise, Freelance Whales, Paul Buchanan, Orcas, Pontiak, Tame Impala, Breathless, Pandit, Leonard Cohen, Django Django, Cemeteries, Lost in the Trees, Cody ChesnuTT, Jake Bugg, The Maldives, Beachwood Sparks, Bob Dylan, Gareth Dickso, Teen Daze, Chromatics, Jens Lekman, Dark Dark Dark, Adrian Crowley, Sharon Van Etten, Wild Nothing, Vampire Slayer, Tigers On Trains, Cat Power, Michael Kiwanuka, The Black Swans, Actress, The Wooden Sky, Hannah Williams & The Tastemakers, Cardinal, The Shins, Ty Segall, Shearwater e altri ancora che adesso non ricordo.

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The Underground Youth – Delirium (2011)

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Ho un archivio musicale spaventoso e, sinceramente, pur pensando di vivere un centinaio di anni in più non sarei mai in grado di ascoltarlo tutto. Ecco, quindi, che mi tocca spulciarlo qua e là, in modalità più o meno random, per tentare di recuperare qualcosa di buono che a partire già dal primo click valga la pena di ascoltare attentamente, ma soprattutto che valga la pena di recuperare su CD o, meglio ancora, su vinile. Pertanto, armato di passione ma anche di buona pazienza, questa mattina, mentre cercavo di iniziare a stilare la consueta classifica di fine anno, sono incappato in un disco sconosciuto al sottoscritto ma decisamente coinvolgente, specialmente per chi ama perdersi in quelle sonorità tanto psichedeliche e folk quanto garage e new wave. Sì, perché questi sono i riferimenti degli Underground Youth, formazione con base in Inghilterra e con all’attivo già alcuni lavori, l’ultimo dei quali questo ipnotizzante Delirium del 2011 che ci consegna nove canzoni melodiche seppure dalle sonorità oscure e indolenti. Un disco che, manco a dirlo, parte dai Velvet Underground e s’inoltra in quelle atmosfere tipiche dei Joy Division, dei Jesus and The Mary Chain ma anche dei Mazzy Star, degli Echo & the Bunnymen, degli Slowdive e via discorrendo. Strangle Up My Mind, Silhouette e What She Does To Me sono soltanto alcuni dei brani di quel sound inconfondibile al quale alludo e che sono qui a magnificare con quest’ultima scoperta firmata Underground Youth. Interessante formazione indie rock del Regno Unito che con Dystopia (arrangiata solo con voce, chitarra acustica e armonica a bocca) riesce addirittura a strizzare l’occhio al grande Bob Dylan. Insomma, per ora un bel “mi piace” a Delirium ma, se l’eccitazione dovesse continuare a ripetersi nei prossimi ascolti, sicuramente lo vedrete anche nella mia top ten del 2011. (Luca D’Ambrosio)

Discografia
Low Slow Needle EP – 2011
Delirium LP – 2011
Sadovaya LP – 2010
Mademoiselle LP – 2010
Voltage LP – 2009
Morally Barren LP – 2009

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I miei dischi preferiti del 2011 (10+10+5)

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Ecco i miei dischi preferiti del 2011.

I primi dieci

Bon IverS.T.
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The War On DrugsSlave Ambient
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WilcoThe Whole Love
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Gruff RhysHotel Shampoo
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J MascisSeveral Shades of Why
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PJ HarveyLet England Shake
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William FitzsimmonsGold In The Shadow
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The Sand BandAll Through The Night
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The Underground YouthDelirium
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Sound Of RumBalance
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I secondi dieci

Josh T. PearsonLast of the Country Gentlemen
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David LoweryThe Palace Guards
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The WalkaboutsTravels In The Dustland
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The DonkeysBorn With Stripes
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The VaccinesWhat Did You Expect From The Vaccines?
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The Felice BrothersCelebration, Florida
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Marianne FaithfullHorses And High Heels
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Chad VanGaalenDiaper Island
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FinkPerfect Darkness
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Comet GainHowl Of The Lonely Crowd
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5 for extra time

Washed OutWithin And Without
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Work DrugsAurora Lies
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Sea PinksDead Seas

Middle BrotherS.T.
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2562Fever
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Maurizio Blatto – Intervista (2011)

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L’ultimo disco dei Mohicani è uno di quei libri che va letto non tanto per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, quanto invece per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. Una sorta di autopsicoanalisi comparativa che, in parole povere, significa: a chi assomiglio? Al piastrellista in fissa per il funky e le donne di colore o al diabolico e perverso Paragonio che ha “il vizio di accostare qualsiasi artista (che ti piace) a uno (che detesti) lontano anni luce per sensibilità e caratteristiche”? All’audiofilo hardcore o a Mimmo Regghe? A Tony Locomotiva o a Renatino Punk? Ad Autolavaggio o ai gemelli Diufaus? O vi sentite proprio come Maurizio Blatto che passa intere giornate dietro il bancone ad ascoltare i racconti più disparati e bizzarri dei clienti? Insomma, di storie e di personaggi con cui confrontarsi non ne mancano. Perché Backdoor, storico negozio di dischi di Torino, è un piccolo universo fatto di veri e propri cultori musicali, più o meno folli, ma anche di improvvisati frequentatori che, varcando la porta d’ingresso, sono capaci di porre le domande più assurde di questo mondo, del tipo: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?” oppure “Morricone era uno dei Camaleonti?” (ML 75) Di questo e altro abbiamo provato a parlarne, più o meno seriamente, direttamente con l’autore. Buon divertimento.

Appena ho avuto il tuo libro tra le mani, la prima cosa che ho letto e che naturalmente mi ha colpito è stata la tua breve nota biografica: “Nato nel 1966, ha accantonato sul nascere una carriera da avvocato preferendo Backdoor, storico negozio di dischi cittadino […]”. La prima domanda stupida che mi viene in mente è questa: come si trova la forza e il coraggio di abbandonare, dopo anni di studi, una possibile quanto redditizia professione da avvocato per lavorare in un negozio di dischi?
Beh, ci ho provato. Sono stato forse il primo a laurearmi con una tesi sulle direttive europee di quella che poi sarebbe diventata la legge 626 (sicurezza sul lavoro). Io speravo di trovare una collocazione sul versante della difesa dei lavoratori. Non mi cercò nessuno. In compenso mi chiamavano tutte le grandi aziende, e per i motivi opposti. Una volta mi proposero un’assunzione immediata nell’ufficio del personale di una grande industria. Vendevano aerei da guerra in Siria. Io tornavo a casa e avevo Billy Bragg sul giradischi. Telefonai: “Mi spiace. Avete puntato sulla persona sbagliata”. Non avrei mai potuto farcela. Mi presero in un grande studio, mentre andavo in tribunale avevo Rockerilla e l’NME nella borsa. Mi chiudevo nella mia stanza e ascoltavo i Minutemen nel walkman. Non sentivo le chiamate che arrivavano dalla segreteria.Bussai alla porta del titolare dello studio e dissi “Mi spiace. Avete puntato sulla persona sbagliata”. Di nuovo capii che non avrei mai potuto farcela. Il giorno dopo andai a fare il commesso nel mio negozio di dischi preferito. I miei non dissero nulla, ma capirono lentamente. La mia compagna di allora, oggi mia moglie, mi sostenne. Moralmente ed economicamente. Billy Bragg e i Minutemen non lo seppero mai.

La nota biografica, poi, si chiude con “L’ultimo disco dei Mohicani è il suo primo libro”. Ecco, quindi, che scatta immediatamente la seconda domanda, altrettanto banale: come si arriva a pubblicare il primo libro a 44 anni, in un’epoca in cui ci sono autori che neanche a trent’anni hanno pubblicato dischi e libri a volontà?
Scrivo da più di quindici anni su Rumore e ho spesso collaborato con riviste musicali, occupandomi talvolta anche di letteratura e sport. Non avevo mai preso seriamente in considerazione l’idea di scrivere un libro. Sono lento, tendo a rimandare tutto all’ultimo momento (ma sono puntualissimo). Seppur in modo svagato, elaboro però in continuazione. Credo fermamente nella necessità di fare poche cose, ma bene. E nell’obbligo di seguirle finché si può, promuoverle e assecondarle. In un mondo di tutto e di più, io sostengo il “meno è meglio”. Quindi mi sono svegliato tardi. L’idea di questo libro ce l’avevo però da tempo, questo sì. Fermentava dentro e alla fine si è tramutata in una vera esigenza.

Quanto tempo ci hai lavorato sopra?
Molto poco e a tratti. Soprattutto notti e qualche pomeriggio strappato agli impegni di famiglia (una bambina che esce da scuola, hai comprato il latte?, l’altra bambina che esce dall’asilo, cazzo c’è una perdita in cucina!), al lavoro in negozio e alle scadenze delle riviste. Ho sempre vagheggiato di andarmene via un paio di settimane a “scrivere il mio libro”, ma è stato impossibile. Ho subaffittato una stanza nello studio dove lavora mia moglie e stretto i tempi. In totale, e con pause lunghissime in mezzo, direi sei mesi circa.

Perché proprio Castelvecchi editore?
Mi aveva cercato Arcana per un progetto diverso, più strettamente musicale. Bisognava seguire un gruppo, fare interviste e muoversi. Impossibile per me in quel periodo. A Gianluca Testani, direttore artistico di Arcana, parlai però del progetto di quello che sarebbe poi diventato L’ultimo disco dei Mohicani e gli fece leggere quel poco che avevo già scritto. Lui ne fu entusiasta sin dall’inizio. Il passaggio a Castelvecchi, casa editrice gemella, lo concordammo insieme, perché il libro potesse nascere in un ambito più strettamente narrativo e meno musicale. Non ho mai contattato nessun altro editore. Per me è determinante lavorare con le persone che mi piacciono e sono gentili con me. Gianluca è stato uno di questi. Firmare un contratto e avere una data di consegna è stato fondamentale. Io mi conosco bene e so che soltanto gli obblighi mi spronano a produrre.

Penso che L’ultimo disco dei Mohicani vada letto non solo per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, ma anche per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. In fondo un negozio di dischi è quasi sempre frequentato da gente fissata, o no? Quando hai capito che la tua laurea in giurisprudenza si sarebbe ben presto trasformata in una laurea in psicologia?
Alla fine sono diventato come un taxista newyorchese, che non si stupisce più di nulla. La musica e il collezionismo sono due (splendide) dipendenze che selezionano già alla porta un certo tipo di umanità, ma davvero io credo di avere una sorta di calamita che attira i caratteri sghembi. La gente ha bisogno di essere ascoltata, si “apre”, e dopo poco l’ordinario va in soffitta. Di sicuro quando mi hanno chiesto “Che Guevara ha fatto più niente?” ho capito che non si tornava più indietro.

Conciliare lavoro e passione non sempre può risultare piacevole. C’è stato il classico momento in cui avresti voluto abbandonare il tuo lavoro e goderti le tue passioni, in perfetta solitudine, da semplice consumatore finale?
Onestamente accade spesso. Culli questa idea di essere a casa ad ascoltare Nick Drake mentre fuori nevica. Talvolta fai il pieno di “parole” e scoppi. Probabilmente accade a chiunque abbia fare con il pubblico. Ma altrettanto sinceramente la condivisione di questa insana passione è ancora un punto forte. Le classifiche, le analisi dei brani, le lista di ricerca, il pacco appena arrivato dall’Inghilterra: è ancora un bello spasso.

Oggi rispetto a ieri, cos’è cambiato nell’attitudine culturale dell’appassionato di musica? E cosa invece è rimasto pressoché immutato?
L’appassionato che ha iniziato con il supporto fisico, vinile o cd che sia, è rimasto in buona parte lo stesso. Anzi, in molti i casi ha estremizzato la sua passione/ ossessione. Chi comprava tre cd all’anno e adesso scarica tonnellate di files senza nome dall’ufficio, non ha mai fatto testo. Sulle nuove generazioni la smaterializzazione della musica e la sua apparente mancanza di valore (e non solo monetario) ha tracciato una linea netta. Ma ultimamente ho notato un piacevole ritorno dei giovanissimi. Ipod e vinile stanno diventando un connubio diffuso.

Qual è la tua opinione circa le webzine che fanno critica musicale?
Vanno benissimo, purché siano ponderate e non buttate di getto. Non amo il bloggerismo d’assalto, i giudizi di pancia e livorosi. La possibilità di pubblicare immediatamente on line spesso si porta dietro una mancanza totale di filtro, una sorta di autocensura che, a ogni livello (carta stampata compresa), andrebbe più praticata.

È inutile dire che ho trovato il tuo libro davvero bello e divertente oltre che pieno zeppo di riferimenti. Mi chiedevo, però, se tutti quei personaggi e quelle situazioni sono davvero reali o se in parte sono frutto della fantasia dello scrittore Maurizio Blatto?
Drammaticamente reali. Io ho apportato giusto qualche arrotondamento narrativo. E, in un’ottica di protezione dei collaboratori di giustizia, ho cambiato qualche nome per salvaguardare la libertà di alcuni compratori selvaggi. Da scrittore, se avessi inventato le storie, temo che mi sarei auto cassato. Tipo “No, a questa non ci crederebbe nessuno”.

Che fine ha fatto, allora, l’uomo che ha inventato i Massive Attack? L’hai più visto o sentito? (ndr, sorrido)
Sparito. Per fortuna mi verrebbe da aggiungere. In realtà sono io che gli dovrei qualcosa. Beissline è il pezzo che funziona di più durante le presentazioni e il fatto che gli Offlaga Disco Pax lo abbiano sempre letto (e musicato) durante i bis del loro ultimo tour è stato per me un grandissimo veicolo promozionale. Oltre che un evidente motivo d’orgoglio. Dove sarà? Magari sta inventando il genere musicale che sconvolgerà il prossimo decennio. Chissà.

C’è stato qualche cliente che leggendo il libro si è riconosciuto in uno dei personaggi da te descritti ed è venuto in negozio o ti ha chiamato al telefono per lamentarsi o per complimentarsi?
Io avevo avvertito tutti. Guardate che sto scrivendo un libro su Backdoor, magari ci finite dentro… Praticamente tutti mi hanno dato carta libera, felici in ogni caso di venir rappresentati e inseriti nel nostro amato microcosmo. Ma succede spesso che qualcuno che è stato descritto, anche ferocemente, mi dica: “Comunque mi sono riconosciuto!”. Allora mi tremano i polsi e chiedo “Ah sì, dove?”. E loro, immancabilmente “Eh, in quel capitolo dove si parla delle mogli che rompono i coglioni! Che vita dobbiamo fare!”

Dentro questo libro c’è un po’ tutto quello che il rocker e l’appassionato di musica rock cerca: sesso, sentimento, divertimento ma soprattutto il fervore per quel background culturale che ci spinge a leggere certi libri, a vedere certi film e ad ascoltare certi dischi. C’è qualcosa che non hai scritto e che avresti voluto aggiungere?
Sesso soprattutto degli altri direi (vedi il paragrafo di Marcello), ma capisco cosa intendi. Oltre a
ciò che dici mi preme il senso di appartenenza. Tribù, sottocultura, manipolo di snob, conventicola di “tuonati”. Qualsiasi cosa sia è un sentire fondamentale. Nel libro ho messo tutto quello che ritenevo importante e funzionale al ritmo della narrazione. Incredibilmente mi sono scordato di “Quando ho stretto la mano al Presidente del Kazakistan”, destinato a diventare una sorta di bonus track del futuro.

Per caso stai già pensando di scrivere un altro libro?
Come accennavo prima, sono nella fase dell’elaborazione. Ci penso con una certa continuità. Tenterei un romanzo, mantenendo alcune caratteristiche mohicane. Territorialità e linguaggio soprattutto.

Credo che i negozi di dischi in qualche modo si somiglino un po’ ovunque, per clientela, per atmosfere, per situazioni talvolta anche assurde e imbarazzanti, soprattutto per chi entra per sbaglio o per la prima volta in simili ambienti. Pensi che andrebbe ratificata una legge o una circolare interna tra i negozianti del settore che obblighi a esporre all’esterno un cartello a caratteri cubitali del tipo: “Attenzione: questo è un negozio di dischi”?
L’insegna potrebbe aiutare, soprattutto quando entrano e ti chiedono un dvd di George Clooney o una grammatica in spagnolo…

Consiglieresti mai questo lavoro alle tue figlie?
Non direi, penso che vendere dischi diventerà come fare il liutaio o aprire una bottega di caccia e pesca. Qualcosa di simile a quelle occupazioni che vedi nelle saghe di paese, stile “gli antichi mestieri”. Detto questo per me rimane tra i lavori migliori del mondo. Di sicuro auguro alle mie due figlie di poter fare una professione che le gratifichi e le rappresenti almeno in parte. Banale e disperato come auspicio, mi rendo conto. Ma credo valga la pena di rischiare. E accontentarsi, certo.

Sempre dalla tua nota biografica, leggo: “Dovendo scegliere, sceglie il vinile”. Quali in particolare?
Drammaticamente tutti. I vinili intendo, da quelli pregiati e irraggiungibili, fino alle schifezze da mercato dei disgraziati. Gli originali della Motown e il 45 con i discorsi di Papa Giovanni. Tutto mi seduce in qualche modo. Pochi oggetti come il vinile hanno la capacità di catapultarti in un’epoca distante o in una dimensione parallela. I 10” della Sarah records con le copertine fiorite e le raccolte disco anni settanta con scritto a biro “Stefania sei bona” sul retro. Tutto mi comunica qualcosa. Quelli che mi hanno segnato irrimediabilmente? Per motivi diversi, i tre fondamentali sono l’esordio degli Smiths, la banana dei Velvet Underground e Lungo i bordi dei Massimo Volume.

Il solito gioco: qual è stato il tuo disco del 2010?
Cattive Abitudini dei Massimo Volume. Un ritorno da me desideratissimo, ma con risultati artistici superiori ad ogni aspettativa. Ispirato dall’inizio alla fine, intensissimo.

Un libro e un film che invece ami appassionatamente e che, spesso e volentieri, ti è capitato di tornare a leggere o a guardare.
Al solito, difficile scegliere. Ma direi Si spengono le luci di Jay McInerney. Affresco di perdita e caduta di un’eleganza infinita (io muoio ogni volta dietro alle storie delle coppie che si sgretolano. Insieme al tema della sopravvivenza è la mia cosa). Il film? Butch Cassidy, probabilmente per gli stessi motivi elencati sopra.

Buttiamola anche sul polemico (ndr, sorrido). Pensi davvero che Tunnel Of Love sia uno dei dischi peggiori di una discografia brillante quale quella di Bruce Springsteen? Sono convinto che quel disco, pur non essendo un capolavoro, col passare degli anni abbia riacquistato la sua giusta dignità, non credi?
Tanto per chiarirci ho paura degli springsteeniani, come di tutti i fedeli intransigenti di qualsiasi chiesa. Non ritengo un cattivo disco Tunnel of Love. Temo addirittura di averlo. È malinconico e per nulla machista dopo gli steroidi, magari involontari, di Born in The U.S.A. Ma è un innegabile classico degli usati. Il rocker stereotipato (padano o dell’Arkansas che sia) lo vive come un tradimento. È il tiramisù portato alla grigliata delle salsicce di cervo. Non va. Quindi tutti se lo sono venduto. È pieno di chiaroscuri con suoni sbagliati. Non ha la bellezza disperata e scarna di Nebraska, ma è un po’ tramonto anni ottanta. Il che me lo rende simpatico. Dopo quel disco tutto quello che ho sentito di Springsteen, francamente, mi è parsa poca cosa.

Senti, ma “a livello di Italia”, musicalmente, come siamo messi?
Ah! meglio che a livello di Spagna, tanto per citare la richiesta bizzarra del libro. Io sono un grande appassionato di musica italiana, non soltanto per motivi di lingua, ma per la sua vera qualità. Detesto lo snobismo “ah no, sai che seguo soltanto gli americani” e simili. Ritengo che siano moltissimi i gruppi interessanti in giro. I miei preferiti? Massimo Volume, Perturbazione, Offlaga Disco Pax e Altro. E tra le ultime cose Distanti, Piet Mondrian e Duemanosinistra.

Una volta, diciamo una ventina di anni fa, ero fuori un negozio di dischi mentre aspettavo che aprisse. Ricordo bene ancora oggi che c’era una persona dietro di me con i capelli lunghi e un giubbetto di jeans tappezzato di teschi e di toppe raffiguranti gruppi come Iron Maiden, AC/DC, Slayer e affini. Per tutta l’attesa non fece altro che emettere suoni di batteria con la bocca (si fa per dire) portando il ritmo con la mano destra sulla gamba destra, quasi fosse a un concerto. Devo ammettere che quel tipo di atteggiamento fu abbastanza noioso e tracotante. A distanza di tanti anni ti chiedo, visto che tu ne hai viste di tutti i colori, che tipo di cliente è l’ascoltatore di Metal? Poi: perché a un certo punto avete deciso di non trattare più, o meglio di accantonare, questo genere di musica a Backdoor?
Io non sono mai stato un metallaro, ma ho sempre avuto simpatia per il loro atteggiamento. Sono dei fan assoluti e non temono il ridicolo, nemmeno quando si riempiono di mostri, croci grosse come quelle del Cimabue e inserti leopardati sul giubbotto. Mantengono una sorta di devozione per il genere anche in tarda età, e persino chi non è più metallaro in genere parla con un sorriso del suo periodo Saxon. Quando Backdoor, all’epoca Metalbridge, aprì nel 1982 scelse il metal per ragioni direi commerciali. Io arrivai nel 1994, quando tutto il metallo era già stato accantonato con rara lungimiranza. Una mezza follia, il metal vende sempre. Attualmente ha un suo repartino in vinile sopra il mobile del jazz, prezzo unico e baraonda senza ordine alfabetico. Ma sopravvive.

Devo ammettere che, dopo aver letto il tuo libro, mi sono sentito una “persona normale”. Grazie!
Ottimo, vuol dire che ti sei riconosciuto in questa via di mezzo tra il villaggio di Asterix e il Circolo Pickwick. È una compagnia “disturbata” ma accogliente. Un po’ questo effetto consolatorio di non sentirsi solo ha fatto anche la fortuna del libro. Ci si annusa e riconosce al tempo stesso. L’importante è non identificarsi con i casi davvero clinici che abbondano nella prima parte del libro. Io lo dico sempre, “non vi sembrava che parlassi di voi? Grande, siete sani”. Ma nel caso qualcuno cominciasse ad avere dei dubbi, dagli il mio indirizzo. Sono sicuro di avere il disco giusto per guarire anche lui.

Foto: Luca Saini

ML – UPDATE N. 76 (2011-03-07)



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The Felice Brothers – S.T. (2008)

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Tre fratelli – Ian, Simone e James Felice – della periferia di New York che vivono la strada suonando in ogni angolo di metropolitana, facendo i lavori più disparati e saltando come dei perfetti hobos di treno in treno. Un continuo peregrinare che li porta dapprima all’incontro con Christmas, abile giocatore di dadi che si unisce alla band, e successivamente a un contratto discografico con la Loose Music con la quale – dopo aver autoprodotto Through These Reins and Gone (2006) – realizzano nel 2007 il primo vero album d’esordio intitolato Tonight At The Arizona. Passa soltanto un anno ed ecco, però, che i “Fratelli Felice” stringono un nuovo accordo discografico, questa volta con l’encomiabile Team Love Records, con cui producono questo nuovo e omonimo lavoro che, quantunque ricalchi timbriche vocali e sonorità che ricordano Bob Dylan e la Band, ci entusiasma e ci travolge emotivamente come pochi dischi hanno saputo fare nel corso dell’anno appena trascorso.[1] Con alcuni brani che sembrano usciti direttamente da Blonde On Blonde e con passaggi che vanno dritti al cuore quali Little Ann, Goddamn You, Jim, Saint Stephen’s End e Murder By Mistletoe, questa seconda meraviglia della formazione yankee passa in rassegna tutta la tradizione folk rock americana (e non solo). Un disco che ci accarezza e ci ubriaca di emozioni, prima con la baldanzosa Frankie’s Gun!, che sembra provenire addirittura da Rum, Sodomy & the Lash dei Pogues, e poi con il country-western di Whiskey in My Whiskey e Take This Bread, quest’ultima quasi – e ribadisco quasi – dagli approcci e dalle espressioni dixieland. Helen Fry, Greatest Show On Earth e Wonderful Life, invece, sono pezzi dai sigilli blues che racchiudono lo spirito del mai dimenticato Woody Guthrie e che fanno di questa seconda fatica ufficiale dei Felice Brothers una delle migliori uscite del 2008. E non è certamente colpa di Ian Felice se la sua voce ricorda un illustre personaggio della storia della popular music che all’anagrafe è registrato come Robert Allen Zimmerman. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – Update n. 61 del 28 gennaio 2008



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Arab Strap – Monday at the Hug & Pint (2003)

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La mia vicenda con Monday at the Hug & Pint degli Arab Strap potrebbe essere paragonata alla storia di Salim (se non ricordo male, credo di averla letta su un vecchio diario realizzato da una comunità di recupero per tossicodipendenti) che si può riassumere così: “Salim era un giovane pescatore che viveva sulle rive del fiume Gange. Un giorno, mentre tornava da una pesca poco proficua, si mise a pensare a cosa avrebbe fatto se fosse stato ricco. Dopo aver percorso qualche chilometro di strada, il suo piede calpestò un sacchetto che conteneva qualcosa di simile a sassolini. Senza prestare particolare attenzione, lo raccolse e cominciò a gettare i sassolini nel fiume con lo sguardo perso nel vuoto e una speranza nel cuore. Lanciò un primo sasso, poi un secondo e così di seguito. Tra un tiro e l’altro immaginava una casa migliore, un posto migliore, una vita migliore insomma. Giunto all’ultimo sasso, lo prese e lo rigirò tra le dita, l’osservò attentamente e si accorse, con immenso rammarico, che quel sasso era una pietra preziosa.” Ecco, qualcosa di analogo è accaduto al sottoscritto ascoltando questo quinta fatica discografica di Aidan Moffat e Malcolm Middleton, ovviamente con conseguenze meno sciagurate e con un epilogo di certo recuperabile (stiamo pur sempre parlando di musica, o no?). Ero convinto che il duo scozzese difficilmente avrebbe realizzato un altro disco di qualità dopo The Red Thread del 2001, e per questo motivo avevo accolto la notizia dell’uscita del nuovo disco con poco entusiasmo e scarsa partecipazione. Insomma, non avevo alcuna intenzione di ascoltarlo. Allo stesso modo di Salim stavo cercando, altrove e non so dove, una “felicità” che invece era a portata di mano. A distanza di alcuni mesi, invece, scoprire quest’album è stato un po’ come trafugare nei propri sentimenti trasformando uno sbadiglio in un sorriso. Ciò grazie alle atmosfere da camera di Who Named The Days, alle modulazioni armoniche di The Shy Retirer e di Serenade e agli sviluppi indie folk di Loch Even Intro, Loch Even e Act Of Wow. Un album ben equilibrato dove alle quisquilie anestetiche di Meanwhile, at the Bar, a Drunkard Muses e Pica Luna si contrappongono gli spasmi conturbanti di Fucking Little Bastards (quando i Sonic Youth insegnano l’arte del rumore!) e le dissonanze post-country e in odore di new wave di Flirt (l’unico brano che sembra discostarsi da tutti gli altri). Composto da archi, beat elettronici e passaggi elettroacustici, il nuovo lavoro in studio del duo di Glasgow si rivela incantevole e prezioso come pochi altri oggigiorno, praticamente una piccola gemma del 2003.[1] (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 59 del 21.11.2008



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The Band of Black Ranchette – Still Lookin Good To Me (2003)

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Nato a metà degli anni Ottanta dal talento creativo di Howe Gelb, come progetto parallelo a quello ispido e tortuoso dei “più celebri” Giant Sand, The Band Of…Black Ranchette propone, a differenza del “Gigante di Sabbia”, sonorità americane meno ruvide e più tradizionali. Still Lookin’ Good To Me, quarto album della serie, ci consegna – dopo un gap di circa 13 anni e a distanza di 18 dall’esordio discografico – un Gelb in forma smagliante che per l’occasione scrive quattordici belle canzoni, pardon, dodici se escludiamo l’arrangiamento del brano tradizionale Working On The Railoard e Square scritta insieme all’amico Rainer Ptacek (1951-1997) – che riflettono le sfumature e gli sviluppi delle sue recenti produzioni. Composizioni cave e imbevute di leggiadra poesia, sincopata ritmicità e profumi di tex-mex; brandelli di sentimento che il Nostro songwriter riesce a plasmare meravigliosamente, trasferendoli all’interno di un album tiepido ma allo stesso tempo vivo e pulsante, levigato ma per nulla prevedibile. Una fatica dalle strutture lo-fi e dalle consistenze country rock che vede, oltretutto, la partecipazione di una “masnada” di cantanti e musicisti da brivido. Intervengono, infatti, John Convertino che accarezza i tamburi in The Train Singer’s Song, Square Bored Lil’ Devil e altre ancora, Neko Case che canta in Mope A Long Rides Again e in Getting It Made (quest’ultima assieme a Richard Bruckner), Kurt Wagner che canticchia (mentre guida) in The Muss Of Paradise, Jason Lytle dei Grandaddy che, oltre a cantare, suona diversi strumenti in Working On The Railroad, M. Ward che presta la sua slide guitar in Rusty Tracks e, udite udite, la regina delle regine Chan Marshall (alias Cat Power) che per pochi istanti si inserisce in My Hoo Ha. A tutto il resto, invece, ci pensa la chitarra e la voce dell’immenso Howe Gelb che modella un’opera a sua immagine e somiglianza, sempre in bilico tra genio e sregolatezza. Ad ascolto ultimato, Still Lookin’ Good To Me si rivela un lavoro vibrante e fuori dal tempo allo stesso modo dell’immagine riprodotta sulla copertina: una vecchia foto presa da un giornale di Tucson del 1973 trovato come addobbo lungo una strada. Un disco che non dovrebbe mancare nella vostra collezione di bellissimi loser. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 53 del 07.04.2008



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Joseph Arthur – Redemption’s Son (2002)

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Nel marasma musicale d’oggigiorno, fitto di nuove e repentine uscite discografiche che il più delle volte rendono spasmodici i nostri ascolti, capita sempre più spesso che alcuni dischi, così particolarmente piacevoli, durino giusto il tempo di una breve stagione musicale per poi essere dimenticati in un angolo recondito dei nostri scaffali. È il caso di Redemption’s Son, terzo album in studio del musicista americano Joseph Arthur, lasciato in disparte per un lungo periodo e ripescato casualmente in occasione della solita riorganizzazione di fine anno. Scoperto da Peter Gabriel attraverso la sua Real World Records, l’artista statunitense (originario di Akron, Ohio, ma trasferitosi da diverso tempo a Brooklyn, New York), dopo alcuni EP e due full-length, rilascia questo lunghissimo CD contenente, appunto, ben 73 minuti di vibrante pop rock d’autore. Sedici oneste canzoni che si muovono tra Beck e Jeff Buckley, capaci di corrompere cuore e cervello attraverso le atmosfere folk di Honey And The Moon, le pieghe soul di Could Be In Jail e i riverberi etnici e psichedelici di National Of Slaves. Un lavoro che coniuga fragilità elettroacustiche (Termite Song), motivi ruffiani (September Baby) e miscugli di rumore e melodia (Permission) senza mai perdere, tuttavia, quell’equilibrio fatto di intensità e romanticismo rintracciabile nella dolce ma rockeggiante Blue Lips e in Favorite Girl, talmente intima da sembrare scolpita nell’anima. Una fatica, leggera e malinconica, suggellata da tracce come Innocent World, passaggio che sembra sospeso tra i Radiohead e Neil Young, e Buy A Bag che, invece, dà l’impressione di riecheggiare qualcosa di Prince. Segnaliamo, infine, You Are The Dark, nenia dalle tinte country, e la ballata conclusiva You’ve Been Loved. Dopo Big City Secrets del 1997 e Come To Where I’m From del 1999, Redemption’s Son è un altro lavoro pieno d’energia che, nonostante la durata eccessiva, non scade mai nella mediocrità. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – Update n. 61 del 28 gennaio 2008



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